Nr. 384
Pubblicato il 14/08/2025

Corte di Giustizia europea: protocollo Italia-Albania giuridicamente fragile

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Quando, nel novembre del 2023, il governo italiano guidato da Giorgia Meloni e il primo ministro albanese Edi Rama firmarono il Protocollo per la gestione dei flussi migratori, l’annuncio fu accompagnato da toni trionfali. Il progetto – definito “innovativo” e “replicabile” – prometteva di trasferire in Albania, nei nuovi centri di Shengjin e Gjader, i migranti intercettati nel Mediterraneo e provenienti da Paesi considerati “sicuri” dall’Italia. Il 1° agosto 2025, la Grande Sezione della CGUE ha pronunciato la sentenza. I giudici hanno stabilito che un Paese di origine sicuro deve esserlo per l’intera popolazione e su tutto il territorio. Non è ammissibile una presunzione di sicurezza “parziale” – almeno fino all’entrata in vigore del nuovo Patto europeo per la migrazione, prevista per il giugno 2026, che introdurrà eccezioni per categorie vulnerabili.
La Corte ha sottolineato anche che la designazione deve essere trasparente: le fonti usate per definirla devono essere accessibili sia al richiedente asilo sia al giudice, che deve poterle valutare in contraddittorio. Nessun atto legislativo può sottrarre questa materia al controllo giurisdizionale effettivo, pena la violazione dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Una sentenza necessaria per riequilibrare il potere giudiziario nella tutela dei diritti

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea è un richiamo all’ordine costituzionale europeo e una riaffermazione del ruolo della magistratura come garante dei diritti fondamentali.

02 - Un’invasione di campo della magistratura che erode la sovranità democratica

La sentenza della Corte di Giustizia UE è un'interferenza nella sfera della politica democratica. Per Giorgia Meloni è un “esproprio del potere decisionale”.

03 - Un impianto giuridicamente fallace, in contrasto con diritto UE e principi costituzionali

La presunzione italiana che Bangladesh ed Egitto siano sicuri è stata demolita da evidenze contrarie, come persecuzioni, discriminazioni o repressione di minoranze etniche.

04 - Un protocollo innovativo legittimato dalla flessibilità del diritto europeo

L’accordo ha aperto una strada finora inesplorata: esternalizzare parte delle procedure di gestione dei migranti in un Paese terzo, formalmente fuori dall’Unione Europea.

05 - Un esperimento costoso, fallito nei fatti e privo di consenso politico interno e internazionale

Nessun migrante è stato trattenuto legalmente nei centri albanesi, a seguito di bocciature del Tribunale di Roma e della Corte d’Appello.

06 - Un modello sperimentale utile, economicamente sostenibile e politicamente replicabile in Europa

L’accordo è una soluzione concreta a tre sfide: la pressione sui sistemi di accoglienza nazionali, inefficacia delle espulsioni, la lentezza delle procedure d’asilo.

07 - Una deriva extragiudiziale che sospende i diritti fondamentali in nome dell’efficienza

Il protocollo Italia-Albania ha inaugurato una zona grigia del diritto, dove i diritti dei migranti vengono compressi in nome della sicurezza e della deterrenza.

08 - Un compromesso tra sicurezza e diritti, con garanzie italiane anche in Albania

Il protocollo Italia-Albania ha cercato di equilibrare sicurezza e umanità, mantenendo le garanzie giuridiche essenziali anche al di fuori del territorio nazionale.

 
01

Una sentenza necessaria per riequilibrare il potere giudiziario nella tutela dei diritti

