QAnon è paragonabile a un sistema di fede
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nell’autunno del 2017, in un angolo oscuro del forum 4chan, un utente anonimo firmatosi “Q” pubblicò un messaggio criptico. Parlava di un imminente arresto di Hillary Clinton, di segreti governativi, di un’epica battaglia tra il bene e il male condotta da Donald Trump contro un’élite globale satanista e pedofila. Era l’inizio di QAnon, uno dei fenomeni complottisti più pervasivi e resistenti del XXI secolo.
QAnon non è nato dal nulla. È l’ultima mutazione di un filone culturale antico: la cultura del sospetto. Una disposizione mentale e collettiva che diffida della versione ufficiale dei fatti, che legge il mondo come un intrico di manipolazioni, segreti e poteri occulti. Una cultura che ha avuto, nel tempo, nomi e volti diversi – dalla caccia alle streghe al maccartismo, dalle teorie sugli Illuminati a quelle sul Nuovo Ordine Mondiale – ma che trova in QAnon una sintesi potente, mediatica e partecipativa.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
QAnon non è solo l’effetto di una crisi cognitiva collettiva, ma anche il riflesso di bisogni sociali, identitari ed epistemici che nella società contemporanea restano insoddisfatti.
QAnon non è una fede, è una degenerazione del sospetto che, lungi dall’essere strutturata, funziona come una macchina caotica di nonsense e ossessioni deliranti.
QAnon è un fenomeno estremo, ma non infondato, di una diffidenza verso istituzioni, media e autorità . Non va liquidato come semplice follia, ma visto come segnale di un disagio sociale.
QAnon è il prodotto di un ambiente digitale che ha trasformato il sospetto in norma sociale tossica. L’ambiguità e il sensazionalismo sono più preferiti alla razionalità.
QAnon è paragonabile a un sistema di fede: è una risposta disfunzionale a bisogni reali
Ridurre QAnon a un semplice prodotto della cultura del sospetto significa non coglierne la portata trasformativa. Il movimento non è solo l’effetto di una crisi cognitiva collettiva, ma anche il riflesso, per quanto distorto, di bisogni sociali, identitari ed epistemici che nella società contemporanea restano insoddisfatti. In un mondo dove la fiducia è crollata, la complessità è aumentata e l'accesso all'informazione è illimitato ma caotico, QAnon ha finito per funzionare come un sistema di interpretazione e di appartenenza. Brian Holoyda, nel suo studio per JAAPL (2022), parla di “delusion-like beliefs”, ma ne sottolinea la natura collettiva: non deliri clinici, bensì “credenze rigide e resistenti, legate a dinamiche culturali e sociali”. Questo tipo di credenze non nascono nel vuoto, ma in un contesto in cui le istituzioni tradizionali – media, scienza, politica – sono percepite come inaccessibili o inaffidabili. In questa condizione, il bisogno umano di ordine e significato trova sbocco in narrazioni radicali, anche se infondate.
QAnon offre una visione del mondo coerente (seppur falsa), fondata su una dicotomia semplice: bene contro male, verità contro inganno, giustizia contro corruzione. Per chi si sente alienato, invisibile o impotente, questa narrazione offre non solo risposte, ma uno scopo. La figura di Donald Trump come redentore segreto, il concetto di “The Storm” come catarsi imminente, le mitologie sui “bambini salvati” contro l’élite: tutto contribuisce a creare un immaginario morale in cui il seguace ha un ruolo centrale.
Le testimonianze raccolte dal “New York Times”, da “Wired” e da Jesselyn Cook in The Quiet Damage mostrano come QAnon agisca da collante emotivo e identitario, soprattutto per persone isolate, anziani, individui segnati da traumi personali o da perdita di status sociale. In questo senso, non si tratta solo di cospirazione: si tratta di reintegrazione simbolica in una realtà percepita come ostile. Il linguaggio stesso del movimento – “great awakening”, “red pill”, “dark to light” – richiama rituali di iniziazione, di risveglio, di purificazione. Non è difficile riconoscere in queste metafore il tentativo, goffo ma umano, di costruire un senso collettivo in un'epoca di frammentazione. Daniel Immerwahr, su “Internazionale”, nota che “seguire QAnon richiede un impegno parareligioso, ma risponde a un bisogno reale di appartenenza ontologica”. Secondo la “Harvard Gazette”, il passaggio dalla semplice sfiducia all’adesione avviene quando la teoria non è più solo una spiegazione alternativa, ma diventa identità. Ecco perché QAnon smette di essere “una teoria” e diventa vocazione: un ministero digitale, con predicatori, rituali, e una comunità globale che si autoalimenta. La chiusura epistemica del movimento – l’idea che “noi abbiamo già le risposte, chi dubita è parte del problema” – è sicuramente problematica. Ma essa non nasce da fanatismo puro, bensì da un bisogno disperato di stabilità e senso. In un mondo in cui il sapere ufficiale è percepito come contraddittorio, elitario o compromesso, la coerenza – anche se fittizia – diventa irresistibile.
