Sanzioni a Francesca Albanese: a rischio l’autonomia ONU
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il 9 luglio 2025, il Segretario di Stato statunitense Marco Rubio ha annunciato al mondo l’imposizione di sanzioni contro Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. La notizia ha avuto un effetto molto ampio: per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, un funzionario indipendente incaricato da un organo ufficiale viene colpito da misure restrittive unilaterali da parte di uno Stato membro. Le motivazioni, come spesso accade in questi casi, oscillano tra il linguaggio diplomatico e quello politico: Albanese è accusata di aver condotto una “campagna di guerra politica ed economica” contro Israele e gli Stati Uniti; di aver promosso “retoriche antisemite”; di aver collaborato con gruppi “affiliati al terrorismo”.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
L'ONU, consapevole della gravità delle sanzioni, ha deciso non solo di non revocare il mandato ad Albanese, ma di rinnovarlo per un ulteriore periodo.
La sanzione imposta dagli USA a Francesca Albanese non è un’azione repressiva nei confronti della libertà di opinione. Si inserisce in una sequenza di comportamenti che hanno violato la neutralità.
Le accuse rivolte a Francesca Albanese non si fondano su una violazione del suo mandato, ma su una reazione politica a ciò che ha documentato.
Sebbene i sostenitori difendano la legittimità delle sue indagini, voci all’interno dell'ONU e tra gli Stati membri hanno sollevato dubbi sulla sua neutralità.
La vicenda di Francesca Albanese ha assunto dimensioni globali: oltre 300.000 persone hanno firmato petizioni per proporla come candidata al Premio Nobel per la Pace.
Francesca Albanese ha generato preoccupazione. Le sue analisi, pur fondate, hanno un linguaggio che ha radicalizzato il discorso pubblico, ostacolato il dialogo multilaterale.
Le sanzioni contro Francesca Albanese sono un pericoloso attacco all’indipendenza dell’ONU
Nel luglio 2025, il Segretario di Stato USA Marco Rubio ha annunciato sanzioni senza precedenti contro Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati. La decisione ha avuto un impatto immediato: congelamento dei beni negli Stati Uniti, divieto di ingresso nel Paese, estensione delle misure anche ai familiari diretti. Non era mai accaduto che un esperto ONU indipendente, incaricato da un organo ufficiale come il Consiglio per i Diritti Umani, venisse colpito da un simile provvedimento da parte di uno Stato membro. Il gesto ha provocato una reazione dura e compatta delle istituzioni internazionali. Stéphane Dujarric, portavoce del Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha dichiarato che “l’uso di sanzioni unilaterali contro titolari di mandato è inaccettabile e stabilisce un precedente pericoloso”. Anche Jürg Lauber, presidente del Consiglio ONU per i Diritti Umani, ha espresso “rammarico” per la decisione statunitense, definendola una forma di intimidazione verso i funzionari internazionali.
La misura ha provocato reazioni simili da Amnesty International, Human Rights Watch e dal Center for International Policy, il cui presidente Nancy Okail ha affermato: “Le sanzioni contro Francesca Albanese sono devastanti. Con esse, gli Stati Uniti si comportano come un regime autoritario”. Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty ed ex relatrice ONU, ha parlato apertamente di “comportamento da stato canaglia” e ha invitato la comunità internazionale a “bloccare gli effetti delle sanzioni e a difendere l’indipendenza delle procedure speciali”.
Albanese non è una funzionaria ONU nel senso tecnico. È un’esperta indipendente, nominata per mandato e non soggetta ad approvazione politica o controllo gerarchico. Questo modello – fondamento delle cosiddette Special Procedures – è nato per garantire autonomia d’analisi e di giudizio. È per questo che relatori e relatrici ONU non ricevono stipendi né sono vincolati alle diplomazie. Colpire uno di loro con sanzioni unilaterali viola questa architettura ed espone l’intero sistema alle pressioni politiche degli Stati più influenti.
L'ONU, consapevole della gravità del gesto, ha deciso non solo di non revocare il mandato ad Albanese, ma di rinnovarlo per un ulteriore periodo. Eppure, nonostante il sostegno istituzionale e le dichiarazioni di solidarietà, la vicenda ha acceso un allarme profondo. Se una relatrice può essere colpita per le sue analisi, quale sarà il prossimo esperto a essere intimidito?
