Netanyahu vuole colonizzare Gaza
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
La Striscia di Gaza è una delle porzioni di terra più densamente popolate e tormentate al mondo. Una sottile lingua di sabbia, cemento e resistenza incastonata tra Israele, Egitto e il Mediterraneo, lunga appena 41 chilometri, ma teatro, da decenni, di scontri che hanno travalicato i confini militari per diventare simboli, ideologie, identità in lotta.
Il 4 agosto 2025, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha pronunciato parole che risuonano come una cesura storica: “La decisione è stata presa. Occuperemo completamente Gaza.” Con questa dichiarazione, Israele ha ufficializzato una svolta: l’estensione dell’operazione militare in tutta la Striscia, comprese le aree dove vivono oltre un milione di sfollati palestinesi e dove, secondo fonti dell’intelligence, sarebbero ancora detenuti decine di ostaggi israeliani.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Con la dichiarazione “Occuperemo tutta la Striscia di Gaza. La decisione è stata presa” di Netanyahu, la guerra, da conflitto difensivo, diventa “progetto”.
Israele non vuole occupare Gaza, ma eliminare la minaccia esistenziale di Hamas. Anche l’annuncio del 4 agosto 2025, pur nei toni duri, resta circoscritto a questo contesto.
Con l'"occupazione totale”, Netanyahu vuole sconfiggere Hamas, liberare i prigionieri israeliani e impedire che Gaza sia una minaccia futura.
Il fatto che l’esercito israeliano si prepari a entrare nelle ultime aree non ancora controllate, comprese zone civili, è un’escalation tattica, non la fase finale di un piano coloniale.
L’occupazione di Gaza non è strategia militare, è un’operazione di svuotamento della popolazione palestinese e di controllo dello spazio, configurandosi come sostituzione etnica.
Non c'è nessun documento, legge, piano urbanistico o ordine esecutivo israeliano che preveda insediamenti civili, colonie, o espulsione della popolazione palestinese da Gaza.
La politica israeliana non si muove da sola: si regge su un’architettura politico-diplomatica che la rende possibile, sostenibile e finalizzata a un disegno coloniale.
L’operazione di Netanyahu è osteggiata da una parte dell’apparato statale, da settori dell’opinione pubblica e da attori internazionali. Parlare di “sistema coloniale” coeso è una forzatura.
Il linguaggio politico e le dichiarazioni pubbliche indicano chiaramente un progetto di colonizzazione
Nel pomeriggio del 4 agosto 2025, fonti ufficiali dell’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, rilasciano una dichiarazione inequivocabile: “Occuperemo tutta la Striscia di Gaza. La decisione è stata presa”. È la svolta politica più netta dall’inizio del conflitto. Non è un annuncio tattico, non un’estensione limitata delle operazioni militari. È, nella forma e nel contenuto, una proclamazione strategica. Netanyahu sceglie parole definitive, rilanciate da media di ogni orientamento: “Il dado è tratto”, dichiarano le fonti governative a “Channel 12” e “Yedioth Ahronoth”. Nello stesso momento, il premier invita il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, a dimettersi se in disaccordo con l’occupazione totale. La guerra, da conflitto difensivo, diventa “progetto”. Per i 600 ex alti funzionari della sicurezza israeliana, che firmano un appello pubblico a Trump, l’obiettivo reale non è la sicurezza: “Hamas non è più una minaccia strategica”, scrivono. L’IDF ha già raggiunto gli scopi militari ottenibili. Il resto è politica, anzi, ideologia.
Le dichiarazioni dei ministri vicini a Netanyahu rafforzano la lettura coloniale. Gila Gamliel, ministra della Scienza, condivide un video propagandistico in cui Gaza viene raffigurata come una “riviera israeliana”, costellata di grattacieli e turisti, svuotata di popolazione palestinese. Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, esponenti dell’ultradestra, parlano di “riunificazione del territorio storico ebraico”, richiamando direttamente il linguaggio del sionismo religioso più radicale.
Il linguaggio di Netanyahu non è solo pubblico, ma anche diplomatico: il premier comunica con Trump, ottenendo — secondo alcune testate — il suo via libera ufficiale all’occupazione. In risposta, Mike Johnson, presidente della Camera USA, dichiara che le montagne della Cisgiordania “sono proprietà legittima del popolo ebraico”. È una dichiarazione ideologica, non militare. È la normalizzazione retorica dell’appropriazione territoriale.