Trattare QAnon solo come follia o delirio collettivo rischia dunque di oscurare la sua funzione sociale: è un tentativo disfunzionale, ma profondamente umano, di rispondere a un mondo che appare ingovernabile. Non va giustificato nei contenuti, ma compreso nelle motivazioni. Solo così si potrà costruire una contro-narrazione capace non solo di smascherare, ma anche di includere.
Nina Celli, 2 agosto 2025
QAnon non è una fede, è una spirale di follia sistemica alimentata dal sospetto
Paragonare QAnon a una religione è una lettura affascinante, ma pericolosamente riduttiva. Non solo perché ne sovrastima la coerenza interna, ma soprattutto perché sottovaluta i tratti profondamente irrazionali delle sue narrazioni. QAnon non è una fede, è una sindrome culturale, una degenerazione del sospetto che, lungi dall’essere strutturata, funziona come una macchina caotica di nonsense e ossessioni deliranti. Ad esempio, le “rivelazioni” fondamentali del movimento: una cabala mondiale di pedofili satanisti composta da leader democratici, attori di Hollywood e banchieri globalisti; bambini tenuti prigionieri in tunnel sotto Disneyland per estrarne adrenalina e allungare la vita delle élite; il ritorno segreto di JFK Jr., creduto morto dal 1999, per candidarsi come vice di Trump. Sono elementi che, più che rimandare a una fede strutturata, somigliano a uno psicodramma collettivo.
Come ha sottolineato dal “New York Times”, molti dei contenuti Q sono “impermeabili a ogni logica”: qualsiasi smentita è considerata parte del complotto, qualsiasi silenzio è la prova che “qualcosa bolle in pentola”. Siamo ben oltre il sospetto: siamo nel regno della paranoia, dove la realtà è completamente assorbita da una fiction autoalimentata. Brian Holoyda ha parlato di “delusion-like beliefs”, e non a caso: QAnon non organizza una dottrina, ma una successione labirintica di piste false, falsi profeti e mitologie senza coerenza. Ogni nuovo Q drop diventa materia per teorie che uniscono astrologia, numerologia, decodifica militare ed esegesi da forum online. La fede ha una direzione, QAnon è disordine. I contenuti raccolti da Jesselyn Cook in The Quiet Damage mostrano come molte persone, assorbite da questa macchina narrativa, smettano di lavorare, taglino i legami familiari, si rovinino finanziariamente comprando lingotti o scorte per l’imminente apocalisse. “Wired” racconta casi di persone che, convinte della natura demoniaca dei vaccini, si sono auto-escluse dal sistema sanitario o hanno commesso atti violenti “per salvare i bambini”. Persino la retorica interna al movimento – “dark to light”, “trust the plan”, “the storm is coming” – ricorda più una distopia adolescenziale che una religione. Non c’è liturgia: c’è un accumulo senza fine di frasi fatte, risemantizzate per tenere vivo l’inganno. Secondo “Reason”, la narrativa Q sopravvive proprio grazie alla sua incoerenza: chi aderisce deve fare salti logici continui, interpretare ogni tweet, ogni ritardo, ogni arresto come segno di una guerra invisibile. Daniel Immerwahr nota che “seguire QAnon è come vivere in una fiction interattiva, in cui ogni giorno si aggiungono nuovi livelli e nuove missioni, anche se non portano da nessuna parte”. È il principio dell’infinite scroll applicato al pensiero cospirazionista: nessuna verità, solo tensione permanente.
Definire tutto questo “fede” è un favore che il movimento non merita. La fede richiede un minimo di coerenza dottrinale, un’etica, una promessa di salvezza universale. QAnon è tribalismo emotivo e frenesia interpretativa. È più simile a una sindrome culturale di gruppo che a una religione. Come ha detto il giornalista Philip Bump (“Washington Post”), “Trump non ha creato la cultura del sospetto, ma ha saputo cavalcare la sua parte più isterica”.
