Russia-Ucraina: non esiste una pace giusta
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Le ostilità tra Russia e Ucraina, iniziate nel 2014 e degenerate nella guerra su larga scala del 2022, ha messo a nudo le fragilità strutturali dell’ordine internazionale contemporaneo. A distanza di oltre tre anni dall’inizio del conflitto, le possibilità di una soluzione diplomatica appaiono sempre più legate alla domanda se sia possibile concepire una “pace giusta” in Ucraina?
Nel dibattito internazionale, questa espressione è stata usata in modo frequente ma raramente definito in termini operativi. Che cosa significa, in termini concreti, “giusta”? Riguarda l’integrità territoriale ucraina, il riconoscimento delle violazioni del Diritto internazionale da parte della Russia, la punizione dei crimini di guerra, la restituzione dei territori occupati, o l’ottenimento di garanzie di sicurezza vincolanti per Kyiv? Oppure è un costrutto morale, più vicino alla retorica che alla realpolitik?

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
La parola “giustizia” è spesso svuotata di applicabilità concreta. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina, l’illusione di una pace giusta ha ceduto il passo alla logica del realismo geopolitico.
La pace giusta non è l’unica forma di pace che può impedire che il conflitto Russia-Ucraina diventi il prototipo di guerre future, in cui la forza diventa strumento per ridefinire i confini.
Parlare di “pace giusta” in un contesto asimmetrico come questo non è solo teoricamente illusorio, ma anche strategicamente fuorviante.
Una pace imposta è fragile. Una pace giusta, anche in contesto asimmetrico, può diventare duratura.
Un compromesso territoriale tra Russia e Ucraina s’impone non come un cedimento, ma come l’unica opzione geopoliticamente sostenibile.
Cedere territori sotto la minaccia delle armi non è un compromesso: è una capitolazione geopolitica.
Nel conflitto Russia-Ucraina, l'Occidente non sta mediando la pace, sta gestendo, dirigendo e imponendo i suoi interessi geostrategici.
L'Occidente è impegnato in una mediazione faticosa, diplomatica, multilaterale, il cui scopo è evitare che la pace venga imposta unilateralmente da Mosca.
La continuazione della guerra rischia di produrre danni irreversibili sul piano umano e psicologico. Una pace imperfetta può essere la salvezza per milioni di persone.
Una pace a costo di concessioni territoriali, impunità per i crimini di guerra e assenza di riconoscimento giuridico delle violenze subite rischia di cristallizzare il dolore.
In Ucraina non esiste una pace giusta, ma solo compromessi dettati da rapporti di forza
Nella diplomazia contemporanea, la parola “giustizia” sembra evocare un’eco morale potente, ma spesso svuotata di applicabilità concreta. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina, l’illusione di una pace giusta ha ormai ceduto il passo all’implacabile logica del realismo geopolitico. I negoziati non si fondano su principi assoluti, ma sulla legge del più forte, sull’equilibrio tra concessioni, interessi strategici e costi sostenibili. È questa la conclusione, amara ma inevitabile, che emerge da una crescente convergenza di analisi e testimonianze raccolte nei più recenti vertici internazionali, studi accademici e interviste diplomatiche.
Già nel 2022, agli inizi della guerra, l’Occidente aveva fatto proprie le parole d’ordine di una “giusta resistenza”: il ritiro completo delle truppe russe, la restituzione della Crimea e del Donbass, la condanna morale dell’aggressore. Ma a tre anni dall’inizio del conflitto, quel linguaggio appare svuotato. Il terreno, letteralmente e metaforicamente, si è spostato: non si discute più se negoziare, ma come negoziare — e soprattutto quanto cedere. La cosiddetta "giustizia" ha perso presa sul linguaggio operativo della pace.
Secondo Federico Rampini (“Corriere della Sera”), la proposta di "Land for Peace" avanzata da Trump dopo il summit di Anchorage è “una cruda ma realistica alternativa alla guerra perpetua”. Le obiezioni morali – per quanto legittime – non reggono di fronte al fatto che Putin non accetterà mai una pace che implichi la propria sconfitta strategica. La sua forza militare resta intatta, il suo controllo su Crimea e Donbass è consolidato e le sanzioni occidentali non sono riuscite a piegarlo. Fingere che si possa ottenere una “pace giusta” è, secondo Rampini, un lusso che l’Europa non può più permettersi.
L'ex presidente del Senato Pier Ferdinando Casini, intervistato da “La Stampa”, è altrettanto netto: “Sarà la pace possibile, non quella giusta. Valgono soltanto le regole della forza”. Non è un cinismo sterile, ma un richiamo alla storia: i trattati di pace non sono mai scritti in condizioni di parità morale, ma con l’inchiostro dei rapporti di forza. È così che si costruiscono equilibri duraturi, anche se imperfetti. A conferma di ciò, Francesco Pontelli sul “Nuovo Giornale Nazionale” definisce l’espressione “pace giusta” una “contraddizione intellettuale”: come “acqua bagnata”, è un rafforzativo retorico che maschera l’incapacità di accettare il compromesso.
I vertici recenti tra Trump, Zelensky e Putin (documentati da “BBC”, “PBS” e “Sky TG24”) hanno mostrato quanto la diplomazia reale si svolga fuori dai tavoli multilaterali europei e dentro un teatro di potenza bilaterale. L’Europa, troppo vincolata da principi morali e divisioni interne, si è ritagliata il ruolo di spettatore pagante. Il pragmatismo americano — per quanto discusso — ha riaperto il dialogo diretto con Mosca. Il concetto stesso di “giustizia” si è rivelato inefficace: ogni tentativo di fondare la pace su condizioni ideali (restituzione integrale dei territori, processi internazionali, compensazioni) si è scontrato con la totale indisponibilità della Russia a considerare tali scenari.
Patrizio Ricci, su “Vietato Parlare News”, evidenzia come la retorica europea della “pace giusta” abbia “prolungato il conflitto più che avvicinato la pace”. Secondo l’analisi, l’insistenza su condizioni irrealistiche (rifiuto di qualsiasi concessione territoriale, ingresso immediato nella NATO o nell’UE) ha bloccato ogni apertura negoziale e costretto l’Ucraina a combattere oltre le sue forze, sostenuta da un Occidente incapace di decidere. La guerra, nel frattempo, ha mietuto oltre 300.000 vittime tra civili e militari, ha distrutto infrastrutture strategiche e prodotto oltre 12 milioni di profughi, secondo dati ONU.
Non va ignorato che anche all’interno della stessa Ucraina, il consenso per una pace fondata sul compromesso sta crescendo. Il sondaggio Gallup di agosto 2025 mostra che il 69% degli ucraini è favorevole a una soluzione negoziata, mentre solo il 24% insiste per continuare la guerra fino alla riconquista totale. È un’inversione clamorosa rispetto al 2022. La fiducia nelle potenze occidentali è in calo, mentre cresce la consapevolezza che la “vittoria completa” è una chimera costosa.