FAVOREVOLE

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 1° agosto 2025 non è solo una pronuncia giuridica sul protocollo Italia-Albania: è un richiamo all’ordine costituzionale europeo e una riaffermazione del ruolo della magistratura come garante ultimo dei diritti fondamentali. In un contesto segnato da spinte politiche sovraniste e da tentativi di eludere la tutela giurisdizionale, la Corte ha ristabilito un principio basilare dello Stato di diritto: nessuna autorità politica può sottrarre un cittadino al controllo di un giudice imparziale.
La sentenza riafferma che la designazione di un Paese come “sicuro” non può essere un atto politico insindacabile. Deve essere basata su fonti verificabili, accessibili e aggiornate, e dev’essere sempre soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo. Questo principio impedisce agli Stati membri di creare “liste opache” in cui includere Paesi in cui, per molte categorie, permangono rischi reali. Il caso del Bangladesh – considerato “sicuro” dall’Italia, ma riconosciuto dalla stessa Farnesina come problematico per minoranze religiose e oppositori politici – ne è un esempio eclatante.
Con questa decisione, la Corte ha anche rafforzato il ruolo dei giudici nazionali: non solo hanno la facoltà, ma anche il dovere di disapplicare una norma interna che confligga con i principi dell’Unione. Il Tribunale di Roma, primo ad opporsi ai trattenimenti in Albania, ha agito proprio su questa base, generando un effetto a catena che ha portato alla mobilitazione delle Corti d’Appello e alla successiva pronuncia del livello europeo.
Anche la Associazione Nazionale Magistrati (ANM) ha accolto positivamente la sentenza, ricordando che “i giudici non hanno fatto politica, hanno solo applicato la legge”. Secondo il presidente Cesare Parodi, è grazie a questo meccanismo che la tutela dei diritti rimane concreta, anche quando le maggioranze parlamentari cercano di aggirarla con strumenti emergenziali.
Sul piano europeo, la sentenza rafforza anche la coerenza istituzionale dell’Unione: non ci può essere un Patto migratorio credibile se gli Stati membri adottano pratiche divergenti e fuori controllo. La CGUE ha tracciato una linea rossa, riaffermando che l’Europa non è solo un mercato unico, ma una comunità giuridica fondata sul rispetto della dignità umana e del diritto al ricorso effettivo. Questa sentenza, quindi, non mina l’equilibrio tra poteri, ma lo consolida, ponendo un argine legittimo a derive politiche che rischiano di normalizzare l’arbitrio in nome dell’efficienza.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
02

Un’invasione di campo della magistratura che erode la sovranità democratica

CONTRARIO

Per il governo italiano e ampi settori della maggioranza, la sentenza della Corte di Giustizia UE rappresenta una grave interferenza nella sfera della politica democratica. Secondo Giorgia Meloni, si tratta di un “esproprio del potere decisionale da parte di una magistratura politicizzata”, che attraverso le corti ha bloccato un piano votato dal Parlamento, approvato con legge e sostenuto dalla Commissione europea. La reazione del governo non è solo difensiva, ma ideologica: secondo il ministro Piantedosi e il ministro Nordio, la magistratura – italiana ed europea – avrebbe abusato del proprio ruolo, sostituendosi di fatto al legislatore. Le decisioni dei giudici italiani che hanno sistematicamente annullato i trattenimenti dei migranti trasferiti in Albania sono lette come un attacco al principio di separazione dei poteri, in cui il giudice agisce da “contropotere”, spesso in contrasto con l’indirizzo politico espresso dal voto.
La posizione è condivisa anche da diversi esponenti del centrodestra europeo, che vedono nella CGUE una tendenza sempre più attivista, pronta a sconfessare le politiche migratorie nazionali in nome di principi astratti e poco aderenti alla realtà. È questo il senso delle dichiarazioni del premier olandese Schoof, che ha elogiato il “modello Albania” e denunciato un eccesso di “giudizializzazione della politica”.
Dal punto di vista democratico, il rischio è evidente: se ogni tentativo di innovazione viene fermato da giudici nazionali o sovranazionali, si svuota la funzione dell’esecutivo e si alimenta la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il protocollo Italia-Albania, pur contestato, era stato pensato come risposta concreta a un problema reale – la gestione dei flussi migratori – e godeva di ampio consenso elettorale. C’è anche un rischio giuridico: la sentenza della Corte rischia di congelare qualsiasi sperimentazione futura, anche quelle previste dal nuovo Patto europeo per l’immigrazione (giugno 2026), che permetterà designazioni “condizionate” di Paesi sicuri per gruppi definiti. La rigidità attuale potrebbe scontrarsi con le norme future, creando incertezza giuridica e paralisi operativa.
Per i critici, la sentenza della CGUE – pur animata da intenti nobili – segna una pericolosa torsione del potere giudiziario, che rischia di limitare la sovranità legislativa e il principio della democrazia rappresentativa.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
03