QAnon non è paragonabile a una fede ma a un gioco malato, un incubo collettivo nato dalla solitudine digitale, divenuto rifugio per chi non riesce più a distinguere la realtà dai meme. Affrontarlo come fosse una religione significa legittimarlo. Occorre, piuttosto, trattarlo come ciò che è: una forma avanzata di disconnessione cognitiva, resa virale dall’economia dell’attenzione e da una società che ha perso gli anticorpi del pensiero critico.
Nina Celli, 2 agosto 2025
La paranoia politica non basta a spiegare il fenomeno QAnon
Il sospetto da solo non è sufficiente a spiegare l’estensione e la resilienza del fenomeno QAnon. Ma liquidarlo come semplice follia o radicalismo paranoide sarebbe altrettanto riduttivo. QAnon è emerso e si è radicato come espressione estrema, ma non infondata, di una diffidenza crescente verso istituzioni, media, e autorità epistemiche. In una società segnata da crisi di fiducia, polarizzazione informativa e frammentazione identitaria, QAnon ha offerto a molti non solo risposte, ma una cornice simbolica in cui collocare il disorientamento. Il “New York Times” del 26 luglio 2025 mostra come il linguaggio di QAnon – con riferimenti al “deep State”, alla “cospirazione globale”, alla “battaglia finale” – sia entrato nel discorso politico mainstream, soprattutto nella destra americana. Ma questa trasformazione non è stata improvvisa: è il risultato di anni di delegittimazione delle istituzioni, percepite da ampie fasce di popolazione come distanti, opache, autoreferenziali. QAnon, in questo senso, non ha inventato il sospetto, lo ha solo canalizzato in una narrativa organica, moralmente dicotomica e rassicurante.
La “Harvard Gazette” interpreta QAnon come un “culto” più che come un’ideologia. Ma questa etichetta – pur utile a spiegare la struttura chiusa del pensiero Q – rischia di oscurare un dato importante: molti aderenti non sono fanatici violenti, ma persone in cerca di senso, comunità e riconoscimento. La struttura di QAnon offre ruoli precisi (il cercatore di verità, il risvegliato, il salvatore) e un mondo leggibile. In un tempo caratterizzato dall’ipercomplessità, ciò rappresenta un potente attrattore.
Daniel Immerwahr osserva che il fervore dei seguaci è simile a quello dei movimenti escatologici. Ma è proprio la tensione escatologica a dare significato a vite segnate da insicurezza, perdita di status o isolamento. I thread su Truth Social, i video decodificatori su YouTube, la rilettura dei “Q drops” diventano, per molti, spazi di partecipazione, di agency, in un mondo percepito come ostile e incontrollabile. Brian Holoyda distingue le “delusion-like beliefs” dal sospetto razionale: si tratta di credenze condivise, resistenti alla confutazione e associate a comportamenti a rischio. Ma queste credenze – per quanto infondate – nascono da un contesto reale: perdita di fiducia nelle istituzioni, vulnerabilità psicologica, crisi di rappresentanza. La manipolazione logica (inversione dell’onere della prova, cherry picking, attacchi ad hominem) non serve solo a ingannare gli altri, serve a proteggere una struttura cognitiva che, per l’adepto, è diventata identità. La logica non è rigida, ma funzionale alla coesione del gruppo. Il caso Epstein è emblematico. Per i sostenitori di QAnon, la morte in carcere di un uomo con legami con potenti è la “prova” di un sistema corrotto. Al di là dell’assurdità delle interpretazioni, la domanda di fondo (“perché certe verità sembrano sempre sfuggire?”) non è insensata: è il contesto emotivo che trasforma il sospetto in fede.
Come sostengono “The Guardian” e “NBC Palm Springs”, la forza di QAnon sta anche nella sua capacità di autosostenersi come identità politica. Quando persino Trump prende le distanze da alcune sue componenti, viene accusato di tradimento. Questo non perché il movimento sia folle, ma perché è stato costruito come risposta alternativa a un sistema considerato irrecuperabile.
QAnon, quindi, non è solo una patologia del sospetto, ma una proposta culturale – radicale, difettosa, pericolosa – che ha saputo offrire senso in un’epoca di disordine. Comprenderla non significa accettarla, ma riconoscere che il fanatismo si nutre spesso di domande legittime lasciate senza risposta.