Alla luce di questi elementi, affermare che “non esiste una pace giusta” in Ucraina significa riconoscere la natura profonda dei conflitti contemporanei: non sono più guerre tra bene e male, ma tra interessi in conflitto e costi inaccettabili. La pace, oggi, è un mestiere sporco che richiede freddezza, compromesso e capacità di guardare oltre la retorica. E se questo significa accettare che la giustizia resti incompiuta, allora forse è un prezzo necessario per evitare nuove generazioni di morti, rifugiati e distruzioni.
Nina Celli, 21 agosto 2025
Una pace giusta in Ucraina è possibile e necessaria per la legittimità dell’ordine internazionale
Rinunciare all’idea di una pace giusta significa accettare, senza condizioni, la legge del più forte come fondamento delle relazioni internazionali. In un mondo già lacerato da disuguaglianze, instabilità e guerre asimmetriche, ciò rappresenterebbe non una soluzione, ma una pericolosa regressione storica. La pace giusta non è un’utopia astratta: è l’unica forma di pace che può impedire che il conflitto Russia-Ucraina diventi il prototipo di guerre future in cui la forza armata diventa strumento legittimo per ridefinire i confini.
Il Diritto internazionale è un pilastro fondamentale dell’ordine mondiale post-1945. Lo Statuto delle Nazioni Unite, la Carta di Helsinki, la stessa esistenza della Corte Penale Internazionale sono fondati sul principio che i confini non si cambiano con le armi. Accettare una “pace possibile” basata su concessioni territoriali, senza una condanna dell’aggressore e senza garanzie giuridiche per l’aggredito, equivale a legittimare l’aggressione stessa. In questo senso, come sottolinea Ursula von der Leyen nei recenti vertici europei (“BBC”, agosto 2025), “non esiste pace senza giustizia, né sicurezza senza verità storica”.
A dispetto delle tesi realiste, la storia mostra che le paci fondate sul compromesso dettato dalla forza sono precarie, ingiuste e generatrici di nuovi conflitti. Esempi sono il Patto di Monaco del 1938, che legittimò l’occupazione dei Sudeti da parte della Germania nazista in nome della pace, ma solo per aprire la strada alla Seconda guerra mondiale. Anche l’accordo di Yalta, spesso invocato dai fautori del realismo, produsse un ordine temporaneo ma iniquo, sfociato in una Guerra Fredda durata quasi mezzo secolo, come ricorda Francesco Pontelli (“Nuovo Giornale Nazionale”), e fu proprio la sua natura di “pace imposta” a lasciarci un’eredità di terrore nucleare.
Sul piano morale e giuridico, una pace “possibile” che cede territori ucraini a Mosca senza garanzie di responsabilità o restituzione costituirebbe una sconfitta per la civiltà giuridica internazionale. Come ricorda Federico Rampini, anche se in tono pragmatico, una delle opzioni sul tavolo è un congelamento del conflitto in stile Corea del Sud. Ma quella soluzione ha funzionato solo in presenza di fortissime garanzie multilaterali e con uno status di sorveglianza internazionale permanente, altrimenti impossibile da replicare nel contesto ucraino senza l’ingresso diretto della NATO o dell’ONU.
Dal punto di vista ucraino, accettare una “pace ingiusta” equivarrebbe a legittimare la perdita del 20% del territorio nazionale, inclusa la Crimea e ampie porzioni del Donbass, in violazione degli accordi di Budapest del 1994, nei quali la Russia si era impegnata a rispettare l’integrità territoriale ucraina in cambio della denuclearizzazione di Kyiv.
Anche sul terreno militare e strategico, la tesi del “realismo” non è così solida. La Russia ha ottenuto successi territoriali, ma al prezzo di centinaia di migliaia di perdite umane, sanzioni devastanti, isolamento economico e politico, e un evidente logoramento militare. L’Ucraina, sostenuta da una vasta coalizione internazionale, ha mostrato capacità di resistenza superiore a ogni previsione, come dimostrato nei rapporti dell’Istituto per lo Studio della Guerra (ISW) e del Pentagono. Con il proseguimento del sostegno occidentale e nuove forme di pressione multilaterale, un ritorno alla linea del 2021 non è impossibile, o quantomeno, può essere inserito in una trattativa più equa.
Dal punto di vista dell’opinione pubblica, il sondaggio Gallup (agosto 2025) è stato spesso citato dai sostenitori del compromesso. Tuttavia, esso rivela che, pur auspicando la fine del conflitto, oltre il 60% degli ucraini rifiuta qualsiasi accordo che implichi il riconoscimento della sovranità russa su territori occupati. La popolazione chiede la pace, sì, ma non una resa camuffata da diplomazia. Una pace imposta, percepita come ingiusta, non avrebbe alcuna legittimità interna e rischierebbe di innescare nuove forme di guerra civile, guerriglia, o destabilizzazione cronica.
C’è, inoltre, un elemento simbolico e strategico che rende indispensabile il concetto di giustizia: la pace giusta serve a dissuadere futuri aggressori. Se oggi la Russia ottiene ciò che ha preso con le armi, domani sarà la Cina a invadere Taiwan, o la Turchia a rivendicare territori greci. Il precedente conterà. Come ha dichiarato Joe Biden nel 2023, “se falliamo nel sostenere l’Ucraina, falliremo nel difendere ogni Stato minacciato dall’espansionismo autocratico”.
La pace giusta, quindi, non è solo una questione morale, ma una necessità strategica, un principio stabilizzatore e un atto di responsabilità verso il futuro. Non c’è vera pace laddove l’ingiustizia viene premiata. Le guerre finiscono, sì, ma solo le paci giuste restano. E oggi, più che mai, l’Ucraina e l’ordine mondiale hanno bisogno di una pace che sia non solo firmata, ma giusta.
Nina Celli, 21 agosto 2025
L’idea di pace giusta è inapplicabile ai conflitti asimmetrici come quello tra Russia e Ucraina
I conflitti contemporanei si sviluppano quasi sempre tra potenze diseguali, e quello tra Russia e Ucraina è emblematico di questa realtà. Parlare di “pace giusta” in un contesto asimmetrico come questo non è solo teoricamente illusorio, ma anche strategicamente fuorviante. Nei fatti, una pace giusta in Ucraina non esiste e non può esistere, perché ogni risultato negoziato sarà sempre il frutto di uno squilibrio strutturale tra le parti. La Russia, potenza nucleare con oltre 140 milioni di abitanti, risorse energetiche sterminate e un esercito tra i più grandi del pianeta, affronta una nazione di appena 40 milioni di abitanti, priva di un arsenale atomico, senza accesso diretto ai mari liberi e completamente dipendente dal supporto occidentale per armamenti, logistica e finanziamenti. Anche ammettendo la straordinaria capacità di resistenza dimostrata da Kyiv, lo squilibrio rimane schiacciante. Le condizioni strutturali di partenza precludono l’equità dell’esito finale.