La gravità della situazione è amplificata dal fatto che le sanzioni sono arrivate subito dopo la pubblicazione del rapporto From economy of occupation to economy of genocide, in cui Albanese identificava 60 aziende internazionali – incluse Palantir, Lockheed Martin, BNP Paribas e Volvo – come complici nell’economia di guerra e nell’occupazione israeliana. Il contenuto del rapporto, pubblicato ufficialmente dal sito dell’OHCHR, rappresenta il compimento di due anni di lavoro investigativo. È stato redatto con linguaggio giuridico, supportato da fonti, numeri e riferimenti alle convenzioni internazionali. Come ha dichiarato Albanese in un’intervista ad Al Jazeera: “Il motivo delle sanzioni è chiaro. Ho documentato un sistema di complicità economica che coinvolge anche imprese statunitensi. Per questo mi puniscono. Ma non smetterò di cercare giustizia”.
Non è un caso che la misura sia stata annunciata pubblicamente da Marco Rubio, portavoce di un’amministrazione statunitense che ha già sanzionato giudici della Corte Penale Internazionale, minacciato la sede dell’ONU e bloccato fondi all’UNRWA. In questo contesto, le sanzioni contro Albanese si inseriscono in una strategia più ampia: minare le istituzioni internazionali che osano mettere in discussione l’impunità di Israele. Il rischio è quello di normalizzare l’idea che un esperto ONU può essere punito per le sue conclusioni. Ciò apre la strada a una geopolitica del ricatto diplomatico.
La difesa dell’indipendenza dei relatori non è un fatto personale o ideologico. È un dovere collettivo. Come ha scritto Richard Falk, ex relatore ONU, in un editoriale per “Truthout”: “Francesca Albanese non merita sanzioni. Merita il Nobel. Ha documentato un genocidio, ha nominato responsabili e complici, ha chiesto giustizia. È stata punita per aver fatto esattamente ciò per cui è stata incaricata”.
Nina Celli, 16 luglio 2025
Le sanzioni a Francesca Albanese sono una reazione legittima a una lunga storia di posizioni politicizzate e accuse di parte
La sanzione imposta dagli Stati Uniti a Francesca Albanese nel luglio 2025 non può essere considerata un’azione arbitraria o esclusivamente repressiva nei confronti della libertà di opinione. Al contrario, si inserisce in una sequenza di eventi e comportamenti che, secondo l’amministrazione statunitense, hanno violato gli standard minimi di neutralità, etica e responsabilità previsti dal mandato ONU. Come ha dichiarato il Segretario di Stato Marco Rubio, la sanzione nasce dalla “campagna di guerra politica ed economica condotta da Albanese contro gli Stati Uniti e Israele”, con l’aggravante – secondo Rubio – del “sostegno pubblico al terrorismo e della retorica antisemita sistematica”.
Le accuse non sono nate nel vuoto. Già a partire dal 2022, diversi paesi democratici – tra cui Germania, Francia, Canada e Paesi Bassi – avevano espresso preoccupazione per le dichiarazioni pubbliche di Albanese. In una nota del marzo 2024, il Ministero degli Esteri tedesco ha definito “inaccettabile” la sua minimizzazione dell’attacco del 7 ottobre 2023, nel quale 1.200 civili israeliani furono massacrati da Hamas. Albanese aveva commentato l’evento come “una risposta da mettere in contesto”, evitando ogni condanna esplicita. Le sue parole sono state interpretate da molti come una forma di giustificazione indiretta del massacro, rafforzata dalla sua successiva partecipazione a un convegno patrocinato da organizzazioni considerate vicine al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP), movimento incluso nelle liste terroristiche da USA e UE.
L’organizzazione UN Watch, in un dossier dettagliato pubblicato nel luglio 2025, ha ricostruito una serie di affermazioni e partecipazioni pubbliche da parte di Albanese ritenute gravemente problematiche. Tra queste, vi è l’accusa che negli anni precedenti al suo mandato avesse attribuito la responsabilità dell’attentato a Charlie Hebdo al “Mossad e alla CIA” e avesse scritto che “il lobbismo ebraico controlla la politica americana”. Tali affermazioni – anche se precedenti al mandato – non sono mai state ritirate o chiaramente smentite da Albanese, secondo UN Watch, e rientrano nella definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), adottata da numerosi stati membri ONU.
Le sanzioni si sono rese necessarie – secondo la parte statunitense – proprio perché la riconferma di Albanese nel 2025 è avvenuta nonostante un’obiezione formale del governo USA. UN Watch e altre organizzazioni hanno segnalato che il processo di rinnovo del mandato sarebbe avvenuto in “violazione delle norme procedurali” e “senza tener conto delle obiezioni sollevate da democrazie occidentali”. La stessa nomina è stata formalmente contestata da una lettera firmata da 19 membri del Congresso USA e inviata al Segretario Generale delle Nazioni Unite.