Parallelamente, la rimozione della procuratrice Gali Baharav-Miara, che stava processando Netanyahu, e l’inibizione della magistratura e dei dissidenti interni, trasformano il contesto israeliano in un ecosistema ideale per una svolta coloniale. Come si legge su “Il Manifesto”, “Netanyahu consolida il potere interno e proietta Gaza in uno scenario post-bellico in cui non è prevista la sovranità palestinese”.
Anche il linguaggio negazionista usato da Netanyahu sulla crisi umanitaria si configura come dispositivo coloniale: “La fame è vera solo per gli ostaggi”, dichiara. Non per i due milioni di civili palestinesi. La narrazione politica nega la realtà per legittimare una disumanizzazione su base etnica, premessa storica di ogni progetto coloniale.
Nina Celli, 5 agosto 2025
Le dichiarazioni ufficiali evidenziano obiettivi militari e di sicurezza, non colonizzazione
Il 4 agosto 2025, il governo israeliano diffonde una dichiarazione chiara: “La decisione è stata presa, occuperemo tutta la Striscia di Gaza.” La notizia viene rilanciata da tutti i principali media israeliani e internazionali. Ma quale è l’obiettivo reale di questa decisione? Secondo i portavoce del governo, è duplice: eliminare Hamas e liberare gli ostaggi. Parlare di colonizzazione significa confondere lo scenario bellico con un progetto ideologico che, nei fatti, non è supportato da decisioni operative.
Fin dall’inizio della guerra, il linguaggio ufficiale israeliano ha mantenuto una linea strategica coerente: “Israele non vuole occupare Gaza, ma eliminare la minaccia esistenziale di Hamas”, aveva dichiarato Netanyahu già nell’ottobre 2023. Anche l’annuncio del 4 agosto 2025, pur nei toni duri, resta circoscritto a un contesto emergenziale: Gaza è vista come una base operativa di un’organizzazione terroristica che ha ucciso oltre 1200 civili israeliani e lanciato oltre 15.000 razzi contro territori abitati. L’utilizzo di frasi come “il dado è tratto” non equivale a un progetto di annessione. È retorica bellica, non giuridica. Nessun documento ufficiale del governo israeliano — né in sede Knesset né all’ONU — ha dichiarato l’intenzione di annettere Gaza o di insediarvi popolazione israeliana. Non esistono piani urbanistici approvati, né modifiche alla legge israeliana che prevedano un’estensione della sovranità sulla Striscia. La ministra Gila Gamliel, ad esempio, non ha parlato in sede ufficiale, ma ha pubblicato un video non istituzionale, privo di valore normativo.
La pressione su Eyal Zamir, capo dell’IDF, si inserisce in una logica di disciplina militare durante uno scontro armato. Zamir aveva espresso preoccupazioni operative, non etiche, sull’occupazione totale. Il suo disaccordo, secondo numerosi analisti, verteva sulla sostenibilità strategica dell’operazione, non sulla sua legittimità. Richiedere una coerenza nella catena di comando, in un momento di conflitto, non implica intenti coloniali. Anche l’appello dei 600 ex funzionari della sicurezza, spesso citato come prova di un’opposizione interna alla colonizzazione, è in realtà focalizzato sulla necessità di un cessate il fuoco per salvare gli ostaggi. Gli stessi firmatari riconoscono che Hamas è ancora attiva e che l’instabilità rende fragile ogni accordo. La loro critica è politica, non giuridica: non denunciano un piano di reinsediamento, ma una strategia militare che considerano inefficace.
Quanto al sostegno di Trump, alcune fonti analizzate riportano appoggio politico e militare all’azione contro Hamas, non a una colonizzazione. Le parole di Mike Johnson sulla “proprietà ebraica” della Cisgiordania non riguardano Gaza, che storicamente non è inclusa nei progetti di insediamento anche dei settori più estremisti del Likud. La confusione tra retorica ideologica e realtà politica è quindi infondata.
La negazione della crisi umanitaria da parte di Netanyahu — “la fame è vera solo per gli ostaggi” — non deve essere letta come progetto di pulizia etnica, ma come strumentalizzazione retorica all’interno di un conflitto armato. È criticabile, certamente, ma appartiene alla guerra psicologica, non alla costruzione di un insediamento coloniale. Nessun documento internazionale — nemmeno da parte dell’ONU — ha fino a oggi etichettato l’offensiva israeliana come colonizzazione.