Come osserva Achille De Tommaso nell’articolo Il circo di Anchorage: Trump, Putin e la grande sagra della pace giusta (“Nel Futuro”), il concetto di “pace giusta” è diventato una formula retorica vuota, usata per nascondere l’incapacità dell’Occidente di accettare la propria impotenza strategica. L’autore sottolinea come l’UE sia ormai confinata al ruolo di “spettatrice pagante” in una trattativa decisa da attori più forti (USA e Russia), e come l’Ucraina, pur centrale nel discorso, sia diventata un soggetto diplomatico marginale. In un conflitto in cui uno dei due contendenti può dettare i termini con la forza — come Putin sta facendo — ogni riferimento alla “giustizia” diventa superfluo, se non dannoso.
Anche Patrizio Ricci, su” Vietato Parlare News”, insiste su un punto fondamentale: nei conflitti asimmetrici, la legittimità giuridica viene rapidamente sostituita dalla logica dei rapporti di potere. La Russia non ha vinto militarmente l’intera guerra, ma ha ottenuto abbastanza da bloccare ogni soluzione “giusta” in senso ideale. E soprattutto, dispone di strumenti di ricatto sistemico — energetici, nucleari, strategici — che rendono impossibile una trattativa simmetrica. Pretendere un ritiro completo delle truppe, la restituzione dei territori o la punizione dei responsabili diventa allora più una richiesta propagandistica che un reale punto negoziale.
Questo tipo di diseguaglianza non è nuovo. Come osservato da Russia Analytical Report (“Russia Matters”, 11–18 agosto 2025), la diplomazia funziona solo quando c’è reciprocità nel rischio e nel potere. In tutti i summit, compreso quello di Anchorage, Putin si è seduto al tavolo da una posizione di forza, nonostante le perdite subite, proprio perché il terreno su cui gioca è strategicamente più vantaggioso. La stessa disponibilità di Trump a ignorare il cessate il fuoco come prerequisito dimostra che gli equilibri attuali vengono costruiti sul “quanto puoi infliggere all’altro”, non su cosa sia moralmente giusto.
Anche il concetto stesso di “giustizia” cambia nei conflitti asimmetrici. Per l’Ucraina, giusto significa integrità territoriale, indipendenza, ingresso nella NATO o nell’UE. Per la Russia, significa neutralizzazione del vicino, esclusione da blocchi occidentali e riconoscimento della Crimea. Come possono coesistere visioni tanto inconciliabili? Nessun compromesso può contenere entrambe, e per questo, nessuna pace potrà essere davvero giusta.
Il caso della Corea del Sud è spesso evocato come modello di compromesso riuscito in un contesto asimmetrico, ma è un esempio imperfetto. La tregua del 1953 ha solo congelato il conflitto, non l’ha risolto. Il Nord è rimasto una minaccia permanente, il Sud una democrazia militarmente sorvegliata, e ancora oggi non esiste un trattato di pace vero e proprio. Proporre una soluzione simile all’Ucraina significa proporre una guerra permanente in forma latente, non una pace. Come afferma Federico Rampini, “la Corea è sopravvissuta, ma a quale prezzo?”.
C’è inoltre la questione dell’effetto domino. Se la comunità internazionale accetta che in un conflitto asimmetrico il più forte imponga le condizioni, si apre la porta a nuove aggressioni “selettive”. Taiwan, Moldavia, le repubbliche baltiche, le zone contese del Caucaso: tutti diventano vulnerabili. La “pace ingiusta” in Ucraina stabilisce un precedente che rafforza l’asimmetria globale. Ma ignorarlo non lo elimina. Lo conferma anche Pier Ferdinando Casini, che, pur favorevole al compromesso, ammette: “Nelle guerre, valgono solo le regole della forza”.
In definitiva, il concetto di “pace giusta” crolla sotto il peso delle disuguaglianze strutturali. Nei conflitti asimmetrici, ogni pace è per definizione il risultato di un equilibrio impari, e ciò che può sembrare giusto per una parte è inaccettabile per l’altra. Il compromesso non è l’ideale, ma è l’unico risultato possibile quando l’unico criterio riconosciuto è quello della sopravvivenza e della stabilizzazione.
Nina Celli, 21 agosto 2025
Una pace giusta è sempre possibile, anche in conflitti asimmetrici come quello tra Russia e Ucraina
L’asimmetria nei conflitti è una costante della storia, ma non per questo deve sancire la morte della giustizia. Al contrario, è proprio nei conflitti più sbilanciati che il principio di una pace giusta assume il suo significato più profondo e urgente. Non si tratta di ignorare i rapporti di forza, ma di costruire un esito sostenibile, riconosciuto dalle parti e dal sistema internazionale, che garantisca stabilità nel tempo. Una pace imposta è fragile. Una pace giusta, anche in contesto asimmetrico, può diventare duratura. Il caso Ucraina-Russia è paradigmatico. Certo, la Russia è più grande, più armata, dotata di un arsenale nucleare e di risorse energetiche strategiche. Ma l’asimmetria militare non implica automaticamente superiorità morale o politica. In guerra, come nella diplomazia, il diritto non è riservato ai più forti. È questa la lezione del Diritto internazionale post-bellico. E proprio per questo l’idea di una pace giusta non è retorica: è un principio guida che consente alla comunità globale di riconoscere legittimità, delegittimare l’aggressione e costruire un equilibrio multilaterale.
Una pace giusta, nel contesto ucraino, significa riconoscere la sovranità dell’Ucraina entro i confini internazionalmente riconosciuti; garantire meccanismi di sicurezza credibili; fornire garanzie internazionali contro future aggressioni. Tutto questo non esclude la trattativa, ma ne determina i limiti morali. Una pace che ratificasse la conquista militare di territori – come la Crimea o il Donbass – senza alcuna responsabilità giuridica, sarebbe un precedente pericoloso. Lo ha sottolineato anche Charles Kupchan, ex consigliere della Casa Bianca, in un’intervista alla “PBS” (agosto 2025). Kupchan riconosce la complessità di ottenere una pace duratura, ma insiste sul fatto che “ogni accordo che ignori la legalità internazionale e i principi dell’autodeterminazione non può essere stabile”. La “pace possibile” che accetta l’annessione russa non è realismo: è normalizzazione dell’aggressione.
