Nr. 376
Pubblicato il 01/08/2025

Reato di femminicidio

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Il 23 luglio 2025, con 161 voti favorevoli su 161 presenti, il Senato della Repubblica ha approvato in prima lettura il disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio nel Codice penale italiano. Una decisione storica, che ha trovato consenso trasversale da parte di tutte le forze politiche, dalla maggioranza di governo all’opposizione. Il testo, ora all’esame della Camera, istituisce l’articolo 577-bis: chiunque uccida una donna “per motivi legati all’odio di genere, al controllo, alla discriminazione, al dominio” sarà punito con l’ergastolo. Ma dietro l’unità parlamentare e la solennità del momento si cela un dibattito intenso, che coinvolge giuristi, penalisti, femministe, attivisti, magistrati, educatori. È davvero questa legge la risposta giusta a un fenomeno sistemico e brutale come il femminicidio? Oppure è solo una scorciatoia simbolica, che sposta la giustizia dalla prevenzione alla punizione?


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - L’introduzione del reato di femminicidio ha anche un valore simbolico e culturale

Per la prima volta l’ordinamento penale riconosce che l’omicidio di una donna per motivi legati al genere non è un semplice fatto privato, ma un atto di dominio politico.

02 - Il reato di femminicidio è un’operazione retorica

Il reato è un'operazione puramente simbolica. Appare come un’illusione normativa, incapace di produrre effetti concreti sul piano culturale o della giustizia.

03 - Il reato di femminicidio ha un’efficacia deterrente e giuridica

La nuova formulazione del reato amplia l’ambito di rilevanza penale e consente ai giudici di qualificare con maggiore precisione e coerenza il movente sessuato.

04 - L’efficacia deterrente e giuridica del reato di femminicidio è discutibile

La legge è contestata sul piano giuridico, perché non aggiunge strumenti utili all’ordinamento e rischia di creare incoerenze e contraddizioni costituzionali.

05 - Il reato di femminicidio è coerente con la Costituzione

Il reato di femminicidio è coerente con i principi costituzionali di tutela della dignità e dell’eguaglianza, perché colma una lacuna strutturale del sistema penale.

06 - Il reato di femminicidio viola il principio di universalità e costituzionalità

Il reato di femminicidio viola l’articolo 3 della Costituzione, che sancisce l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini davanti alla legge.

07 - Il reato di femminicidio è uno stimolo a politiche di prevenzione ed educazione

Il reato di femminicidio è una leva per attivare un processo culturale più ampio, che coinvolge la scuola, le istituzioni, il lavoro, le famiglie.

08 - Quella sul femminicidio è una legge repressiva che elude le politiche di prevenzione ed educazione

La legge sul femminicidio non promuove politiche di prevenzione ed educazione. Si configura come scorciatoia repressiva che elude investimenti strutturali.

09 - Il reato di femminicidio rafforza il sistema penale nella tutela delle vittime

Il reato di femminicidio rafforza il sistema penale, colma lacune interpretative, garantisce uniformità giurisprudenziale e dà centralità alle vittime.

10 - Il reato di femminicidio alimenta derive punitive

Il reato di femminicidio è una torsione pericolosa del diritto penale verso posizioni vendicative e populiste, che mettono a rischio la costituzionalità del processo.

 
01

L’introduzione del reato di femminicidio ha anche un valore simbolico e culturale