Le dichiarazioni del 4 agosto 2025, quindi, rientrano in un contesto di guerra contro un’organizzazione terroristica che controlla un territorio. Parlare di “progetto coloniale” è una forzatura interpretativa. Non vi è, né nei testi, né nelle decisioni operative, né nei documenti ufficiali, alcuna prova concreta che l’intento sia l’annessione o la sostituzione della popolazione palestinese. Il governo israeliano, nel suo linguaggio ufficiale, continua a presentare la guerra a Gaza come una necessità militare, non un disegno ideologico.
Nina Celli, 5 agosto 2025
L’espansione militare e la gestione delle zone conquistate ricalcano modelli coloniali
Dall’ottobre 2023, Israele ha lanciato una delle più lunghe e complesse campagne militari della sua storia nella Striscia di Gaza. Ma è il 4 agosto 2025 che segna una svolta: il governo Netanyahu annuncia ufficialmente l’“occupazione totale” della Striscia, estendendo il controllo militare anche alle aree densamente popolate, compresi i campi profughi e le zone in cui si sospetta la presenza di ostaggi. L’obiettivo dichiarato è triplice: sconfiggere Hamas, liberare i prigionieri israeliani e impedire che Gaza sia una minaccia futura. Tuttavia, le modalità operative con cui viene messa in atto questa strategia ricalcano in modo sistematico schemi coloniali, non soltanto tattiche belliche. A supporto di questa tesi si pongono due fatti fondamentali: l’estensione del controllo fisico. Già nel 2024, il governo aveva creato il cosiddetto “corridoio di Morag”, un’area cuscinetto che separava il nord dal sud della Striscia. A partire dal 2025, Israele arriva a occupare oltre il 75% del territorio. La nuova fase prevede l’ingresso anche nelle “zone rosse”, dove si concentrano sfollati, tende ONU e i pochi ospedali ancora in funzione. L’obiettivo non è più solo militare: è territoriale e amministrativo. L’altro fatto significativo è la gestione della popolazione civile, che segue una logica tipicamente coloniale: spostamenti forzati, accesso condizionato agli aiuti e controllo diretto dei centri di distribuzione, spesso protetti da contractor armati. Come riportano “Al Jazeera” e “Euronews”, centinaia di civili sono stati uccisi mentre cercavano cibo nei punti di lancio degli aiuti e diverse ONG denunciano che i centri controllati da Israele sono diventati vere e proprie “trappole” per la popolazione. La Gaza Humanitarian Foundation (GHF), fondata con il sostegno israeliano e statunitense, è considerata da molti osservatori internazionali uno strumento di gestione demografica indiretta.
Le forze israeliane non solo hanno disarticolato la rete amministrativa di Hamas, ma hanno sostituito tutte le funzioni di governo, prendendo il controllo degli ingressi, dei registri anagrafici, dei movimenti umani. In altre parole, la popolazione palestinese viene gestita non come entità politica autonoma, ma come massa sotto amministrazione di un potere occupante.
Il controllo si estende anche a livello simbolico e culturale. I raid aerei su scuole, università e moschee, accompagnati dalla distruzione sistematica delle infrastrutture civili, riducono Gaza a un territorio spoglio e ricostruibile secondo nuovi parametri. Il progetto urbanistico diffuso da ambienti governativi immagina Gaza non come luogo da ricostruire per i suoi abitanti, ma come spazio “vuoto” da riqualificare per interessi esterni. È la classica narrazione colonialista del “territorio da civilizzare”. In parallelo, gli apparati istituzionali israeliani stanno valutando la propria permanenza logistica nella Striscia. Secondo analisti militari, l’impiego pianificato di almeno sei divisioni dell’IDF — anche in assenza di minacce attive — suggerisce un presidio prolungato e strutturato, analogo a quello in Cisgiordania.
La resistenza armata viene progressivamente svuotata di significato militare e ridefinita come resistenza alla colonizzazione. Lo dicono le proteste degli stessi israeliani: i 600 firmatari della lettera a Trump, gli ex capi del Mossad e dello Shin Bet, parlano esplicitamente di “fine della guerra giusta” e denunciano che gli obiettivi iniziali sono già stati raggiunti. Ciò che resta — l’occupazione totale — “non serve più alla sicurezza, ma a un’egemonia territoriale”.
L’insieme delle operazioni militari, delle pratiche di gestione civile, del linguaggio impiegato e della visione urbanistica proposta convergono verso una sola ipotesi: il controllo di Gaza non è transitorio né contingente, ma strutturale, sistematico e intenzionalmente progettato secondo modelli coloniali.