L’opinione pubblica internazionale è sensibile a questa dinamica. Come riportato nel sondaggio Gallup (agosto 2025), sebbene la maggioranza degli ucraini auspichi un negoziato, oltre il 60% rifiuta concessioni territoriali in assenza di garanzie, riparazioni e giustizia per i crimini subiti. Ciò dimostra che l’aspirazione alla pace non è cieca, ma selettiva: l’Ucraina non chiede l’impossibile, ma nemmeno l’umiliazione. Come osserva il presidente Zelensky, “una pace senza giustizia è solo una tregua che prepara la prossima guerra”.
Anche in altri conflitti asimmetrici si sono ottenuti esiti equilibrati. Il processo di pace in Sudafrica negli anni ‘90, ad esempio, vide l’African National Congress negoziare con un governo molto più potente sul piano militare e internazionale. Eppure, grazie alla legittimazione internazionale e al sostegno multilaterale, si arrivò a un accordo basato su principi condivisi, non sul predominio. Un altro esempio è Timor Est, liberata dopo anni di occupazione indonesiana. Anche lì la giustizia appariva irraggiungibile, eppure è arrivata, con diplomazia, pressione multilaterale e volontà politica.
Nel caso ucraino, la pace giusta può essere raggiunta solo se si rispettano alcuni criteri minimi non negoziabili: la restituzione almeno parziale dei territori, meccanismi di sicurezza affidabili (con monitoraggio internazionale), un processo di ricostruzione sostenuto da fondi internazionali e riconoscimento ufficiale delle violazioni subite dalla popolazione civile. Come evidenzia “La Stampa”, riportando le parole del senatore Casini, “non basta l’articolo 5: servono garanzie concrete”. Ma il fatto che siano necessarie non implica che non siano possibili. Inoltre, la posizione della Russia non è monolitica. Secondo “Russia Matters” (Rapporto 11–18 agosto 2025), all’interno dell’establishment russo ci sono segnali di apertura: figure moderate chiedono un congelamento del conflitto, ritiro parziale, negoziati multilaterali. La pressione diplomatica può dare risultati, ma solo se ha come fondamento una proposta di pace equa. Accettare la visione realista secondo cui “il più forte detta legge” chiuderebbe ogni spiraglio a queste correnti interne.
Inoltre, c’è la questione della legittimazione globale. Una pace iniqua destabilizzerebbe l’intero ordine internazionale, minando la fiducia nei meccanismi multilaterali: ONU, OSCE, Unione Europea. Non si può permettere che il messaggio implicito sia “attacca finché conquisti, poi negozia”. Come afferma David Kramer, ex vicesegretario di Stato americano, “una pace giusta in Ucraina è essenziale per la sicurezza di tutto il mondo democratico”. L’alternativa è la legge della giungla geopolitica.
Anche nei conflitti asimmetrici, dunque, è possibile e necessario difendere i contorni di una pace giusta, non come ideale astratto, ma come garanzia concreta di stabilità. Il realismo non può diventare cinismo. La pace giusta non è la più facile da raggiungere, ma è l’unica che valga la pena firmare.
Nina Celli, 21 agosto 2025
Un compromesso territoriale è la soluzione più realistica e utile per stabilizzare la regione
Quando un conflitto si protrae per anni, con decine di migliaia di morti, milioni di sfollati e il rischio costante di escalation globale, la vera domanda non è più “chi ha ragione”, ma “come fermare tutto questo?”. È in questo contesto che un compromesso territoriale tra Russia e Ucraina s’impone non come un cedimento, ma come l’unica opzione geopoliticamente sostenibile. La rinuncia all’ideale integrale di sovranità può essere la chiave per evitare una guerra permanente, ricostruire un equilibrio continentale e impedire il collasso definitivo della sicurezza europea.
Il vertice di Anchorage del 2025 rappresenta il momento simbolico di questa svolta realista. Come riportato da fonti come “The Independent”, “Sky News” e “Corriere della Sera”, Donald Trump ha proposto una formula esplicita di “land for security”: cedere formalmente i territori già sotto controllo russo in cambio di garanzie concrete sulla neutralità dell’Ucraina e sulla sua protezione futura da ulteriori aggressioni. Questo piano, a lungo considerato tabù, ha trovato consensi impliciti in ambienti diplomatici europei e statunitensi, pur tra molte ambiguità. Dal punto di vista geopolitico, questa soluzione ha almeno tre meriti evidenti. Innanzitutto, evita una lunga guerra di logoramento. Il conflitto ha già consumato gran parte delle risorse strategiche di Ucraina, Europa e Stati Uniti. Secondo il rapporto di “Vietato Parlare News”, l’Europa dovrebbe spendere oltre 400 miliardi di euro annui per sostenere una guerra convenzionale ad alta intensità senza l’appoggio americano. Inoltre, gli arsenali sono prossimi all’esaurimento e le industrie belliche faticano a tenere il passo. Un compromesso territoriale eviterebbe una crisi di sistema dell’intera difesa occidentale.
Inoltre, congela l’espansionismo russo in cambio della stabilità ucraina: Putin, secondo fonti come “Russia Matters” e “PBS”, ha dichiarato di volersi fermare se ottiene formalmente la Crimea e l’intero Donbass. Anche se ciò viola il principio dell’inviolabilità territoriale, rappresenta una trincea geopolitica oltre la quale Mosca non spingerebbe, evitando così il rischio di una nuova avanzata verso Odessa, Kharkiv o le frontiere della NATO. In cambio, l’Ucraina otterrebbe uno status neutrale con protezioni simili all’articolo 5 NATO, ma senza adesione formale. Questa “NATO-light” garantirebbe deterrenza senza escalation.
E poi, ridisegna le sfere d’influenza con un accordo formale e verificabile: la geopolitica non si basa sul diritto puro, ma sulla codifica degli equilibri. Come a Yalta nel 1945, il compromesso tra potenze ha permesso una stabilità duratura, seppur imperfetta. Un nuovo accordo, sottoscritto da USA, Russia e UE, e supervisionato da ONU o OSCE, potrebbe creare una nuova architettura di sicurezza regionale, con zone demilitarizzate, meccanismi di verifica, limitazione delle basi e un sistema di early warning contro aggressioni future.
Non mancano precedenti. Anche in Corea, Kosovo, Bosnia, Cipro, la pace è stata raggiunta grazie a compromessi territoriali forzati. Nessuno di questi ha rispettato la piena sovranità originaria degli Stati coinvolti, ma hanno permesso di fermare i massacri e iniziare la ricostruzione. Lo stesso Joe Biden, nel 2023, ha ammesso che “alcune guerre non si vincono, si congelano”. I rischi di non accettare un compromesso sono ben peggiori. L’escalation nucleare – evocata più volte da esponenti russi come Medvedev – non è solo propaganda. Un prolungamento indefinito del conflitto potrebbe portare a incidenti diretti tra Russia e NATO, in particolare se attacchi missilistici dovessero colpire infrastrutture in Polonia, Romania o nei Baltici. Il compromesso territoriale è il prezzo della sicurezza sistemica.