Un impianto giuridicamente fallace, in contrasto con diritto UE e principi costituzionali

FAVOREVOLE

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nella sentenza del 1° agosto 2025, ha inferto un colpo decisivo al protocollo Italia-Albania, dichiarandone l’illegittimità giuridica per violazione del Diritto dell’Unione. Il punto centrale riguarda la designazione dei “Paesi di origine sicuri”: secondo la Corte, uno Stato membro non può considerare “sicuro” un Paese che non offre protezione effettiva a tutta la sua popolazione e su tutto il suo territorio. La presunzione italiana – che Bangladesh ed Egitto siano sicuri – è stata demolita da evidenze contrarie, come persecuzioni politiche, discriminazioni di genere o repressione di minoranze etniche.
Il protocollo contraddice l’articolo 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, che garantisce a ogni individuo il diritto a un ricorso effettivo davanti a un giudice imparziale. Le norme italiane, basate sul decreto del 7 maggio 2024, negano ai migranti in Albania la possibilità di impugnare la designazione del Paese d’origine come sicuro, escludendo di fatto il controllo giudiziario effettivo. Come rilevato dall’ASGI, si tratta di una violazione strutturale, che priva i richiedenti della possibilità di difendersi in condizioni di uguaglianza.
Anche sul piano costituzionale, numerosi giuristi hanno sottolineato le criticità. La detenzione amministrativa dei migranti in Albania è sottratta alla convalida del giudice naturale, come previsto dall’art. 13 della Costituzione italiana. Inoltre, le garanzie di difesa previste dalla CEDU sono difficilmente esercitabili a 500 km dal territorio nazionale. La Cassazione, in una relazione riservata del giugno 2025, ha parlato apertamente di rischio di “trattamento diseguale” e “vuoto di giurisdizione”.
Nessuna delle tre ondate di migranti trasferiti nei centri albanesi ha ricevuto una convalida giudiziaria: tutti i trattenimenti sono stati annullati dai tribunali italiani e i migranti rimpatriati. Il Tribunale di Roma ha rinviato alla CGUE già nell’ottobre 2024, mentre la Corte d’Appello ha ritenuto che i centri albanesi configurino di fatto una “zona di frontiera italiana” non soggetta a piena tutela.
Per i critici, dunque, il protocollo è giuridicamente viziato e incompatibile con il sistema europeo di protezione dei diritti. Non solo è stato bocciato da ogni istanza giurisdizionale nazionale e sovranazionale, ma rischia anche di minare lo stato di diritto nel tentativo di eludere le garanzie costituzionali.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
04