Nina Celli, 5 agosto 2025
Le operazioni militari mirano a eliminare minacce armate e non a controllare la popolazione
L’operazione di “occupazione totale” annunciata da Benjamin Netanyahu il 4 agosto 2025 non può essere compresa al di fuori del contesto strategico che l’ha prodotta: un conflitto militare diretto con Hamas, un’organizzazione armata che da decenni controlla la Striscia di Gaza, lancia razzi verso Israele e tiene prigionieri decine di ostaggi. Il fatto che l’esercito israeliano si prepari a entrare nelle ultime aree non ancora controllate — comprese zone civili — è, dunque, un’escalation tattica, non la fase finale di un piano coloniale. A sostegno di questa tesi, ci sono precise dichiarazioni istituzionali, ripetute nel tempo e mai smentite da documenti ufficiali. In nessuna sede pubblica, né presso la Knesset, né nei canali diplomatici internazionali, il governo israeliano ha parlato di annessione o reinsediamento. La comunicazione dell’ufficio del primo ministro si limita a tre obiettivi chiari: “Sconfiggere Hamas, liberare gli ostaggi e garantire che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele”. Nessuno di questi implica colonizzazione.
La presenza di forze militari in aree civili o in campi profughi non è inedita né anomala in guerra urbana. In molte guerre contemporanee, anche le operazioni NATO (come in Afghanistan e in Iraq) hanno comportato l’occupazione temporanea di aree densamente popolate. Il diritto internazionale non vieta l’occupazione militare temporanea, purché non si trasformi in amministrazione civile o trasferimento di popolazione — ed è proprio ciò che non è avvenuto a Gaza. Israele, infatti, non ha installato colonie né insediamenti civili nella Striscia dal ritiro unilaterale del 2005. Contrariamente alla Cisgiordania, nessun ministro ha presentato piani urbanistici approvati, né sono state emesse autorizzazioni edilizie per famiglie israeliane. Il tanto citato video della ministra Gila Gamliel non è un documento governativo, ma propaganda individuale. La trasformazione di Gaza in “riviera turistica” è una metafora provocatoria, non un progetto attuativo.
Anche la gestione degli aiuti umanitari è stata delegata ad agenzie riconosciute, nonostante le difficoltà. È vero che la Gaza Humanitarian Foundation è stata criticata, ma l’ONU continua a operare (in forma ridotta) nei territori sotto controllo israeliano e diverse ONG confermano che la logistica militare non coincide con una gestione civile diretta. Il fatto che i centri di distribuzione siano presidiati militarmente, a causa del rischio di infiltrazioni armate, non equivale a uno schema coloniale. È, al contrario, la prassi in contesti di guerra asimmetrica. La presenza di contractor o soldati israeliani nei pressi dei centri umanitari non dimostra intenzione di controllo territoriale permanente. In nessun caso, dalle fonti esaminate, emerge un tentativo di amministrare Gaza come parte integrante di Israele. Né il sistema legale israeliano né quello internazionale riconoscono l’estensione di sovranità sulla Striscia.
Anche la mobilitazione di sei divisioni dell’IDF non implica colonizzazione. È, come spiegato da diversi analisti militari, una misura per completare la neutralizzazione militare di Hamas, non per instaurare un’amministrazione civile. La presenza prolungata di soldati in territorio ostile non è una prova di colonizzazione: è un’esigenza strategica.
L’opposizione interna, inoltre, non parla di colonizzazione, ma di efficacia strategica. I 600 firmatari dell’appello a Trump — tra cui ex direttori di Mossad e Shin Bet — criticano la durata del conflitto, non la sua natura. Nessuno accusa Netanyahu di voler annettere Gaza. Le loro parole chiave sono “proporzionalità”, “negoziato”, “fine dell’emergenza”, non “occupazione permanente”.
Le modalità operative dell’IDF a Gaza, per quanto brutali o discutibili in termini umanitari, rientrano nei parametri di una guerra convenzionale contro un’organizzazione armata. Non c’è, nelle azioni né nelle dichiarazioni ufficiali, la prova di un disegno coloniale. Parlare di “modello coloniale” equivale a proiettare categorie storiche su un conflitto asimmetrico ancora in corso, in cui l’obiettivo, per Israele, resta militare, non territoriale.