FAVOREVOLE

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio segna un momento epocale per la cultura giuridica italiana. Per la prima volta, l’ordinamento penale riconosce esplicitamente che l’omicidio di una donna per motivi legati al genere non è un semplice fatto privato, ma un atto di dominio strutturale e politico. È, in sintesi, un delitto sessuato. Questo passo, come sostengono le riflessioni raccolte da “Vanity Fair”, “Corriere della Sera” e “SwissInfo”, risponde alla necessità di dare un nome a una specifica forma di violenza e di sottrarla alla consueta invisibilità normativa. Il reato assume dunque un’importanza simbolica paragonabile a quella che ebbe, decenni fa, il trasferimento dello stupro dal reato contro la morale a quello contro la persona. Tamar Pitch, seppur critica, riconosce che la diffusione del termine “femminicidio” ha contribuito enormemente a modificare il senso comune, rendendo visibile ciò che era tollerato come “normale” nella cultura patriarcale.
Questo riconoscimento ha effetti non solo giuridici ma culturali, educativi e identitari. Fabrizia Giuliani, intervistata su “AlleyOop”, rivendica la necessità di colmare un vuoto semantico e legale. Il reato non solo nomina un fenomeno, ma ne trasmette la gravità all’intero corpo sociale: una donna che dice “no” a una relazione non può morire per questo, e lo Stato deve farsi carico di questa violenza sistemica.
La stessa unità parlamentare, raccontata da Unimpresa e “Nomos”, testimonia il valore sociale del provvedimento: 161 voti favorevoli su 161 presenti, un applauso unanime e la consapevolezza condivisa che il Paese intero riconosce finalmente la radice politica della violenza di genere.
Anche dove ci sono perplessità (come in “Me-Ti” o “Famiglia Cristiana”), vi è comunque un riconoscimento che la legge ha in sé un potere “performativo”, quello di rendere visibile l’invisibile, dare centralità a un fenomeno strutturale e sostenere una narrazione della giustizia come leva di cambiamento culturale. In effetti, come ricorda Viola Carofalo, è solo assumendo questa visione sistemica della violenza che si potrà costruire una cultura diversa.
L’impatto simbolico riguarda anche la memoria e la dignità delle vittime. Nei servizi di “BolognaToday” e “Altalex”, il reato diventa strumento di narrazione: morire “perché donna” non è solo una tragedia individuale, ma una questione pubblica. Una legge che afferma questo principio, anche se simbolica, segna un punto di non ritorno per il riconoscimento della libertà femminile come bene giuridico e sociale.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
02

Il reato di femminicidio è un’operazione retorica

CONTRARIO

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio, lungi dal rappresentare una svolta culturale, rischia di trasformarsi in un’operazione retorica, inefficace e strumentale. È questa la critica che emerge da numerose voci giuridiche, accademiche e femministe, come evidenziato negli articoli di “Il Dubbio”, “Volere la Luna”, “Famiglia Cristiana” e “Progetto Me-Ti”. Secondo queste fonti, il reato appare come un’illusione normativa, incapace di produrre effetti concreti sul piano culturale o della giustizia.
Tamar Pitch chiarisce che la legge opera solo a livello simbolico e postumo, offrendo una risposta punitiva a un fatto già compiuto, mentre il cambiamento culturale richiede ben altro: educazione, prevenzione, redistribuzione di potere. Il diritto penale – dice Pitch – semplifica, isola, polarizza, trasformando la complessità dei contesti sociali in uno scontro binario tra vittima e carnefice. E questo è l’opposto di una trasformazione culturale profonda.
Anche l’editoriale pubblicato su “Il Dubbio” smonta il “valore pedagogico” della legge. L’articolo elenca cinque motivi per cui la legge sul femminicidio fallisce nel suo intento, a partire dalla constatazione che la pena dell’ergastolo era già applicabile ai femminicidi con le aggravanti esistenti. L’aggiunta di un reato specifico, quindi, non cambia la realtà giuridica, ma solo l’estetica legislativa. Maria Luisa Boccia, citata nell’editoriale, definisce questa deriva come “panpenalismo”: la tentazione di risolvere questioni strutturali attraverso l’inasprimento delle pene. Una tendenza che, lungi dal cambiare la cultura patriarcale, finisce col rafforzare lo stato punitivo e la logica emergenziale, allontanando soluzioni sistemiche. La legge – sostiene Boccia – governa con la paura, non con la trasformazione.
Critiche simili emergono anche da ambiti femministi più radicali. L’articolo di “Me-Ti” accusa la destra di aver “cooptato” il linguaggio del femminismo per legittimare politiche securitarie. Il reato di femminicidio diventa, in questa prospettiva, una “vetrina di potere”, dietro cui si cela l’assenza di impegni concreti per l’autonomia economica e sociale delle donne. La stessa ministra Roccella, si ricorda in più fonti, non ha previsto alcun finanziamento strutturale per i centri antiviolenza o per l’educazione scolastica.
C’è infine un elemento linguistico e inclusivo da non trascurare: molte voci critiche, tra cui “Il Dubbio” e “Volere la Luna”, evidenziano che il reato parla solo di “donne”, escludendo le soggettività trans e non binarie. In questo modo, la legge rafforza una visione biologica ed essenzialista della violenza di genere, tradendo proprio l’istanza di inclusività culturale che pretende di rappresentare.
Per molti giuristi ed esperti, dunque, il reato di femminicidio non produce cultura, ma consenso politico. La sua funzione è rassicurare, non cambiare. Una legge che si ferma al simbolo, senza prevedere politiche sostanziali di prevenzione e emancipazione. Per questo rischia di diventare un monumento all’impotenza dello Stato, più che uno strumento di giustizia.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
03