Va inoltre sottolineato che molti ucraini sono ormai disillusi. Secondo il sondaggio Gallup (agosto 2025), quasi 7 cittadini su 10 preferirebbero una pace imperfetta ma immediata a una guerra infinita per la riconquista totale. Questo non significa rassegnazione, ma lucido pragmatismo: un popolo che ha perso decine di migliaia di figli in battaglia, che ha visto le sue città ridotte in macerie e la sua economia distrutta, ha il diritto di scegliere la via della sopravvivenza. E se per sopravvivere serve cedere un pezzo di terra, ma mantenere lo Stato, allora è una scelta geopoliticamente razionale.
È importante capire, inoltre, che un compromesso territoriale non equivale alla legittimazione dell’aggressione, ma può essere costruito come un atto di prevenzione strategica. L’accordo potrebbe includere sanzioni permanenti per la Russia, compensazioni economiche per l’Ucraina, riconoscimento internazionale dei crimini di guerra e la creazione di un fondo per la ricostruzione vincolato al rispetto delle clausole.
La geopolitica non premia l’ideale astratto, ma l’equilibrio dinamico tra interessi e costi. In questo contesto, un compromesso territoriale — se costruito con rigore, verificabilità e garanzie multilaterali — non è una sconfitta per l’Ucraina, ma una via d’uscita strategica dal caos. È l’unica pace ancora possibile in un mondo in cui la giustizia pura si è già dissolta.
Nina Celli, 21 agosto 2025
Un compromesso territoriale legittimerebbe l’aggressione e destabilizzerebbe l’ordine globale
Cedere territori sotto la minaccia delle armi non è un compromesso: è una capitolazione geopolitica. Nell’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, la proposta di un compromesso territoriale, seppur travestita da soluzione pragmatica, costituirebbe un precedente pericoloso e una minaccia sistemica all’ordine internazionale. Non solo comprometterebbe la sovranità ucraina, ma aprirebbe le porte a una nuova era di revisionismo armato, legittimando l’uso della forza come strumento diplomatico. Il principio cardine del diritto internazionale è che i confini non si modificano con l’invasione. Questo è sancito nella Carta delle Nazioni Unite (articolo 2), nella Dichiarazione di Helsinki del 1975, negli Accordi di Budapest del 1994 (sottoscritti dalla stessa Russia) e da decine di risoluzioni dell’ONU. Accettare un compromesso territoriale significa riscrivere queste norme in favore del “fatto compiuto” e trasformare ogni Stato più debole in un potenziale bersaglio.
Come ha sottolineato David Kramer (“PBS”, agosto 2025), già consigliere al Dipartimento di Stato, “accettare che la Russia tenga ciò che ha preso con la guerra significa invitare alla prossima aggressione”. Le implicazioni vanno ben oltre il Donbass o la Crimea: riguardano Taiwan, le repubbliche baltiche, il Nagorno-Karabakh, persino Kosovo e Transnistria. Se l’Ucraina perde territori e l’aggressore ottiene un posto al tavolo come interlocutore rispettato, la guerra diventa un’opzione strategica accettabile per ogni potenza revisionista. A livello regionale, la cessione formale di territorio alla Russia altererebbe in modo irreversibile gli equilibri strategici. Non si tratta solo di chilometri quadrati: il Donbass è un corridoio militare, la Crimea è una base navale avanzata, Zaporizhzhia ospita infrastrutture energetiche critiche. Permettere a Mosca di consolidare il controllo su queste aree significa consentirle di proiettare potenza in tutta l’Europa orientale e nel Mar Nero, minacciando costantemente paesi NATO come Romania, Bulgaria, Polonia e le repubbliche baltiche. Non è un’ipotesi astratta. La strategia militare russa si basa sull’occupazione graduale e la stabilizzazione successiva tramite narrazioni etniche o storiche. Lo schema è stato usato in Georgia (2008), in Crimea (2014) e oggi nel Donbass. Ogni volta che il Cremlino ha ottenuto una “concessione”, l’ha utilizzata come base per l’avanzamento successivo. Cedere ancora significherebbe alimentare la logica predatoria di Mosca.
Dal punto di vista interno ucraino, un compromesso territoriale minerebbe la legittimità dello Stato e destabilizzerebbe la società. Il 60% degli ucraini, secondo il sondaggio Gallup (agosto 2025), rifiuta qualsiasi cessione senza condizioni. Le aree che verrebbero “concesse” ospitano milioni di cittadini ucraini che verrebbero abbandonati sotto controllo russo, spesso già sottoposti a deportazioni, russificazione forzata e repressione. Il rischio non è solo morale, ma anche geopolitico: il compromesso potrebbe innescare movimenti di resistenza, guerriglia e una guerra a bassa intensità permanente.
Anche sul piano delle alleanze internazionali, un compromesso territoriale causerebbe fratture. L’Unione Europea perderebbe credibilità tra i suoi membri orientali, che si sentirebbero traditi e vulnerabili. La NATO dovrebbe riformulare le proprie strategie difensive, sapendo che gli articoli 4 e 5 potrebbero non bastare. E gli Stati Uniti, nel cercare una soluzione rapida, rischierebbero di alienarsi il sostegno di alleati chiave, minando il loro ruolo di garante della sicurezza globale.
Le alternative esistono. Un cessate il fuoco monitorato da forze ONU o OSCE, con negoziati sullo status delle regioni occupate, senza riconoscimento della sovranità russa, rappresenterebbe una soluzione intermedia che non legittima l’aggressione. In passato, la diplomazia ha prodotto accordi simili in contesti ben più complessi: pensiamo al Libano, a Cipro, o alla Bosnia, dove si è lavorato su status speciali, autonomie temporanee, zone demilitarizzate. L’obiettivo deve essere contenere il conflitto senza premiare l’aggressore. Come ha dichiarato Zelensky, accettare la cessione di territori “equivarrebbe a dire che la Russia ha vinto”. Ma non è solo una questione nazionale. È la posta in gioco per l’intero ordine mondiale. Se oggi si accetta un compromesso che avvalla l’invasione, domani ogni Stato potrà essere ridisegnato dai missili, non dai trattati.
Un compromesso territoriale, dunque, non è pace, è una pausa mascherata che rischia di gettare le fondamenta di un conflitto più grande e devastante. Il prezzo geopolitico non è sostenibile, né per l’Ucraina, né per l’Europa, né per l’Occidente.