Un protocollo innovativo legittimato dalla flessibilità del diritto europeo

CONTRARIO

Il protocollo Italia-Albania rappresenta una delle più audaci e innovative risposte alla crisi del sistema di asilo europeo. Firmato nel novembre 2023 dal governo Meloni e dal premier albanese Edi Rama, l’accordo ha aperto una strada finora inesplorata: esternalizzare parte delle procedure di gestione dei migranti in un Paese terzo, formalmente fuori dall’Unione Europea ma alleato strategico e candidato all’adesione.
Secondo i sostenitori, la legittimità del protocollo si fonda su una lettura flessibile e coerente della Direttiva 2013/32/UE, che consente agli Stati membri di designare Paesi terzi come “sicuri” per accelerare l’esame delle domande d’asilo. È proprio su questo pilastro che l’Italia ha costruito il meccanismo: selezionare migranti provenienti da Paesi dichiarati sicuri tramite decreto (es. Bangladesh, Egitto) e trasferirli nei centri di Shengjin e Gjader in Albania per completare l’iter di frontiera.
La Commissione Europea, durante l’udienza presso la Corte di Giustizia UE (26 febbraio 2025), ha esplicitamente difeso la posizione italiana. L’avvocata Flavia Tomat ha affermato che la normativa comunitaria permette agli Stati di operare selezioni per categorie specifiche, a condizione che siano chiaramente definite e garantite da tutela giurisdizionale nazionale. Inoltre, il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (art. 78) lascia agli Stati ampio margine su come implementare la politica di asilo, specialmente in situazioni di “pressione migratoria” alle frontiere esterne.
A sostegno della legittimità, vi è anche la giurisprudenza evolutiva del Patto europeo su Migrazione e Asilo (in vigore da giugno 2026), che apre alla possibilità di designare Paesi sicuri con eccezioni specifiche per gruppi vulnerabili. La strategia italiana, quindi, si inserisce in un contesto in mutazione, anticipandone i margini operativi.
Dal punto di vista costituzionale, il governo ha difeso la validità dell’intesa bilaterale come atto di politica estera e di sicurezza, approvato tramite legge e sottoposto a controllo parlamentare. L’art. 80 della Costituzione consente simili protocolli, purché rispettino i diritti fondamentali: secondo il Viminale, la giurisdizione italiana garantisce che i diritti non vengano meno neanche in Albania, poiché le strutture sono “extraterritoriali” ma a gestione italiana.
Per i sostenitori, dunque, il protocollo è una soluzione legittima e innovativa, pienamente compatibile con il quadro giuridico vigente e utile a rafforzare i confini esterni dell’Europa nel rispetto delle norme.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
05

Un esperimento costoso, fallito nei fatti e privo di consenso politico interno e internazionale

FAVOREVOLE

A quasi due anni dalla firma del protocollo Italia-Albania, i risultati concreti sono disarmanti: nessun migrante è stato trattenuto legalmente nei centri albanesi. Le tre missioni (ottobre 2024, gennaio e febbraio 2025) si sono concluse con il rimpatrio immediato di tutti i migranti, a seguito di bocciature da parte del Tribunale di Roma e della Corte d’Appello. Nessuna convalida giudiziaria è stata concessa. Al costo di oltre 250.000 euro per ogni trasferimento fallito, come evidenziato da “Il Fatto Quotidiano” e “Domani”.
Secondo il Partito Democratico, il piano ha già superato 1 miliardo di euro di spesa pubblica, tra costruzione, logistica, personale e affitti. La ONG MediHospes, incaricata della gestione, ha licenziato oltre 100 operatori “fino a nuovo ordine”, ammettendo di fatto che i centri sono vuoti. Inoltre, nessun contratto è stato formalmente registrato con la Prefettura competente, rendendo l’intero sistema opaco e poco trasparente.
La Commissione Europea, pur non ostacolando direttamente il protocollo, si è limitata a “monitorarlo”, lasciando intendere che non ne approva l’estensione a livello europeo. Anche la Corte di Giustizia UE ha chiarito, con la sentenza del 1° agosto 2025, che un Paese terzo non può essere considerato sicuro se non per tutta la sua popolazione e il suo territorio, invalidando l’intero impianto operativo italiano. A livello internazionale, l’accordo rischia di essere revocato nel 2026: l’ex presidente albanese Sali Berisha, oggi candidato premier, ha già annunciato che non rinnoverà il contratto se dovesse vincere le elezioni del maggio 2025. L’accordo, dunque, non gode di un consenso duraturo neppure nel Paese partner.
In Italia, l’opposizione ha parlato di fallimento propagandistico, accusando il governo di voler costruire “un simbolo politico più che una soluzione reale”. ONG come ActionAid, ASGI e Amnesty hanno denunciato il protocollo come “inutile, illegale e costoso”, evidenziando che i fondi impiegati avrebbero potuto rafforzare la rete territoriale di accoglienza ordinaria e accelerare le pratiche in patria.
Il modello albanese, dunque, presentato come innovativo, si è rivelato fallimentare sul piano operativo, finanziario e politico, lasciando dietro di sé uno spreco di risorse e una tensione diplomatica crescente.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
06

Un modello sperimentale utile, economicamente sostenibile e politicamente replicabile in Europa