Il reato di femminicidio ha un’efficacia deterrente e giuridica

FAVOREVOLE

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio nell’ordinamento penale italiano rappresenta un avanzamento concreto sul piano giuridico e deterrente, non solo simbolico. È quanto sostengono diverse testate, come “Altalex”, “Il Corriere della Sera”, “La Voce del Patriota” e “Bergamo News”, evidenziando come la nuova norma non si limiti a ribadire l’esistente, ma introduca elementi di innovazione giuridica rilevanti. Il nuovo articolo 577-bis del Codice Penale fornisce una definizione esplicita del movente di genere, riconoscendo come circostanze aggravanti l’odio, la prevaricazione, il controllo, il rifiuto di intraprendere o proseguire una relazione affettiva. Questa formulazione amplia l’ambito di rilevanza penale e consente ai giudici di qualificare con maggiore precisione e coerenza il movente sessuato, evitando l’eccessiva dipendenza da interpretazioni estensive dell’art. 575. Come riportato su “Altalex” e “Il Corriere della Sera”, la norma integra aggravanti anche per altri reati – tra cui stalking, maltrattamenti, lesioni e violenza sessuale – definendo un sistema più coerente e coordinato per la tutela penale contro la violenza di genere. Non si tratta solo di “aggiungere una voce al codice”, ma di costruire una cornice normativa completa, che offra maggiore protezione alle vittime e strumenti più chiari agli operatori del diritto.
L’efficacia deterrente, secondo i sostenitori, risiede nell’identificazione esplicita del reato e nella chiarezza sanzionatoria: il carcere a vita è previsto come pena base, segnalando senza ambiguità la gravità assoluta di questi delitti. Alcune fonti, come “Vanity Fair” e Unimpresa, sottolineano che la norma non agisce solo a posteriori, ma funge da messaggio chiaro a tutta la società, indicando che la libertà femminile è un bene giuridico primario e che la violazione di tale bene sarà perseguita con il massimo rigore.
Inoltre, il reato di femminicidio consolida la centralità della formazione giuridica e istituzionale. Il ddl prevede corsi obbligatori per magistrati, operatori di polizia, personale sanitario e sociale, finalizzati a garantire che l’applicazione della legge sia omogenea e sensibile alle dinamiche specifiche del genere. Come osserva “Spazio50”, questo tipo di formazione rafforza la prevenzione indiretta, aumentando le capacità di intervento tempestivo ed evitando sottovalutazioni giudiziarie. La legge fa giurisprudenza anche laddove fissa nuovi standard culturali e giuridici. Proprio come avvenuto con la Legge sul Codice Rosso, che – pur criticata – ha innalzato l’attenzione su denunce e ammonimenti, la nuova norma potrà favorire una maggiore severità giudiziaria e minor ambiguità interpretativa.
È importante considerare anche il valore dell’unanimità parlamentare come strumento di rafforzamento della norma. Una legge condivisa da tutte le forze politiche, come riportano “Nomos” e “SwissInfo”, ha maggiori possibilità di resistere nel tempo e radicarsi nella pratica giudiziaria. È anche per questo che molti giuristi ne sostengono l’efficacia: perché è una legge di sistema, non di propaganda.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
04