In questo quadro, le sanzioni assumono un significato di pressione diplomatica, analogo a quanto già accaduto nei confronti di giudici della Corte Penale Internazionale accusati da Washington di “eccessiva politicizzazione”. È importante chiarire che le sanzioni non negano il diritto di Albanese ad avere opinioni, ma contestano l’uso del suo mandato per portare avanti una visione ritenuta distorta, a senso unico, ideologicamente militante e pericolosamente affine alla propaganda antisraeliana. Come ha scritto l’editorialista Channa Rifkin su “Algemeiner”, “Albanese non è stata punita per criticare Israele, ma per aver trasformato il suo mandato ONU in una tribuna militante. Nessun relatore speciale ha mai giustificato pubblicamente il terrorismo come ha fatto lei”.
La questione centrale è dunque la compatibilità tra ruolo istituzionale e comportamento pubblico. Se è vero che i relatori ONU sono indipendenti, è altrettanto vero che la loro autorevolezza dipende dalla credibilità, dall’imparzialità e dalla capacità di rappresentare tutte le parti in conflitto. Numerosi osservatori – tra cui l’ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon – hanno sottolineato che i rapporti di Albanese non contengono mai una valutazione critica delle azioni di Hamas, né riconoscono i diritti di autodifesa di Israele come previsti dalla Carta dell’ONU.
Le sanzioni vanno quindi lette come un segnale politico: la comunità internazionale non può accettare che un rappresentante ONU trasformi il suo mandato in uno strumento di radicalizzazione retorica. Difendere il diritto internazionale significa anche difendere la sua legittimità, che dipende dalla fiducia di tutte le parti. Quando questa viene meno, la diplomazia si tutela con gli strumenti che ha a disposizione, comprese le sanzioni. Non per censurare, ma per affermare che l’etica della responsabilità è parte integrante del mandato di ogni rappresentante dell’ONU.
Nina Celli, 16 luglio 2025
Francesca Albanese ha agito nel rispetto del mandato ONU, documentando crimini e chiedendo azioni coerenti con il diritto internazionale
Le accuse rivolte a Francesca Albanese non si fondano su una violazione del suo mandato, ma su una reazione politica a ciò che ha documentato. I tre rapporti da lei pubblicati nel corso del suo incarico, regolarmente approvati e pubblicati sul sito dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR), rappresentano una delle più rigorose ricostruzioni giuridiche del conflitto israelo-palestinese degli ultimi vent’anni. In essi, Albanese non si limita a enunciare opinioni: raccoglie prove, cita norme internazionali e formula ipotesi di responsabilità coerenti con lo Statuto di Roma, che disciplina i crimini di guerra e contro l’umanità.
Il suo rapporto più recente, From economy of occupation to economy of genocide, è stato pubblicato il 3 luglio 2025. In questo documento, lungo oltre 50 pagine, la relatrice identifica un sistema economico globale che, a suo dire, consente e incentiva la distruzione della popolazione palestinese a Gaza. Tra le aziende citate compaiono nomi come Palantir, Lockheed Martin, Pimco, BNP Paribas, Volvo e Vanguard. Secondo il rapporto, queste imprese forniscono sistemi militari, tecnologie di sorveglianza, logistica e investimenti che alimentano la macchina di guerra israeliana. Albanese accusa: “L'economia dell'occupazione è diventata un'economia del genocidio e le imprese che ne traggono profitto devono essere ritenute responsabili”.
L’analisi si basa su dati confermati anche da altre fonti: oltre 57.000 morti palestinesi in 21 mesi di conflitto, l’80% delle abitazioni a Gaza distrutte, interruzione sistematica di acqua, elettricità, cure mediche e aiuti alimentari. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza – citato anche da “The Guardian” e “Le Monde” – la popolazione civile costituisce la maggioranza assoluta delle vittime. Di fronte a questi numeri, la relatrice ha invocato l’applicazione del principio di responsabilità collettiva previsto dal diritto internazionale: non solo verso i singoli autori materiali dei crimini, ma anche verso chi li finanzia, li arma o li giustifica.