CONTRARIO

Il protocollo Italia-Albania ha segnato un cambio di paradigma nella gestione della migrazione irregolare in Europa. Al di là delle questioni giuridiche, l’accordo si propone come una soluzione concreta a tre grandi sfide: l’eccessiva pressione sui sistemi di accoglienza nazionali, l’inefficacia delle espulsioni e la lentezza delle procedure d’asilo. In questo senso, il modello albanese è stato concepito come un progetto pilota, da valutare anche in prospettiva europea. Secondo i promotori, i centri costruiti a Shengjin e Gjader hanno permesso all’Italia di esternalizzare temporaneamente i processi di identificazione, trattenimento e rimpatrio, sgravando le strutture interne e offrendo un’alternativa concreta ai ricollocamenti interni UE, spesso fallimentari. Il piano prevede la gestione fino a 3.000 migranti al mese, per un massimo di 36.000 l’anno, in spazi controllati, moderni, dotati di supporti medici e legali sotto direzione italiana.
Dal punto di vista economico, il protocollo ha un costo stimato di 653,5 milioni di euro in cinque anni, pari a circa 130 milioni annui. È un investimento significativo ma, secondo il Viminale, paragonabile (se non inferiore) al costo di gestione annuale dei centri di accoglienza ordinari in Italia, senza contare i benefici in termini di deterrenza e ordine pubblico. Inoltre, la struttura operativa è stata affidata alla ONG MediHospes tramite convenzione, garantendo l'impiego di personale italiano e creando un indotto per forniture e sicurezza.
Anche sul piano politico, il protocollo ha ricevuto appoggi espliciti da Bruxelles. Ursula von der Leyen, nel Consiglio Europeo straordinario dell’ottobre 2024, ha definito l’accordo un “esperimento da cui l’Europa può trarre insegnamento”. La Presidenza polacca del Consiglio dell’UE, nel documento circolato al Consiglio Giustizia e Affari Interni, ha citato il modello Italia-Albania come esempio di “cooperazione innovativa con Paesi terzi”. Emerge quindi un interesse continentale verso forme di gestione extraterritoriale controllata, che potrebbero estendersi anche ad altri Stati candidati all’ingresso nell’UE.
La componente politica interna è decisiva: la premier Meloni ha legato il proprio mandato alla riuscita del piano, dichiarandosi pronta a “trascorrere ogni notte nei centri” pur di vederli operativi. Questa determinazione, letta da alcuni come retorica propagandistica, è vista da altri come leadership decisionale, in un contesto europeo spesso paralizzato da compromessi.
Il modello albanese può essere considerato un progetto sperimentale sostenibile, replicabile e già inserito nella riflessione strategica dell’Unione Europea sulla nuova governance migratoria.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
07

Una deriva extragiudiziale che sospende i diritti fondamentali in nome dell’efficienza