L’efficacia deterrente e giuridica del reato di femminicidio è discutibile

CONTRARIO

L’adozione di un reato autonomo di femminicidio viene ampiamente contestata, non solo sul piano simbolico, ma anche per l’inefficacia giuridica e la discutibile funzione deterrente. Secondo numerosi giuristi, sociologhe e penaliste – tra cui le firme di “Il Dubbio”, “Volere la Luna”, “Famiglia Cristiana”, “Il Post” e “Noi Nazione” – la legge non solo non aggiunge strumenti utili all’ordinamento, ma rischia di creare incoerenze e contraddizioni costituzionali.
Sul piano strettamente giuridico, la nuova norma è considerata ridondante. Come chiariscono “Il Post” e “Il Dubbio”, l’omicidio volontario è già punibile con l’ergastolo quando aggravato da motivi abietti, crudeltà o legami familiari. La nuova formulazione non innova la sanzione, ma la duplica, introducendo un reato “fotocopia” che si sovrappone all’articolo 575. Non solo: il nuovo 577-bis rischia di generare confusione interpretativa, come lamentano le 80 penaliste firmatarie di un appello pubblicato su “Studi sulla Questione Criminale”, poiché definisce il movente in termini vaghi e soggettivi (“controllo”, “dominio”, “prevaricazione”). Anche la deterrenza penale è messa radicalmente in discussione. Come scrive Aurora Matteucci su “Il Dubbio”, nessuno studio serio dimostra che l’aumento delle pene riduca la frequenza dei reati, soprattutto nei casi di omicidio connessi a dinamiche di gelosia, crisi psichiche o intenzioni suicidarie. Molti femminicidi si concludono infatti con il suicidio dell’autore, rendendo ininfluente qualsiasi minaccia punitiva. È per questo che gli oppositori parlano di “illogicità preventiva”: una legge che agisce post mortem non può prevenire ciò che è già accaduto.
Un altro punto critico riguarda la gestione processuale e le garanzie costituzionali. L’articolo analizzato su “Noi Nazione” evidenzia come il nuovo reato introduca un trattamento penalmente differenziato in base al genere della vittima, contravvenendo al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Il rischio è quello di aprire un precedente per cui lo Stato valorizza la vita in base all’identità sessuale, anziché adottare un criterio universale e inclusivo.
La deterrenza, inoltre, è compromessa da un modello repressivo che si fonda su logiche emergenziali, senza accompagnamento strutturale. Come ricordano “Volere la Luna” e “Il Dubbio”, l’assenza di fondi per prevenzione, educazione e reinserimento svuota la norma di ogni efficacia reale. È un reato “a costo zero”, utile per la propaganda ma privo di strumenti per cambiare i contesti sociali in cui la violenza nasce. La legge rischia di soppiantare, anziché rafforzare, le politiche integrate di contrasto.
Le critiche si allargano alla strumentalizzazione politica. Come osservano “Me-Ti” e “Il Dubbio”, l’unanimità parlamentare non è segno di forza, ma di conformismo securitario, che attraversa destra e sinistra in nome di un populismo penale sempre più diffuso. Questa bulimia legislativa – oltre 50 reati nuovi nella legislatura in corso – produce norme iper-repressive, spesso inapplicabili o inutili, che saturano il codice penale senza modificare la realtà.
Per molti studiosi il reato di femminicidio è giuridicamente ridondante, culturalmente inefficace e pericoloso sul piano sistemico. Un gesto politico più che una riforma organica, destinato a creare illusioni normative piuttosto che reali strumenti di giustizia.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
05

Il reato di femminicidio è coerente con la Costituzione

FAVOREVOLE

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio è perfettamente coerente con i principi costituzionali e internazionali di tutela della dignità e dell’eguaglianza, perché mira a colmare una lacuna strutturale del sistema penale, cioè l’incapacità di riconoscere la specificità della violenza di genere come fenomeno sistemico e strutturale. Come affermato da numerosi sostenitori della legge, negli articoli di “Nomos”, “Vanity Fair”, “Corriere della Sera” e “SwissInfo”, la nuova norma non introduce discriminazione, ma garantisce giustizia sostanziale a chi è colpita da una forma specifica di oppressione. L’articolo 577-bis, infatti, non tutela un sesso biologico in modo esclusivo, ma protegge una condizione di vulnerabilità legata alla posizione sociale, culturale e relazionale delle donne. Come sottolinea Fabrizia Giuliani nell’intervista pubblicata da “AlleyOop”, il reato non è solo un fatto giuridico ma un obbligo derivante dal diritto internazionale, in particolare dalla Convenzione di Istanbul e dalla CEDAW, che invitano gli Stati membri a adottare misure specifiche per contrastare la violenza contro le donne.
Inoltre, la legge ha previsto correttivi per includere soggettività non cisgender. Fonti come “Nomos” e “Bergamo News” chiariscono che la formulazione finale include anche “chi si percepisce come donna”, estendendo la tutela a persone trans e non binarie che subiscono violenza di genere. Questa apertura dimostra la volontà del legislatore di rispettare la pluralità delle identità, senza irrigidirsi in una concezione biologica e riduzionista.
Dal punto di vista costituzionale, la legge non viola l’art. 3, ma ne attua il secondo comma, quello che invita lo Stato a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che impediscono il pieno sviluppo della persona. Il principio di uguaglianza non impone un’identica disciplina per situazioni diverse, ma richiede trattamenti differenziati ove vi siano disuguaglianze sostanziali. In questo caso, il legislatore riconosce che il femminicidio è il culmine di una violenza sistematica, storicamente ignorata dal Diritto penale tradizionale.
Anche la presunta “gerarchizzazione” delle vittime, criticata da alcuni, è priva di fondamento giuridico. Come spiegato su “Unimpresa” e “Spazio50”, il reato non declassa gli altri omicidi, ma crea uno spazio giuridico nuovo per riconoscere l’intenzionalità politica e sociale della violenza patriarcale. È lo stesso principio che giustifica l’esistenza di aggravanti per crimini d’odio, terrorismo o mafia: ciò che cambia non è il valore della vita, ma la gravità sistemica del reato.
In definitiva, la coerenza costituzionale del reato risiede proprio nel suo obiettivo di giustizia sostanziale. La legge colma un vuoto normativo, risponde a obblighi internazionali, amplia l’inclusività e riconosce una vulnerabilità specifica. Non discrimina: al contrario, rende finalmente visibile una forma di oppressione troppo a lungo normalizzata.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
06