Albanese non ha agito da sola o in modo isolato. Le sue conclusioni sono state supportate da esperti di diritto penale internazionale, tra cui l’ex relatore ONU Richard Falk, che ha scritto: “Ha fatto ciò che la legge richiede: ha documentato crimini, identificato i responsabili e chiesto che si intervenga. Punirla per questo è una distorsione della giustizia”. La relatrice ha inoltre collaborato con ONG internazionali per raccogliere testimonianze dirette, video satellitari, prove fotografiche e tracciamenti delle forniture militari. L’ONU non ha mai contestato l’accuratezza metodologica del suo lavoro, né l’ha mai richiamata formalmente.
Le critiche che ha ricevuto da alcuni governi – in particolare USA, Israele e Canada – si concentrano più sul linguaggio politico che sui contenuti. Marco Rubio, nel giustificare le sanzioni, ha accusato Albanese di “antisemitismo” e di “fare guerra politica ed economica” agli Stati Uniti. Ma queste affermazioni non sono accompagnate da contestazioni giuridiche specifiche sui testi da lei firmati. Al contrario, il linguaggio dei rapporti è sempre tecnico, conforme alle pratiche ONU e basato su fonti documentate. Inoltre, come hanno fatto notare sia “Al Jazeera” che “The Guardian”, la relatrice non ha mai ricevuto un salario dall’ONU e ha svolto le sue funzioni in piena autonomia, come previsto dalle regole delle Special Procedures.
Se Albanese avesse ignorato le implicazioni economiche del conflitto, se avesse omesso di citare le multinazionali coinvolte, se avesse limitato le sue analisi a formule prudenti, probabilmente non sarebbe stata colpita da sanzioni, ma avrebbe anche tradito il mandato ricevuto. Il ruolo dei relatori ONU non è quello di evitare il conflitto diplomatico, ma di dire la verità – scomoda, se necessario – sui crimini commessi. E proprio per questo motivo, l’ONU l’ha riconfermata nel suo incarico, respingendo le pressioni statunitensi per una rimozione anticipata.
Come ha scritto Francesca Albanese in una dichiarazione ufficiale: “Le sanzioni vogliono intimidire chi lavora per la giustizia. Ma io continuerò a svolgere il mio mandato, perché il diritto internazionale non può essere subordinato alla paura”.
Nina Celli, 16 luglio 2025
Il lavoro di Albanese ha compromesso la percezione dell’imparzialità dell’ONU nei conflitti mediorientali
Il sistema delle Nazioni Unite si fonda su un equilibrio delicato tra indipendenza degli esperti e credibilità istituzionale. Ogni titolare di mandato, come un relatore speciale, ha il dovere di osservare e denunciare violazioni dei diritti umani, ma ha anche la responsabilità di garantire equilibrio, rigore metodologico e imparzialità percepita. È proprio su quest’ultimo aspetto che si fondano le critiche più strutturate contro Francesca Albanese. Sebbene i suoi sostenitori difendano la legittimità delle sue indagini, numerose voci all’interno delle Nazioni Unite e tra gli Stati membri hanno sollevato dubbi profondi sulla sua capacità di rappresentare il mandato con neutralità.
Fin dall’inizio del suo incarico, Albanese ha adottato una postura esplicitamente antagonista nei confronti di Israele e dei suoi alleati occidentali. I suoi rapporti si concentrano quasi esclusivamente sulle azioni dello Stato israeliano, senza mai affrontare in modo sistematico le violazioni commesse da Hamas, anche in contesti – come quello del 7 ottobre 2023 – che hanno visto l’uccisione di oltre 1.200 civili israeliani e il rapimento di 250 persone. Il suo silenzio su questi atti ha alimentato la convinzione che il suo mandato sia politicizzato. Il Dipartimento di Stato americano, nel giustificare le sanzioni, ha dichiarato: “Francesca Albanese ha portato avanti una campagna di guerra politica contro Israele e gli Stati Uniti. Non ha mostrato il minimo sforzo per agire da arbitra imparziale”.
Anche la missione permanente di Israele presso l’ONU ha contestato la legittimità della sua nomina, citando una “lunga storia di dichiarazioni antisraeliane, toni ideologici e legami ambigui con gruppi estremisti”. La contestazione non riguarda solo il merito delle accuse – che possono anche essere giustificate da dati oggettivi – ma l’assenza di una cornice di equilibrio. Un relatore ONU, per quanto indipendente, deve considerare tutti gli attori coinvolti in un conflitto, proprio per non ridurre la sua analisi a una narrazione monodirezionale.