Nina Celli, 2 agosto 2025
L’ecosistema digitale è un incubatore del sospetto e della follia narrativa di QAnon
QAnon non è nato nel vuoto: è il prodotto perfetto di un ambiente digitale che ha trasformato il sospetto da riflesso critico a norma sociale tossica. In rete, ogni click è un voto, ogni contenuto è in competizione per attrarre attenzione. In questa economia dell’engagement, l’ambiguità, la paura e il sensazionalismo sono più premiati della verifica e della ragione. QAnon ha saputo inserirsi e prosperare in questa dinamica, ma non con una logica razionale: con narrazioni deliranti e visioni maniacali del mondo. La rivista “Reason” ha definito QAnon “il lungo strascico del panico morale americano”, ma con un’arma devastante in più: la viralità digitale. Le “Q drops”, pubblicate da un sedicente insider del governo USA, sono una fiera dell’ambiguità: frammenti criptici, numerologia politica, predizioni mancate riformulate come “piani superiori”. Il “New York Times” ha giustamente paragonato QAnon a una serie televisiva interattiva dove fan ossessivi creano collegamenti tra tweet di Trump, notizie false e simbolismi esoterici. Ma la fiction, almeno, ha coerenza. QAnon è un metaverso paranoico dove ogni evento reale diventa una “prova” di un complotto invisibile e onnipresente. Secondo “Vox”, questa “caccia agli indizi” ha trasformato l’utente da osservatore passivo a “detective del caos”. Ma non si tratta di ragionamento: si tratta di pura suggestione. Come spiega “The Guardian”, “la verità non è più un valore condiviso, ma un oggetto narrativo collettivamente modellato”. E quando la verità è scritta a più mani da persone che credono che Hillary Clinton sia una vampira e che JFK Jr. sia ancora vivo, ciò che nasce non è fede: è delirio collaborativo.
L’Università di Bologna ha evidenziato la caduta verticale dell’autorevolezza nel digitale: oggi, un ciarlatano con una webcam vale quanto un epidemiologo. QAnon ha sfruttato questa crisi epistemica camuffando le sue follie con l’estetica della scienza: grafici, “documenti” PDF lunghi e densi, slide fittizie con “prove” di un complotto globale. “Prismag” parla di una “simulazione della conoscenza”, dove la forma sostituisce la sostanza. È pseudoscienza mimetica, non metodo. Ma non si tratta solo di errori cognitivi. La “Harvard Gazette” e “Wired” descrivono il profilo emotivo di molti aderenti: individui segnati da isolamento, rabbia, traumi. In quel contesto, QAnon diventa rifugio e vendetta. Jesselyn Cook osserva che per molti seguaci il movimento è “una via per trovare significato e scopo, anche se basato su narrazioni che sfiorano l’assurdo”. Un mondo dove i vaccini sono microchip, i tunnel sotto Central Park nascondono bambini schiavizzati e il Papa è un clone rettiliano.
Il giornalista Daniel Immerwahr definisce il capitalismo dell’attenzione come “un casinò cognitivo”. QAnon ne è il jackpot peggiore: contenuti estremi, fantasie oscure, una comunità che scambia paura per verità. Il sospetto non è più strumento di difesa, ma carburante per la polarizzazione delirante. La disintermediazione mediatica ha fatto il resto. Il “New York Times” documenta la sostituzione di fonti giornalistiche con “voci alternative” – influencer, youtuber, teorici improvvisati. Il mantra “do your own research” è diventato una licenza per credere a qualunque follia: che le antenne 5G attivino virus, che i Democratici bevano sangue di bambini, che ogni film Marvel sia in codice per i seguaci del deep State. Anche l’intrattenimento ha contribuito. The X-Files, 24, V for Vendetta: milioni di spettatori sono stati educati a diffidare del governo. Ma QAnon ha superato tutto questo: ha trasformato l’immaginazione paranoica in azione politica. L’assalto a Capitol Hill, le minacce a funzionari pubblici, gli omicidi ispirati da “Q” sono la dimostrazione che la paranoia digitale non si ferma allo schermo.
QAnon non è solo risposta a una crisi epistemica: è una proposta pericolosa, una “chiesa dell’assurdo” digitale in cui chiunque può diventare profeta, purché dica qualcosa di abbastanza folle da essere condiviso. È l’ideologia perfetta per un’epoca in cui credere è più facile che capire, e in cui il sospetto non è più precauzione ma profezia.
Nina Celli, 2 agosto 2025