Il reato di femminicidio viola il principio di universalità e costituzionalità

CONTRARIO

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio, per quanto animata da buone intenzioni, viola principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano, in particolare l’articolo 3, che sancisce l’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini davanti alla legge. Questa è la tesi sostenuta da giuristi, accademici ed esperti di Diritto, come emerso nelle analisi pubblicate da “Il Dubbio”, “Noi Nazione”, “Volere la Luna” e “Famiglia Cristiana”. La legge, infatti, stabilisce una distinzione penalistica basata sull’identità di genere della vittima, riservando un trattamento speciale solo a una determinata categoria: le donne. Questo approccio stravolge l’universalità del diritto penale, fondato sulla neutralità del soggetto passivo del reato, e rischia di innescare una logica selettiva per cui la vita di alcune persone – in questo caso donne biologiche – viene implicitamente considerata più degna di tutela rispetto ad altre. Il professor Michele Miccoli, in un intervento su “Noi Nazione”, sottolinea che la Costituzione non autorizza distinzioni protettive tra cittadini in base al sesso, e che legiferare in questa direzione intacca la parità di fronte alla legge, trasformando un principio egualitario in una forma di protezione speciale che esclude soggettività altre (come uomini vittime di femmine violente, persone non binarie, uomini trans ecc.).
Un’altra voce autorevole, quella di Tamar Pitch su “Volere la Luna”, mette in luce come la nuova norma, nella sua forma attuale, non includa esplicitamente soggettività non cisgender, limitandosi a parlare di “donne”, senza definire né identità di genere né criteri di autodeterminazione. La pretesa inclusività resta ambigua e potenzialmente discriminatoria.
La questione è aggravata dal rischio di codificare un diritto penale d’eccezione, come denunciato da “Il Dubbio”. Il nuovo reato opera una “gerarchizzazione della vittima” non solo nella sanzione, ma nella sua costruzione simbolica: uccidere una donna per motivi di dominio o controllo è punito in modo differente rispetto all’uccisione di un uomo, di una persona trans, o di una non conforme al binarismo di genere. Questo configura una “privatizzazione” del Diritto penale, in cui la qualità della vittima determina l’entità della pena, in contrasto con la visione universalistica dell’ordinamento liberale. Dal punto di vista giurisprudenziale, molti temono che l’articolo 577-bis si riveli incostituzionale. Come ricordato in “Il Post” e nei documenti sottoscritti da oltre 80 penaliste, la vaghezza del testo – che parla di “odio”, “dominio”, “prevaricazione” – apre la strada a un’interpretazione soggettiva e arbitraria da parte dei giudici, violando il principio di determinatezza della norma penale (art. 25 della Costituzione).
La legge mina un altro pilastro costituzionale: il principio della responsabilità penale individuale, fondato su fatti e intenzioni concrete, non su condizioni sociali generalizzate. Codificare un reato sulla base di un’identità relazionale – la donna vittima – rischia di confondere la funzione della legge penale con quella sociale o pedagogica, sovraccaricando l’ordinamento di aspettative simboliche che non gli competono.
Secondo le critiche più strutturate, dunque, il reato di femminicidio viola l’uguaglianza, è escludente, giuridicamente debole e ideologicamente divisivo. Una legge “per una parte”, e non “per tutti”, non può dirsi coerente con la Costituzione italiana.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
07