La questione è stata sollevata anche in sede diplomatica. La Germania ha ufficialmente protestato per la minimizzazione da parte di Albanese dell’attacco del 7 ottobre, definendo “scandalose” le sue affermazioni secondo cui si trattava di una “risposta all’oppressione”. La Francia ha parlato apertamente di “un mandato ormai delegittimato da anni di retorica antisraeliana”. Il Canada, in una nota ufficiale, ha sottolineato che “il linguaggio usato da Albanese non è compatibile con quello richiesto a un funzionario ONU”.
Anche il processo di riconferma della relatrice ha suscitato critiche. Secondo UN Watch e altre organizzazioni, la proroga del suo mandato è avvenuta senza adeguata valutazione dei reclami presentati da diversi Stati. Una lettera inviata da UN Watch al Segretario Generale António Guterres denuncia come “la rielezione di Albanese sia avvenuta ignorando le contestazioni formali, in violazione delle regole di trasparenza dell’ONU”. La lettera era accompagnata da un dossier in cui si segnalavano episodi di presunta distorsione storica, come l’accusa al Mossad e alla CIA per l’attacco a Charlie Hebdo e la dichiarazione – mai smentita – secondo cui “il lobbismo ebraico controlla la politica USA”.
Oltre alle critiche ufficiali, la percezione pubblica dell’ONU è stata fortemente influenzata dal lavoro di Albanese. Alcuni analisti, come Channa Rifkin su “Algemeiner”, sostengono che il suo operato abbia rafforzato l’idea – già diffusa in molte capitali occidentali – di un Consiglio ONU per i Diritti Umani “sbilanciato, ideologico e ostile a Israele”. Questo indebolisce la legittimità delle Nazioni Unite non solo nel contesto mediorientale, ma anche su scala globale, dove l’ONU ha bisogno di mantenere una posizione riconosciuta da tutte le parti in causa.
Non va sottovalutato l’effetto di polarizzazione che il suo stile comunicativo ha generato. La retorica utilizzata – che include termini come “genocidio in atto”, “complicità globale”, “regime coloniale genocidario” – ha spostato la narrazione dall’analisi giuridica alla mobilitazione politica. Sebbene le accuse siano gravi e potenzialmente fondate, la forma con cui sono state espresse ha compromesso la possibilità di avviare un dialogo diplomatico efficace. Quando un relatore ONU viene percepito come un attivista politico, la sua capacità di influenzare i processi decisionali si riduce drasticamente.
Pertanto, le critiche a Francesca Albanese non si concentrano solo sul contenuto delle sue denunce, ma sulla loro gestione. Un relatore ONU deve rappresentare una bussola etica e giuridica condivisa. Quando la bussola si trasforma in arma retorica, si rischia di danneggiare proprio ciò che si intende difendere: l’autorità morale del sistema delle Nazioni Unite.
Nina Celli, 16 luglio 2025
La reazione politica e sociale dimostra che Francesca Albanese ha svolto un lavoro necessario e coraggioso
La vicenda di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, ha assunto negli ultimi mesi una dimensione globale. Il suo lavoro – culminato nella pubblicazione di tre rapporti ONU, tra cui il controverso From economy of occupation to economy of genocide – ha generato reazioni polarizzate, ma anche una straordinaria mobilitazione pubblica e politica in suo sostegno. In pochi giorni, oltre 300.000 persone hanno firmato petizioni per proporla come candidata al Premio Nobel per la Pace. In Italia, intellettuali, scrittori, sindaci, ONG come ANPI e Amnesty Italia; forze parlamentari come AVS, Rifondazione Comunista e Potere al Popolo hanno firmato lettere aperte indirizzate al presidente della Repubblica e al ministro degli Esteri per garantire protezione diplomatica a una cittadina italiana colpita da sanzioni internazionali per il solo fatto di aver adempiuto al suo mandato.
L’impatto simbolico della figura di Albanese si è allargato ben oltre i confini delle Nazioni Unite. Il sindaco di Bari, Vito Leccese, ha annunciato l’intenzione di conferirle le chiavi della città, gesto che ha suscitato reazioni politiche contrastanti ma che testimonia il riconoscimento civico del suo operato. Il suo nome è stato anche proposto per una mozione del Parlamento Europeo, sostenuta da eurodeputati progressisti e da diverse delegazioni internazionali. Ex diplomatici italiani come Enrico Calamai hanno criticato apertamente il silenzio delle istituzioni italiane, affermando che "è intollerabile che una nostra connazionale venga perseguitata da uno Stato estero mentre rappresenta un mandato ONU".