Nina Celli, 5 agosto 2025
Il blocco degli aiuti e le immagini progettuali indicano un piano di sostituzione demografica
L’occupazione della Striscia di Gaza, così come annunciata e messa in atto dal governo Netanyahu a partire dal 4 agosto 2025, non è soltanto una strategia militare: è un’operazione che incarna una logica di svuotamento della popolazione palestinese e di controllo selettivo dello spazio, configurandosi in tutto e per tutto come una sostituzione demografica pianificata. Gli indizi si sommano in modo progressivo. Il primo è il trattamento riservato alla popolazione civile. Secondo “Al Jazeera”, in un solo giorno sono stati uccisi 60 civili mentre cercavano aiuti alimentari. Il bilancio totale, secondo “Euronews” e “Corriere della Sera”, ha superato i 60.000 morti, oltre il 50% dei quali donne e bambini. L’ONU, nella voce del relatore Michael Fakhri, ha dichiarato che Israele ha creato “la macchina della fame più efficiente mai vista” (“The Guardian”, 5 agosto). La fame, in questo caso, non è un effetto collaterale: è un mezzo di pressione sistemica. È l'arma per spingere all’esodo, per indebolire la resistenza civile, per rendere Gaza invivibile.
A questa pressione si aggiunge la gestione selettiva degli aiuti. Le agenzie umanitarie denunciano che i lanci aerei di cibo, effettuati da Israele e USA, hanno causato decine di morti, tra cui infermieri e volontari. La Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Israele, è ritenuta da diverse ONG una struttura di controllo territoriale: i suoi centri di distribuzione sono presidiati da contractor armati e spesso collocati in aree accessibili solo con permessi israeliani. Di fatto, chi riceve aiuti deve transitare sotto controllo israeliano, in uno schema che riproduce quello già in atto in Cisgiordania. Nel frattempo, mentre la popolazione muore di fame o tenta la fuga verso Rafah, il governo israeliano promuove una nuova visione urbanistica: un video diffuso dalla ministra Gila Gamliel raffigura Gaza come una località balneare, senza traccia di insediamenti palestinesi. Le spiagge sono affollate di turisti, i grattacieli svettano tra piscine e yacht. Non si tratta solo di immaginazione propagandistica: è un progetto di rimozione culturale e simbolica della Palestina da Gaza. È la rappresentazione visiva di uno spazio liberato dagli autoctoni, pronto per una nuova colonizzazione. A sostegno di questa lettura, si possono richiamare le marce pubbliche organizzate da movimenti pro-settler in Israele. Il 30 luglio 2025, come riportato da “Haaretz”, migliaia di manifestanti hanno marciato verso l’ex insediamento di Dugit, chiedendo la ricostruzione delle colonie ebraiche evacuate nel 2005. Il movimento non è marginale: è sostenuto da parlamentari del Likud e dell’alleanza religiosa Sionismo Nazionale. Il loro slogan è “Riprendiamoci Gaza”.
Nel linguaggio coloniale classico, questo si chiama “progetto di reinsediamento”. Non si tratta ancora di bulldozer e mattoni, ma di immaginazione istituzionale e spostamento simbolico. Ogni evacuazione forzata di famiglie palestinesi, ogni valico chiuso, ogni campo profughi bombardato non è più solo una misura di guerra, è la creazione intenzionale di un vuoto demografico. Uno spazio svuotato non per sicurezza, ma per essere riempito da altro.
In questo quadro, il blocco alla mobilità diventa chiave. Come riportato da “Il Manifesto” e “Avvenire”, Israele ha impedito l’accesso dei convogli umanitari giordani, violando gli accordi di sicurezza regionali. Le ONG internazionali denunciano l’impossibilità di muoversi tra nord e sud della Striscia, con oltre un milione di sfollati confinati in aree senza acqua, elettricità o servizi sanitari. Il risultato è una popolazione isolata, affamata, traumatizzata e uno spazio strategico progressivamente “liberato”. Non si tratta più solo di neutralizzare Hamas. Si tratta di distruggere le basi sociali della presenza palestinese a Gaza, per renderla una terra ricolonizzabile. Così, la gestione della popolazione si trasforma da strategia militare in strumento di espulsione controllata. È una sostituzione demografica nel XXI secolo: non più truppe di coloni con tende e fucili, ma video promozionali, controllo degli aiuti e morte per fame. Gaza, nella visione attuale del governo israeliano, non è da ricostruire per i palestinesi, è da riconvertire, per altri usi.