Il reato di femminicidio è uno stimolo a politiche di prevenzione ed educazione

FAVOREVOLE

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio non è solo una norma penale: è una leva per attivare un processo culturale più ampio, che coinvolge la scuola, le istituzioni, il lavoro, le famiglie. È questa la visione condivisa da testate come “Unimpresa”, “Spazio50”, “Nomos” e “Bergamo News”, che vedono nella legge una spinta fondamentale per mobilitare risorse e attenzione sulla prevenzione della violenza di genere. La legge stessa prevede misure accessorie che vanno oltre la punizione del colpevole. Il testo include stanziamenti per la formazione obbligatoria dei magistrati, delle forze dell’ordine, degli operatori sociali e per la riformulazione dei protocolli nei casi di denuncia. L’obiettivo è creare una “catena di intervento” più efficace, competente e sensibile al genere, in grado di prevenire escalation di violenza prima che sfocino in omicidi.
Inoltre, come sottolineano “Bergamo News” e “Vanity Fair”, la norma prevede fondi strutturali per gli orfani di femminicidio, con accesso diretto a centri antiviolenza e supporto economico. Questi strumenti non sono solo risarcitori, ma parte di una strategia integrata per spezzare il ciclo della violenza e accompagnare le vittime sopravvissute (inclusi i figli) in percorsi di autonomia e sicurezza.
La cultura, tuttavia, non si cambia solo con i codici. Per questo, diversi sostenitori della norma – come evidenziato su “Spazio50” – auspicano che la legge sia il primo passo verso una riforma educativa più ampia, a partire dalle scuole. La legge ha già alimentato un dibattito nazionale sull’introduzione dell’educazione affettiva e alla parità di genere nei programmi scolastici, rilanciato anche dalla premier Meloni e da esponenti dell’opposizione come Schlein. Questo dibattito, secondo gli autori favorevoli, è un risultato politico diretto dell’approvazione del reato. Il valore normativo della legge sta proprio nella sua capacità di generare dibattito e consapevolezza. Come ricordano “Unimpresa” e “Nomos”, quando una norma entra nel Codice penale, assume anche un valore pedagogico: segnala a tutta la società quali comportamenti sono inaccettabili e perché. In questo senso, il reato di femminicidio educa per osmosi, non solo per repressione. La norma diventa parte del discorso pubblico, delle linee guida scolastiche, delle politiche aziendali sul rispetto e la parità. Inoltre, il fatto che la legge sia stata approvata all’unanimità consente di superare divisioni ideologiche e costruire un consenso trasversale sul contrasto alla violenza, creando uno spazio politico favorevole alla promozione di progetti educativi, campagne sociali, iniziative di sensibilizzazione.
Come sostiene “Mariagrazia Lupo Albore” su “Unimpresa”, la legge sul femminicidio è solo il primo mattone di una “nuova architettura della cittadinanza”, fondata sul rispetto della libertà femminile. Da qui si può e si deve partire per trasformare la società dall’interno, rafforzando la cultura della responsabilità affettiva, del consenso e della non violenza.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
08

Quella sul femminicidio è una legge repressiva che elude le politiche di prevenzione ed educazione