FAVOREVOLE

Secondo numerose ONG, giuristi e organismi internazionali, il protocollo Italia-Albania ha inaugurato una zona grigia del diritto, dove i diritti fondamentali dei migranti vengono sistematicamente compressi in nome della sicurezza e della deterrenza. Le condizioni materiali, giuridiche e psicologiche in cui vengono trasferiti e trattenuti i migranti configurano una forma di detenzione extraterritoriale arbitraria, priva delle tutele previste dal diritto europeo e dalla Costituzione italiana. Uno degli aspetti più gravi è l’impossibilità per i migranti di esercitare il diritto effettivo di difesa, come previsto dall’articolo 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. Nei centri albanesi, i richiedenti asilo non possono contattare liberamente avvocati, non hanno accesso a documentazione chiara nella propria lingua, né possono presentare ricorsi tempestivi contro la decisione di trattenimento. La Corte di Giustizia UE, con la sentenza dell’agosto 2025, ha dichiarato illegittimo il meccanismo proprio perché “non garantisce accesso sufficiente e verificabile alle fonti informative né un effettivo controllo giurisdizionale”.
Il sistema viola anche l’art. 13 della Costituzione italiana, che impone che ogni limitazione della libertà personale debba essere convalidata da un giudice “entro 48 ore”. Nei trasferimenti in Albania, questa convalida avviene in ritardo o viene bypassata, come dimostrano le sentenze dei tribunali italiani che hanno ordinato il rimpatrio immediato di tutti i migranti trasferiti. In alcuni casi, i trattenimenti sono avvenuti su navi militari in acque internazionali, senza mediazione legale né accesso alla stampa, come riportato da “Internazionale” e “ASGI”.
Anche dal punto di vista sanitario e psicologico, il sistema è fragile: le ONG non hanno potuto accedere liberamente alle strutture, l’OIM è risultata assente nei pre-screening, e non sono previsti standard uniformi né audit indipendenti. I pochi migranti effettivamente trasferiti hanno raccontato di ambienti “militarizzati, isolati e spersonalizzanti”, dove prevale la logica del controllo su quella dell’accoglienza.
Inoltre, l’intero progetto esclude a priori determinate categorie dalla tutela, applicando una presunzione di infondatezza sulla base del Paese d’origine. Ciò contrasta con il principio individuale di valutazione delle domande d’asilo, fondamento stesso della Convenzione di Ginevra. Come ha ricordato Amnesty International, “un Paese può essere sicuro per molti, ma non per tutti”, e “trasferire una persona senza considerare la sua specificità è una forma di respingimento collettivo, vietato dal Diritto internazionale”.
Il modello albanese rappresenta dunque una sospensione sistemica dei diritti, resa possibile dall’allontanamento fisico e giuridico dei migranti. Un precedente pericoloso che potrebbe estendersi ad altri Paesi e che, sotto la retorica dell’efficienza, nasconde un vuoto di garanzie e umanità.

Nina Celli, 14 agosto 2025

 
08

Un compromesso tra sicurezza e diritti, con garanzie italiane anche in Albania

CONTRARIO

La gestione dei flussi migratori richiede oggi una difficile sintesi tra tutela dei diritti fondamentali e protezione dell’ordine pubblico. In questa cornice, il protocollo Italia-Albania ha cercato di equilibrare sicurezza e umanità, mantenendo le garanzie giuridiche essenziali anche al di fuori del territorio nazionale. Per i sostenitori dell’accordo, i diritti fondamentali dei migranti sono tutelati attraverso il principio di extraterritorialità controllata, poiché le strutture operative in Albania sono gestite da personale italiano e sottoposte al diritto italiano. Il Viminale ha assicurato che ogni migrante trasferito gode degli stessi standard procedurali previsti sul suolo italiano: accesso a interpreti, assistenza legale, tutela sanitaria e possibilità di ricorso. Non è un centro di espulsione automatica, ma una zona amministrativa italiana esterna, dove si applicano le stesse regole, con la sola differenza logistica della distanza fisica. Le ONG coinvolte nella gestione, come MediHospes, hanno avuto mandato di garantire i livelli minimi di accoglienza stabiliti dalle direttive europee.
Dal punto di vista giuridico, il Consiglio di Stato ha più volte ribadito che il trattenimento dei migranti non è una pena, ma una misura amministrativa temporanea. In tal senso, la presenza in Albania non ne altera la natura. Inoltre, il piano prevedeva che il trattenimento durasse solo fino a un massimo di 28 giorni per l’esame della domanda d’asilo in procedura accelerata, rispettando le tempistiche fissate dalla direttiva UE 2013/32.
Sul piano sanitario e umanitario, i migranti avrebbero accesso a presìdi medici h24, monitoraggio psicologico e protezione per categorie vulnerabili (minori, donne incinte, persone traumatizzate). Il governo ha più volte sottolineato che nessun minore o donna sarebbe stato trasferito in Albania, evitando così il rischio di separazioni familiari o violazioni della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia.
I promotori dell’accordo sostengono che la detenzione in centri extraterritoriali può anche offrire maggiore sicurezza ai migranti stessi, lontani da ambienti di tratta o sfruttamento. Il rischio di fuga o coercizione da parte di reti criminali diminuisce, e aumenta il controllo statale. Non si tratta, dunque, di una sospensione dei diritti, ma di un modello alternativo di protezione, all’interno dell’architettura costituzionale e comunitaria esistente.

Nina Celli, 14 agosto 2025

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