Nina Celli, 5 agosto 2025
Non vi sono evidenze ufficiali o operative di reinsediamento israeliano nella Striscia
L’ipotesi secondo cui Israele starebbe attuando un piano di sostituzione demografica nella Striscia di Gaza si basa su un’interpretazione ideologica, non su fatti concreti o dati verificabili. A oggi, non esiste nessun documento ufficiale, legge, piano urbanistico, o ordine esecutivo da parte del governo israeliano che preveda insediamenti civili, colonie, o espulsione permanente della popolazione palestinese da Gaza. L’azione militare avviata dal governo Netanyahu ha come obiettivo dichiarato, e coerentemente ripetuto, la distruzione dell’apparato militare e politico di Hamas e la liberazione degli ostaggi. A testimoniarlo sono tutte le fonti istituzionali. Netanyahu, nel suo discorso al governo, ha elencato tre obiettivi: “sconfiggere il nemico, liberare gli ostaggi, e impedire che Gaza rappresenti una minaccia futura per Israele”. Queste priorità non coincidono con l’intenzione di reinsediare la Striscia con popolazione ebraica.
L’evocazione di un video promozionale diffuso dalla ministra Gila Gamliel, che raffigura Gaza come un luogo turistico futuristico, è un’opinione politica isolata, priva di valore giuridico o amministrativo. Non esistono piani urbanistici approvati. Non vi è alcuna delibera ministeriale o mappa di insediamenti depositata. L’immaginario mostrato nel video — per quanto offensivo o provocatorio — non ha alcun potere esecutivo. Né è stato ratificato da alcun organismo parlamentare. Analogamente, la marcia di alcuni gruppi pro-settler verso l’ex insediamento di Dugit, riportata da “Haaretz”, è un atto dimostrativo. Il governo israeliano non ha sostenuto ufficialmente quella manifestazione, né ha autorizzato il reinsediamento. Non basta la presenza di slogan come “Riprendiamoci Gaza” per dedurne un piano demografico statale. In democrazia, anche le frange più radicali possono manifestare, ma ciò non implica che le loro richieste siano tradotte in politiche governative.
Sulla questione umanitaria, è indubbio che la situazione a Gaza sia drammatica. Tuttavia, l’uso militare del blocco agli aiuti è spiegabile nel contesto del conflitto con Hamas, non come strumento di pulizia etnica. L’esercito israeliano ha spesso dichiarato che i lanci aerei di aiuti sono stati coordinati con autorità internazionali e che le morti accidentali durante la distribuzione dipendono dal caos e dalla presenza di combattenti nei pressi dei centri umanitari. A sostenerlo sono fonti israeliane, ma anche “BBC” e “Reuters”, che riportano dinamiche ambigue in cui gli scontri armati e il sovraffollamento rendono il contesto estremamente instabile. Le accuse di “carestia come arma” sono gravi, ma finora nessuna organizzazione delle Nazioni Unite ha parlato esplicitamente di progetto di espulsione demografica. Il termine “genocidio” è stato utilizzato in senso politico da ONG e giornalisti, ma non è stato sancito da alcun organismo giuridico internazionale. Il Tribunale Penale Internazionale, ad oggi, non ha emesso alcuna condanna formale per tali accuse.
Per quanto riguarda il presunto svuotamento della Striscia, i numeri raccontano una realtà diversa. Nonostante il milione e mezzo di sfollati interni, la popolazione non sta fuggendo dalla Striscia in massa, né vi sono corridoi aperti per una migrazione forzata. Al contrario, le vie di uscita sono bloccate — in parte da Israele, in parte dall’Egitto — proprio per evitare un esodo di massa non controllato. Questo contraddice la logica di un’espulsione intenzionale.
Infine, l’argomento secondo cui la morte di civili palestinesi equivarrebbe a una strategia di sostituzione è problematico. La sproporzione nell’uso della forza può essere criticata, anche severamente, ma non è di per sé prova di un piano demografico. È il dramma di una guerra asimmetrica, non di una colonizzazione. Non ci sono, quindi, prove sostanziali, né giuridiche né operative, di una politica israeliana volta a reinsediare Gaza con cittadini israeliani o a svuotarla intenzionalmente dalla sua popolazione palestinese. Ciò che avviene è una guerra tragica, disastrosa, ma non una colonizzazione. La sostituzione demografica è una tesi interpretativa, non una realtà comprovata dai fatti.