CONTRARIO

La legge che introduce il reato autonomo di femminicidio, nella sua attuale formulazione, non rappresenta affatto un punto di partenza per politiche di prevenzione ed educazione, ma, al contrario, si configura come una scorciatoia repressiva che elude sistematicamente ogni investimento strutturale. È questa l’argomentazione sostenuta con coerenza da fonti come “Volere la Luna”, “Il Dubbio”, “Me-Ti”, “Famiglia Cristiana” e “Pressenza”. In primo luogo, la norma nasce senza una previsione finanziaria significativa, come denuncia Tamar Pitch nel suo lungo editoriale. Tutti gli strumenti di prevenzione – dalle campagne di educazione affettiva alle risorse per i centri antiviolenza – sono assenti dal testo o relegati a dichiarazioni generiche. La legge si limita a introdurre un nuovo articolo nel Codice penale e a rafforzare l’apparato repressivo, senza destinare fondi alle politiche pubbliche che servono realmente a prevenire la violenza. Questa assenza di investimenti è stata denunciata anche da D.i.Re – la rete nazionale dei centri antiviolenza – e da Save the Children, citati su “Vanity Fair” e “Il Corriere della Sera”. Le organizzazioni accusano il legislatore di aver escluso le realtà del territorio dal processo decisionale e di aver ignorato i bisogni concreti delle vittime. Il risultato è una legge che tutela “solo sulla carta”, mentre le strutture di sostegno continuano a essere sottofinanziate.
Un altro punto critico è l’assenza di un disegno educativo sistemico. Come affermato da Aurora Matteucci su “Il Dubbio”, non esiste alcun progetto scolastico vincolante legato alla legge, né una revisione dei curricoli didattici che affronti in modo serio i temi dell’affettività, del consenso, della parità. Si parla spesso di “educazione sentimentale”, ma – nei fatti – la norma ignora completamente la dimensione preventiva della violenza, concentrandosi esclusivamente sul momento punitivo. Lo stesso vale per il sistema giudiziario e per le forze dell’ordine. Se è vero, come riportato da alcune fonti favorevoli, che sono previsti percorsi formativi, è altrettanto vero – come denuncia “Famiglia Cristiana” – che tali percorsi non sono accompagnati da risorse o da un piano nazionale operativo. La formazione obbligatoria, senza personale, fondi e strumenti, resta un annuncio.
Come osservano “Volere la Luna” e “Me-Ti”, la legge rappresenta un modello di governance penale neoliberale, che sposta il focus dall’empowerment femminile alla protezione vittimistica. Le donne sono descritte come “soggetti vulnerabili” da difendere con il carcere, non come cittadine da emancipare attraverso l’indipendenza economica, l’accesso alla casa, i servizi per l’infanzia. Come scrive Pitch, la legge respinge le donne nel ruolo di eterne vittime, rinforzando una cultura della dipendenza e della protezione, non della liberazione. Anche “Pressenza” pone l’accento sulla scollatura tra retorica e realtà: l’elenco dei casi di femminicidio e violenza citati nel loro reportage mostra che la violenza nasce da contesti complessi, che richiederebbero servizi sociali, supporto psicologico, case rifugio, centri per uomini maltrattanti. Ma la legge sul femminicidio non prevede nulla di tutto ciò.
Se la prevenzione fosse stata l’obiettivo, il Parlamento avrebbe approvato una legge educativa, partecipativa, finanziata. Invece ha scelto la via più semplice, spettacolare e repressiva, rinunciando al compito più difficile: trasformare la società. La legge, dunque, non stimola la prevenzione: la sostituisce con la vendetta di Stato.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
09

Il reato di femminicidio rafforza il sistema penale nella tutela delle vittime

FAVOREVOLE

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio rappresenta un rafforzamento coerente e necessario del sistema penale italiano, finalizzato a colmare lacune interpretative, a garantire maggiore uniformità giurisprudenziale e a rafforzare la centralità delle vittime nel processo. È questa la visione sostenuta da fonti come “Altalex”, “Corriere della Sera”, “Bergamo News”, “Nomos” e “SwissInfo”, che sottolineano come la norma risponda a un bisogno strutturale di chiarezza e specificità del diritto penale in materia di violenza di genere.
Uno dei problemi principali, prima dell’introduzione dell’articolo 577-bis, era infatti l’incertezza interpretativa delle aggravanti già previste dal Codice penale. In assenza di una definizione autonoma del reato, i giudici dovevano ricorrere a combinazioni di aggravanti (vincolo familiare, futili motivi, crudeltà), con risultati spesso eterogenei, se non contraddittori. Il nuovo articolo offre invece una cornice normativa chiara, che delimita il perimetro della violenza fondata su dominio e genere, consentendo al giudice di qualificare con coerenza l’omicidio della donna come atto discriminatorio. Questa coerenza rafforza la funzione pedagogica del diritto penale, evitando che l’omicidio di una donna venga interpretato – ancora oggi – come “dramma passionale” o “tragedia familiare”. Il Diritto, finalmente, riconosce la struttura patriarcale della violenza e la sanziona con strumenti giuridici appropriati. L’aggiunta di aggravanti specifiche per reati già previsti nel Codice Rosso (stalking, lesioni, violenza sessuale) permette inoltre una lettura sistemica del fenomeno, rafforzando la prevenzione secondaria e la reazione giudiziaria precoce.
Un altro elemento rilevante è la centralità data alla vittima nel processo, coerente con i più recenti orientamenti della giurisprudenza europea. La legge prevede il coinvolgimento della parte offesa nel procedimento, valorizzando la sua voce anche in fase di patteggiamento o riduzione di pena. Come riportato in “Spazio50”, questa scelta risponde all’esigenza di superare la concezione puramente statalista della giustizia penale, avvicinandosi a un modello di “giustizia riparativa” che tiene conto della soggettività e del vissuto delle vittime. Inoltre, il ddl rafforza anche il sistema delle misure cautelari e preventive: è previsto il rafforzamento delle norme sulle intercettazioni, la possibilità di applicare il braccialetto elettronico, e l’obbligo per le procure di istruire fascicoli prioritari per i reati di genere. Queste modifiche sono strumenti concreti di protezione, che migliorano l’efficacia del sistema processuale e possono impedire il passaggio alla violenza irreversibile.
Va inoltre considerato un aspetto pragmatico: la legge sul femminicidio uniforma l’Italia agli standard internazionali, in particolare al modello già adottato in vari Paesi dell’America Latina (Cile, Messico, Argentina). Il riconoscimento del femminicidio come fattispecie autonoma consente una raccolta dati più accurata, facilita la cooperazione internazionale e rafforza il ruolo dell’Italia nei consessi multilaterali dedicati alla lotta contro la violenza di genere.
La nuova norma, dunque, non appesantisce il sistema penale, ma lo rende più efficace, coerente, giusto e accessibile alle vittime. È un passo avanti verso un diritto che riconosce la specificità della violenza e agisce con strumenti all’altezza della sua complessità.