Nina Celli, 21 agosto 2025
L’Occidente sta imponendo la pace in Ucraina per tutelare i propri interessi geopolitici
Nella narrazione ufficiale dei vertici transatlantici, l’Occidente si presenta come garante della pace, difensore dei principi democratici e mediatore imparziale tra aggressore e aggredito. Ma alla prova dei fatti, l’immagine dell’Occidente come arbitro neutrale si sbriciola. Oggi, nel conflitto Russia-Ucraina, le grandi capitali occidentali — Washington in testa, Bruxelles subito dietro — non stanno mediando una pace: la stanno gestendo, dirigendo, e di fatto imponendo, secondo i loro interessi geostrategici. Il vertice di Anchorage dell’agosto 2025 ha rappresentato il punto di svolta simbolico. In quell’occasione, come ricostruito da fonti italiane e internazionali (“BBC”, “The Independent”, “La Stampa”, “Vietato Parlare News”), Donald Trump ha annunciato un formato negoziale bilaterale con Putin, a cui Zelensky è stato invitato a partecipare solo in un secondo momento. L’Europa è stata relegata a un ruolo di terz’ordine. Durante la sessione plenaria, come riportato nel resoconto di “Vietato Parlare News”, la delegazione ucraina è stata ricevuta dopo una lunga attesa, mentre i leader UE hanno potuto esprimersi solo su questioni marginali. Il messaggio è chiaro: le decisioni si prendono altrove.
Secondo Patrizio Ricci, l’atteggiamento degli Stati Uniti non ha nulla a che fare con l’equidistanza diplomatica. Trump ha agito come "facilitatore con obiettivo", non come mediatore super partes. Ha fissato le condizioni — scambio di territori in cambio di neutralità, uscita dell’Ucraina dal percorso NATO, garanzie di sicurezza alternative — e ha poi "invitato" Zelensky e gli europei ad accettarle, o perlomeno a non ostacolarle. Come riportato da “The Independent”, lo stesso Trump avrebbe dichiarato a porte chiuse che “la pace si fa alle nostre condizioni”, un’espressione che smentisce ogni ruolo di mediazione imparziale.
Il pragmatismo geopolitico dell’Occidente, soprattutto americano, non è un errore, ma una scelta consapevole. Come spiegato nell’analisi pubblicata su “Corriere della Sera” da Federico Rampini, “la priorità americana è contenere la Cina e ribilanciare il Pacifico; l’Ucraina è un dossier da chiudere”. In quest’ottica, l’obiettivo strategico di Washington non è la giustizia per Kyiv, ma la stabilizzazione dell’Europa a basso costo. La pace imposta serve a sganciare risorse, evitare escalation diretta con Mosca, e riposizionare le forze sul teatro indo-pacifico.
Anche l’Europa, a dispetto della retorica ufficiale, ha abbandonato la mediazione per passare a una forma implicita di imposizione. I leader europei, da Macron a Scholz, fino a von der Leyen, insistono pubblicamente sulla “pace giusta”, ma in privato, come emerso nei verbali filtrati dal summit di Washington, discutono apertamente dei margini di concessione territoriale e delle condizioni economiche per il riassetto ucraino. I colloqui includono piani per investimenti di ricostruzione, corridoi commerciali alternativi, integrazione di rifugiati e “buffer zones” difensive lungo il Dnipro. Non è la prima volta che l’Occidente agisce in questo modo. Nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan, gli accordi di pace sono stati imposti, mai negoziati tra pari. Il modello dell’“accettare o perdere tutto” è stato applicato anche a Sarajevo nel 1995, a Baghdad nel 2003, a Kabul nel 2020. In tutti questi casi, l’Occidente ha presentato soluzioni “bilanciate”, ma che erano scritte unilateralmente, con minime concessioni alle parti deboli. Oggi l’Ucraina è chiamata a scegliere tra sopravvivere secondo i termini americani o continuare a combattere da sola. Questa dinamica è visibile anche nell’ambiguità delle garanzie offerte. L’articolo 5 “simboleggiato” e non attivato; la promessa di protezione militare “non vincolante”; i fondi per la ricostruzione condizionati alla firma dell’accordo. Come sottolinea Anna Zafesova su “La Stampa”, “Zelensky è stretto tra il dovere di non apparire sconfitto e la pressione a concludere”. La mediazione è scomparsa. Restano solo i dettami geopolitici di chi può (e vuole) archiviare il conflitto secondo priorità proprie.
Persino il linguaggio usato nei documenti ufficiali suggerisce un’evoluzione semantica significativa: non si parla più di “negoziato tra le parti”, ma di “roadmap condivisa dagli alleati”, in cui l’Ucraina appare come un esecutore, non un architetto. Il compromesso territoriale, il congelamento dei combattimenti, l’implementazione di forze di interposizione, sono già progettati a tavolino, senza veri margini per l’Ucraina di rifiutare.
Il ruolo dell’Occidente nel processo di pace, quindi, non è quello del mediatore, ma quello del regista. I negoziati sono gestiti da Washington, ratificati a Bruxelles e subiti a Kyiv. Non si tratta di malafede, ma di una chiara strategia geopolitica di contenimento del conflitto e gestione degli interessi. In questo scenario, parlare ancora di “mediazione” è una cortesia retorica. La realtà è che la pace, se arriverà, sarà un accordo imposto.
Nina Celli, 21 agosto 2025
L’Occidente sta agendo come mediatore multilaterale per garantire una pace equa e sostenibile
Attribuire all’Occidente il ruolo di imposizione nel conflitto Russia-Ucraina equivale a ribaltare i fatti. Fin dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022, le democrazie occidentali si sono mosse non per dirigere, ma per difendere, e oggi, dopo oltre tre anni di guerra, sono ancora impegnate in una mediazione faticosa, diplomatica, multilaterale, il cui scopo non è imporre una pace, ma evitare che la pace venga imposta unilateralmente da Mosca.
L’Occidente ha fornito armi, fondi e sostegno politico all’Ucraina, sì, ma l’ha fatto in risposta all’aggressione illegale di una potenza revisionista, non per dettare i termini di un futuro trattato. Ogni passo diplomatico è stato concertato con Kyiv, ogni summit multilaterale ha incluso la partecipazione attiva ucraina. Come affermato dal presidente Joe Biden nel 2023, “nulla sull’Ucraina sarà deciso senza l’Ucraina”. Questo principio è rimasto intatto anche negli incontri più recenti, dal G7 in Italia fino al vertice di Washington dell’agosto 2025.
Contrariamente alla narrazione dominante in ambienti realisti o cinici, gli Stati Uniti non hanno imposto una road map unilaterale. Come emerso dai resoconti ufficiali del summit di Anchorage, Donald Trump ha proposto un formato negoziale, ma ha lasciato ampio margine di manovra a Zelensky e agli alleati europei. La proposta di scambio “land for security” non è stata posta come ultimatum, ma come base di discussione. Lo stesso Trump ha dichiarato: “Io posso solo aiutare, la pace la devono fare loro”, riferendosi a Zelensky e Putin. Questo è il linguaggio del mediatore, non del dominatore.