Nina Celli, 5 agosto 2025
Il sostegno internazionale e la repressione del dissenso interno sono funzionali a un progetto coloniale
L’annuncio dell’occupazione totale di Gaza da parte del governo Netanyahu non è un episodio isolato. È l’apice di un processo che coinvolge una rete internazionale di appoggi politici, un’opposizione interna neutralizzata e una crescente normalizzazione del controllo israeliano sulla popolazione palestinese. In questa cornice, la politica israeliana non si muove da sola: si regge su un’architettura politico-diplomatica che la rende possibile, sostenibile e, per molti osservatori, finalizzata a un disegno coloniale. In primo luogo, il sostegno dell’amministrazione Trump si è rivelato decisivo. Secondo diverse testate, fonti dell’intelligence israeliana confermano che il presidente USA ha dato a Netanyahu il via libera formale all’operazione. Il presidente della Camera USA, Mike Johnson, ha visitato la Cisgiordania e dichiarato che “le montagne della Giudea e della Samaria sono legittima proprietà del popolo ebraico”. Una frase che, in contesto coloniale, legittima la sovranità unilaterale israeliana su territori contesi, minando ogni prospettiva di due popoli – due Stati.
A questa retorica si aggiungono misure legislative punitive: Trump ha annunciato l’intenzione di tagliare i fondi federali alle città americane che boicottano aziende israeliane. È evidente che chi si oppone alla politica israeliana sarà escluso. Il messaggio è quello del pieno e incondizionato appoggio a Tel Aviv. Una libertà d’azione che si traduce, sul campo, in operazioni militari prive di vincoli internazionali.
Ma il consolidamento coloniale non è solo esterno. Avviene anche dentro Israele, con la repressione sistematica di ogni dissenso. La rimozione della procuratrice generale Gali Baharav-Miara, il 4 agosto, ne è un esempio emblematico. Baharav-Miara era la titolare del procedimento per corruzione contro Netanyahu e aveva definito l’occupazione “politicamente motivata”. La sua rimozione, dichiarata “illegale” dalla magistratura, è passata con un voto unanime della Knesset. Un gesto che dimostra come il potere esecutivo sia disposto a sopprimere l’indipendenza giudiziaria per garantire la prosecuzione del proprio disegno.
Anche il capo dell’IDF, Eyal Zamir, è stato messo all’angolo. Il suo scetticismo sulla sostenibilità dell’occupazione — definita “un’operazione che richiederà anni e provocherà migliaia di vittime civili” — è stato ignorato. Netanyahu ha risposto pubblicamente: “Se non è d’accordo, si dimetta”. La catena di comando è stata così militarizzata, ma anche politicizzata: ogni opposizione interna viene trattata come ostacolo all’attuazione del piano.
Lo stesso vale per la società civile. I familiari degli ostaggi, una delle voci più autorevoli nel dibattito pubblico israeliano, sono stati zittiti. Alla Knesset, la deputata del Likud Tally Gotliv ha gridato alla madre di un ostaggio: “Chiudi la bocca!” (“Il manifesto”). Il governo israeliano ha mostrato intolleranza crescente verso ogni forma di contestazione, interna o esterna, che metta in dubbio la strategia di Netanyahu. La stampa critica è sotto pressione. Manifestazioni pacifiste vengono disperse. Gli ex generali, pur essendo numerosi — oltre 600 hanno firmato una lettera a Trump — non riescono a influenzare la politica ufficiale. Nonostante la loro denuncia che “Hamas non è più una minaccia strategica”, la macchina militare continua a espandersi.
In questo clima, la struttura istituzionale israeliana si piega alla logica dell’occupazione perpetua: magistratura neutralizzata, dissenso represso, esercito subordinato alla volontà politica del premier e un governo esterno (gli Stati Uniti) che garantisce protezione diplomatica e finanziaria.
La colonizzazione di Gaza non è quindi solo un progetto militare. È il prodotto di un sistema multilivello, in cui consenso internazionale e repressione interna convergono per permettere un’espansione territoriale senza limiti. Senza questo sistema, la colonizzazione non sarebbe possibile. Ma oggi, è attivamente favorita.