Nina Celli, 1° agosto 2025

 
10

Il reato di femminicidio alimenta derive punitive

CONTRARIO

L’introduzione del reato autonomo di femminicidio, lungi dal rafforzare il sistema penale, rappresenta una torsione pericolosa del diritto penale verso logiche eccezionaliste, vendicative e populiste, che mettono a rischio l’equilibrio costituzionale del processo. Questa è la tesi condivisa e argomentata in profondità da fonti come “Il Dubbio”, “Volere la Luna”, “Famiglia Cristiana”, “Il Post” e “Noi Nazione”. Il primo e più grave problema è la trasformazione del diritto penale da strumento di ultima istanza a leva politica di gestione delle emozioni collettive. Come denuncia Maria Luisa Boccia su “Il Dubbio”, la norma nasce all’interno di un clima culturale e mediatico di “panpenalismo” crescente, in cui ogni emergenza sociale è affrontata attraverso l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuovi reati, spesso con scarso fondamento giuridico e scarsa efficacia. Il reato di femminicidio, così come formulato, non definisce una condotta nuova, ma attribuisce alla motivazione (odio o dominio sulla donna) una funzione tipizzante. Questa scelta stravolge l’impianto tradizionale del Diritto penale, in cui il movente orienta la pena ma non determina l’esistenza stessa del reato. La giurista Tamar Pitch evidenzia che si tratta di una costruzione “simbolica”, fondata su concetti indeterminati (“controllo”, “prevaricazione”) che violano il principio di tassatività dell’art. 25 della Costituzione. Dal punto di vista processuale, la legge apre la strada a un uso arbitrario del diritto, poiché rimette alla sensibilità interpretativa del giudice l’accertamento del movente “di genere”, spesso fondato su relazioni affettive complesse e soggettive. Questo scenario, oltre a rendere incerto l’esito processuale, mina la garanzia del giusto processo, creando spazi per disuguaglianze interpretative e pressioni pubbliche sul potere giudiziario.
Un’altra criticità è la delega eccessiva alla parte offesa, che – come evidenziato su “Il Dubbio” – acquisisce un potere di intervento anche sulla valutazione delle pene concordate (patteggiamento). Questa deriva verso una “giustizia penale privatizzata” snatura il principio per cui l’azione penale è esercitata nell’interesse pubblico, non come strumento di vendetta personale. L’emozione della vittima, seppur legittima, non può sostituire il principio di legalità e proporzionalità della pena.
Ancora più preoccupante è il rischio di deriva punitiva: l’ergastolo come pena fissa per il femminicidio, priva il giudice della possibilità di valutare la gravità del fatto e le circostanze soggettive. Questo approccio – già contestato nella sentenza Turetta – è incompatibile con l’articolo 27 della Costituzione, che impone finalità rieducative alla pena. Come osserva Pitch, l’ergastolo non ha mai avuto funzione deterrente, anzi, alimenta logiche vendicative, disumanizza il reo e contribuisce alla produzione di violenza dentro e fuori il carcere.
Infine, la proliferazione di reati “di bandiera” – come quello sul femminicidio – appesantisce il sistema penale e genera confusione normativa. Il Codice penale italiano, già saturo di aggravanti e reati sovrapposti, rischia di diventare una raccolta di eccezioni, in cui la coerenza sistemica è sacrificata sull’altare della risposta emotiva e della pressione mediatica.
La nuova norma, quindi, non rende il sistema penale più giusto o efficace, ma lo trasforma in uno strumento di consenso politico, privato della sua razionalità giuridica. È una legge che non tutela davvero le vittime, ma stravolge le garanzie, amplifica la repressione e svuota il processo della sua funzione educativa e riabilitativa.

Nina Celli, 1° agosto 2025

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