L’Unione Europea ha avuto un ruolo altrettanto attivo nella costruzione di un processo multilaterale di pace. Come riportato da “Sky TG24” e “Corriere della Sera”, le posizioni espresse da Macron, Meloni, Scholz e von der Leyen non mirano a forzare l’Ucraina verso un compromesso, ma a garantire che ogni soluzione sia accompagnata da un sistema di garanzie, investimenti e vincoli multilaterali. La proposta di includere la clausola dell’articolo 5 NATO in formato “soft” è proprio una misura che punta a proteggere l’equilibrio, non a colonizzarlo.
A ben guardare, le principali potenze occidentali sono oggi divise sulle modalità del processo di pace. Questo pluralismo — tra l’approccio più pragmatico americano e la linea più normativa europea — dimostra che non c’è un centro unificato di comando che detta le condizioni, ma una costellazione di attori che negoziano, bilanciano, cercano compromessi. È esattamente questo il senso della mediazione multilaterale: un processo lento, imperfetto, ma condiviso. In contrasto con Mosca, che ha posto condizioni unilaterali fin dall’inizio (neutralità ucraina, riconoscimento della Crimea, smilitarizzazione di Kyiv), l’Occidente ha lasciato spazio al negoziato. Le accuse secondo cui l’Occidente starebbe “forzando” l’Ucraina a cedere territori sono infondate. Come mostra il sondaggio Gallup di agosto 2025, il popolo ucraino resta contrario a concessioni territoriali, ma favorevole a un accordo sostenibile. L’Occidente ha accolto questo orientamento: nessun leader europeo ha mai pubblicamente appoggiato una cessione del Donbass o della Crimea senza consenso ucraino. Le dichiarazioni ufficiali, da Parigi a Berlino, insistono sul fatto che “la pace deve essere accettata da Kyiv”. E proprio per questo, ogni ipotesi di compromesso viene trattata come proposta condizionata, non come diktat.
Inoltre, l’Occidente non è solo negoziatore, è anche garante. Qualunque accordo — se e quando sarà raggiunto — non potrà sopravvivere senza un sistema multilaterale di sicurezza, di cui solo USA, UE e NATO possono farsi carico. È per questo che il ruolo occidentale è insostituibile, non perché imponga, ma perché difende lo spazio negoziale da imposizioni russe. In un contesto in cui Mosca ha già dimostrato più volte la volontà di ignorare accordi sottoscritti (memorandum di Budapest, accordi di Minsk), l’unica garanzia è un Occidente compatto, capace di mediare tra le parti e di costruire un sistema di monitoraggio e deterrenza credibile. L’alternativa alla mediazione occidentale è una “pace russa”. Un accordo bilaterale Putin-Zelensky senza garanzie occidentali sarebbe vulnerabile, non verificabile e facilmente revocabile. La presenza di Washington, Bruxelles, Londra, Berlino e Parigi al tavolo è l’unico fattore che impedisce alla pace di diventare un’imposizione unilaterale del Cremlino. Ed è anche il motivo per cui Mosca ha sempre cercato di escludere o delegittimare il ruolo occidentale.
L’Occidente, dunque, non è oggi il protagonista autoritario del processo di pace, ma il suo garante democratico. Attraverso consultazioni, garanzie, pressioni diplomatiche e supporto finanziario, le democrazie occidentali stanno costruendo una pace multilaterale, sostenibile e legittima, senza piegarsi alla logica dei vincitori né al cinismo dei neutralisti.
Nina Celli, 21 agosto 2025
Una pace imperfetta, pur dolorosa, è necessaria per alleviare la sofferenza delle popolazioni coinvolte
Il costo più grande di ogni guerra è quello umano. Oltre i titoli di giornale, oltre le mappe territoriali e le dichiarazioni geopolitiche, ci sono vite spezzate, famiglie distrutte, comunità sradicate. In Ucraina, dopo oltre tre anni di conflitto, la popolazione è allo stremo. La continuazione della guerra rischia di produrre danni irreversibili sul piano umano e psicologico. In questo contesto, una pace imperfetta, anche se moralmente insoddisfacente, può rappresentare l’unica salvezza concreta per milioni di persone.
Secondo il rapporto Gallup pubblicato nell’agosto 2025, il 69% degli ucraini preferisce una fine negoziata della guerra, mentre solo il 24% insiste per una continuazione del conflitto fino alla riconquista totale. Questo dato, spesso citato nel dibattito strategico, merita una lettura umana: la maggioranza della popolazione è esausta e vede nella pace, anche imperfetta, l’unico orizzonte di normalità possibile. I cittadini ucraini, sottoposti a bombardamenti continui, blackout elettrici, fame, disoccupazione e traumi collettivi, non chiedono giustizia astratta, chiedono tregua, possibilità di ricostruire le proprie vite.
Come evidenziato da Jonathan Beale su “BBC News”, nelle testimonianze raccolte sul campo emerge un grido sommesso ma disperato: “Non vogliamo morire per una terra che non vedremo mai”. Molti soldati ucraini, pur fieramente patriottici, iniziano a mettere in dubbio la sostenibilità psicologica di una guerra senza sbocco, combattuta per riconquistare territori ormai desertificati, sotto controllo russo e difficilmente reintegrabili. I civili, invece, sono prigionieri di una spirale di paure: deportazioni, perdita della casa, lutti, povertà. Ogni giorno di guerra in più è un giorno di dolore e perdita
Anche gli effetti psicologici sono drammatici. Secondo il Ministero della Salute ucraino, oltre 1,5 milioni di cittadini soffrono di disturbi post-traumatici da stress (PTSD). Le cliniche psichiatriche sono al collasso, le scuole non riescono a contenere l’ansia dei bambini e le donne, spesso sole con figli e mariti al fronte, sono affette da sindromi depressive e da un senso di impotenza cronica. In questo quadro, una pace imperfetta rappresenta una cura imperfetta, ma necessaria: fermare le armi non cancella i traumi, ma li congela e li rende trattabili.
Sul piano delle prospettive sociali, una pace imperfetta è preferibile alla guerra prolungata. La ricostruzione di un tessuto sociale frantumato richiede stabilità. Il rientro dei profughi (oltre 12 milioni secondo i dati ONU), la ripresa scolastica, la riattivazione dell’economia e del welfare, sono possibili solo in presenza di un cessate il fuoco strutturato. Come scrive K.M. Seethi su “Countercurrents”, ogni mese di guerra aggiuntivo corrisponde a anni di regressione sanitaria, educativa e civile. Le scuole diventano caserme, gli ospedali diventano obiettivi militari, le città si svuotano o diventano irriconoscibili.