Nina Celli, 5 agosto 2025
Le critiche interne e la pressione internazionale ostacolano ogni ipotesi di colonizzazione
Se davvero Israele avesse avviato un progetto di colonizzazione sistematica della Striscia di Gaza, come molti analisti suggeriscono, ci si aspetterebbe un contesto politico e internazionale favorevole, compatto e funzionale a tale disegno. Invece, la realtà delle dinamiche interne e diplomatiche è esattamente l’opposto: l’operazione militare di Netanyahu è osteggiata da una parte consistente dell’apparato statale israeliano, da settori importanti dell’opinione pubblica e da attori internazionali di primo piano. Parlare di “sistema coloniale” coeso è, dunque, una forzatura. La prima smentita a questa tesi viene proprio dalla società israeliana. Come riportato da diverse testate, più di 600 ex funzionari della sicurezza, tra cui ex capi del Mossad, dello Shin Bet, dell’IDF e della polizia, hanno firmato un appello in cui chiedono apertamente la fine della guerra e il ritorno al negoziato. La loro motivazione è strategica e pragmatica: “Hamas non è più una minaccia militare e l’occupazione di Gaza sarà controproducente”. Tra i firmatari figurano ex primi ministri come Ehud Barak, dimostrando che l’opposizione non è marginale, ma strutturata.
Lo stesso vale per le famiglie degli ostaggi, che hanno accusato Netanyahu di strumentalizzare la loro tragedia per scopi politici. In conferenze stampa e proteste pubbliche, dichiarano che “la liberazione degli ostaggi non è più una priorità per il governo” (“CNN”, “Il Manifesto”). È difficile sostenere che una società così divisa e polarizzata possa sostenere in modo coeso un progetto di colonizzazione territoriale.
Anche all’interno dell’establishment militare le resistenze sono documentate. Il capo dell’IDF, Eyal Zamir, si è apertamente opposto all’occupazione totale della Striscia, giudicandola “un’operazione troppo costosa, rischiosa e poco sostenibile a lungo termine”. Netanyahu, pur avendo risposto con fermezza — “Se non è d’accordo, si dimetta” — non è riuscito a rimuoverlo né a garantirsi il consenso dell’intero comando. Il fatto che Zamir abbia annullato una visita ufficiale negli USA per evitare di appoggiare la linea del governo mostra che la macchina bellica israeliana non è affatto unitaria, né completamente sotto controllo del potere esecutivo.
Sul piano internazionale, il sostegno ricevuto da Israele è più fragile di quanto appaia. È vero che Donald Trump ha espresso parole di sostegno alla strategia israeliana, ma nessun trattato è stato firmato, nessuna garanzia ufficiale è stata sancita e l’appoggio USA è contestato anche internamente, come dimostrano le numerose città e università statunitensi che aderiscono ai movimenti di boicottaggio. La proposta di tagliare i fondi federali a chi boicotta Israele, avanzata da Trump, ha suscitato reazioni costituzionali e legali, ed è tutt’altro che operativa. Sul fronte europeo e regionale, la situazione è ancora più complessa. La Francia, il Regno Unito, la Spagna e il Canada hanno recentemente riconosciuto lo Stato di Palestina, proprio in risposta all’espansione militare di Israele (“The Guardian”). La Giordania ha denunciato pubblicamente che Israele “impedisce l’accesso degli aiuti”, e diversi attori arabi si sono ritirati dai tavoli negoziali in segno di protesta. Se la colonizzazione fosse in corso, sarebbe improbabile che Israele si esponga a una crisi diplomatica di tale portata.
Non meno importante è il ruolo del sistema giudiziario israeliano. Nonostante la rimozione della procuratrice Baharav-Miara, l’Alta Corte deve ancora pronunciarsi e la decisione potrebbe essere annullata. La separazione dei poteri in Israele, sebbene sotto pressione, non è stata formalmente abolita. Se il progetto fosse davvero coloniale, ci si aspetterebbe un’accelerazione autoritaria ben più marcata.
Non esiste una strategia a lungo termine pubblicata, approvata o discussa pubblicamente che tracci la roadmap di un reinsediamento israeliano a Gaza. Le operazioni militari, per quanto aggressive e contestabili, sono ancora inserite in un quadro bellico, non insediativo. Il linguaggio ufficiale parla ancora di “minaccia” e “neutralizzazione del nemico”, non di “espansione” o “integrazione territoriale”.
Le dinamiche interne e internazionali che circondano l’operazione militare israeliana su Gaza non sono dunque compatibili con un progetto di colonizzazione coerente e sistemico. L’opposizione è forte, visibile, e incide sulle decisioni strategiche. Parlare di colonizzazione è, in questo contesto, una proiezione teorica più che una descrizione dei fatti.
Nina Celli, 5 agosto 2025