C'è anche una dimensione etica, spesso trascurata. Insistere per una pace “giusta” a tutti i costi può significare, nella pratica, chiedere ad altri di morire per un principio. Come scrive Achille De Tommaso su “Nel Futuro”, “la pace giusta è spesso un lusso retorico di chi non combatte, non perde figli, non patisce freddo né fame”. Chi propone soluzioni etiche deve considerare il peso reale che queste hanno sulle spalle dei vivi. In un paese martoriato, salvare vite può essere più nobile che rivendicare simboli.
Anche storicamente, le paci imperfette hanno curato popoli devastati. Pensiamo alla Bosnia, dove l’accordo di Dayton del 1995 — pur criticato per le sue ingiustizie interne — ha consentito la fine del genocidio e la lenta ricostruzione. Oppure alla Colombia, dove il compromesso con le FARC ha permesso, dopo mezzo secolo, di interrompere un ciclo di violenza e di iniziare un processo di reintegrazione. In tutti questi casi, la giustizia è venuta dopo, se è venuta, ma la cessazione delle ostilità ha avuto un valore umano superiore.
Esiste poi un valore trasformativo nella pace imperfetta. Fermare il conflitto può aprire spazi nuovi per la cultura, l’informazione, la diplomazia, persino per il dissenso interno. Un’Ucraina mutilata ma viva può ricostruire lentamente la propria sovranità con mezzi civili, diplomatici, economici. Una guerra totale, invece, rischia di distruggere completamente le basi di una società viva. Come ha detto Zelensky in uno dei suoi interventi recenti: “Meglio una pace imperfetta oggi, che un paese morto domani”.
La pace perfetta non esiste, ma la pace imperfetta può salvare ciò che resta della dignità, della salute mentale e del futuro di un popolo.
Nina Celli, 21 agosto 2025
Una pace imperfetta prolungherebbe il trauma e minerebbe la riconciliazione sociale e identitaria
Una pace imperfetta non è sempre un sollievo. In alcuni casi, può essere la continuazione del trauma con altri mezzi. Nel conflitto tra Russia e Ucraina, l’idea di raggiungere un accordo di pace a costo di concessioni territoriali, impunità per i crimini di guerra e assenza di riconoscimento giuridico delle violenze subite rischia di cristallizzare il dolore, non di curarlo. Le popolazioni colpite non dimenticano. Le ferite che non vengono riconosciute non guariscono. Le società che non ottengono giustizia restano prigioniere della vendetta, dell’odio e della frustrazione intergenerazionale.
Sul piano umanitario, una pace che lasciasse la Crimea, il Donbass e altre regioni sotto controllo russo abbandonerebbe milioni di cittadini ucraini a un destino di repressione, assimilazione forzata, sradicamento culturale. Come confermano testimonianze raccolte dalla “BBC”, da “La Stampa” e da ONG indipendenti, i territori già occupati hanno visto deportazioni, arresti arbitrari, imposizione del passaporto russo, chiusura di scuole ucraine, persecuzione delle minoranze religiose. Accettare questi fatti come “consolidati” nella logica di una pace imperfetta significherebbe condannare queste popolazioni al silenzio e alla cancellazione identitaria. La psicologia collettiva di un popolo come quello ucraino, che ha lottato per la propria libertà, è strutturata attorno all’idea di autodeterminazione, resilienza, difesa della sovranità. Cedere su questi principi in nome di una stabilità fragile potrebbe produrre una frattura identitaria insanabile. Gli ucraini non solo si sentirebbero traditi dal mondo occidentale, ma rischierebbero di rivolgere il proprio dolore verso l’interno, come rabbia contro le istituzioni, senso di impotenza, divisioni sociali tra chi ha combattuto e chi ha negoziato. La pace, in queste condizioni, non unisce ma polarizza.
Secondo il sociologo Volodymyr Ishchenko, intervistato da “Al Jazeera” e ripreso in sintesi su “Vietato Parlare News”, “una pace senza giustizia può diventare il seme di una nuova guerra civile”. Non si tratta di speculazione. L’esperienza della Cecenia, della Bosnia e perfino della Palestina dimostra che la mancata risoluzione dei torti, la permanenza dell’ingiustizia e l’assenza di processi di verità possono alimentare una spirale di radicalizzazione e militarizzazione permanente. I rifugiati non tornano, i giovani crescono in un clima di revanscismo, la politica si estremizza.
Le ferite invisibili — quelle della memoria e dell’identità — sono spesso le più difficili da curare. Una pace imperfetta che riconoscesse formalmente territori rubati, che chiudesse un occhio sui crimini documentati (bambini deportati, torture, uso della fame come arma), e che ignorasse le risoluzioni internazionali, manderebbe un messaggio devastante alle vittime: “il tuo dolore non conta”. Questo è l’opposto della guarigione. È l’inizio di un’amnesia forzata che alimenta il rancore.
Anche sul piano dei rifugiati, la pace imperfetta non risolve automaticamente l’emergenza. Se milioni di ucraini sono fuggiti dalle aree oggi occupate, difficilmente torneranno in territori sotto bandiera russa. La diaspora diventerà cronica. I figli cresceranno all’estero, portando con sé un’identità fratturata. Le città abbandonate non verranno ricostruite. Le campagne minate non saranno bonificate. La pace, in queste condizioni, non riporta la normalità, ma congela l’anomalia.
La stessa narrazione internazionale ne risulterebbe compromessa. Se l’Occidente dovesse promuovere o avallare una pace imperfetta, la sua credibilità morale e politica verrebbe intaccata. I paesi baltici, la Moldavia, la Georgia, Taiwan, guarderebbero con sospetto agli impegni di sicurezza occidentali, chiedendosi: “se hanno abbandonato l’Ucraina, cosa ci impedirà di essere i prossimi?” Le promesse non mantenute si pagano con l’instabilità a lungo termine.
C’è infine un dato culturale profondo: la pace non è solo assenza di guerra, ma anche riconoscimento reciproco. Come scrive Charles Kupchan su “PBS”, “una pace duratura richiede che le parti si vedano come legittime”. Ma se l’Ucraina fosse costretta a firmare un accordo che ne mutila il territorio, ignora i suoi martiri e svende la sua memoria storica, non si tratterebbe di riconoscimento, ma di umiliazione. E non si costruisce una nazione su una pace umiliante.
Una pace imperfetta, dunque, può placare il fuoco sul breve termine, ma alimentare le braci del risentimento sul lungo periodo. Senza giustizia, senza verità, senza riparazione, non esiste riconciliazione. La pace diventa solo un’illusione tra due guerre. Se davvero si vuole salvare l’Ucraina e il suo popolo, è necessario resistere alla tentazione del compromesso comodo e insistere su una pace che non sia solo firmata, ma anche giusta.
Nina Celli, 21 agosto 2025