Ma la solidarietà non si è fermata ai confini europei. Editoriali su “The Guardian”, “Le Monde”, “Truthout”, “The Hindu” e “Tehran Times” hanno definito Albanese “una delle voci più autorevoli e coraggiose del sistema ONU” e hanno condannato le sanzioni USA come “una forma di ritorsione diplomatica per aver denunciato crimini documentati”. Il premio Nobel Muhammad Yunus ha dichiarato che “la voce di Francesca Albanese è necessaria in un mondo in cui la verità viene soffocata dalla potenza geopolitica”. E lo stesso ex relatore ONU Richard Falk ha scritto su “Truthout”: “Albanese non è una militante, è una giurista. E come giurista ha fatto ciò che ogni ordinamento democratico si aspetta: ha documentato i crimini, ha nominato i responsabili, ha chiesto giustizia”.
La sua resilienza personale è parte integrante della sua legittimazione morale. Durante il suo mandato, Albanese ha subito non solo critiche pubbliche, ma attacchi personali, minacce contro la sua famiglia, campagne denigratorie orchestrate da gruppi politici e think tank pro-Israele come UN Watch. Ha ricevuto accuse infamanti di antisemitismo – smentite da diverse organizzazioni e intellettuali ebraici – ed è stata oggetto di un dossier diffuso da fonti governative israeliane, privo di prove giuridiche ma carico di insinuazioni, che ha alimentato una campagna diffamatoria globale.
Nonostante ciò, Albanese ha continuato il proprio lavoro senza rinunciare alla chiarezza. Ha rifiutato di edulcorare i termini, chiamando la situazione a Gaza con il suo nome: “genocidio”. Ha descritto come “economia della distruzione” il sistema di interessi che sostiene l’occupazione israeliana, ha nominato le aziende coinvolte, ha sfidato apertamente l’inerzia diplomatica. Come si legge su “Al Jazeera”: “Sono una giurista e parlo come tale. Le prove sono schiaccianti. Chi mi accusa non contesta il merito delle mie analisi, ma vuole solo zittirmi”.
Questa determinazione ha trasformato Albanese in un simbolo. In un’epoca in cui le istituzioni internazionali sono spesso accusate di impotenza o compromissione, il suo esempio ha mostrato che è ancora possibile parlare il linguaggio del diritto, della giustizia, della verità. La mobilitazione popolare a suo favore, la fiducia dell’ONU nella sua rielezione, il consenso di giuristi, accademici e società civile, dimostrano che il suo lavoro non è stato marginale, ma centrale nel riaffermare il ruolo dell’etica e del diritto internazionale. Non è Francesca Albanese ad aver superato i limiti del suo mandato: è il sistema politico globale che ha superato quelli della tolleranza verso le voci scomode. E proprio per questo, la sua figura assume oggi un valore che va ben oltre il singolo caso: è il simbolo della necessità di proteggere chi difende la verità, anche quando questa è insopportabile per i potenti.
Nina Celli, 16 luglio 2025
Le posizioni estremiste di Albanese ostacolano la mediazione internazionale e favoriscono la polarizzazione
Nel conflitto israelo-palestinese, il ruolo delle Nazioni Unite dovrebbe essere quello di creare ponti, facilitare la diplomazia, proporre soluzioni giuridiche e umanitarie capaci di garantire giustizia senza alimentare ulteriormente le tensioni. È in questo quadro che la figura di Francesca Albanese ha generato preoccupazione crescente. Le sue analisi, pur fondate su dati gravi e spesso condivisi da molte organizzazioni per i diritti umani, sono state accompagnate da un linguaggio e da posizioni che hanno radicalizzato il discorso pubblico, ostacolato il dialogo multilaterale e reso più difficile l’intervento di attori terzi nel processo di mediazione.
Le critiche rivolte ad Albanese non sono arrivate soltanto dagli ambienti filoisraeliani, ma anche da numerosi osservatori diplomatici e istituzioni. Il suo stile – definito “militante” da analisti come Channa Rifkin su “Algemeiner” – ha trasformato il suo ruolo da osservatore tecnico a simbolo di una corrente ideologica. Le sue affermazioni pubbliche, in cui definisce Israele uno “Stato genocidario”, Gaza “un campo di concentramento” e le sue azioni “un crimine peggiore dell’apartheid sudafricano”, vanno ben oltre i toni comunemente usati nei documenti ONU. Questo tipo di retorica, pur facendo eco a certe analisi accademiche, è interpretata da molte cancellerie occidentali come una forma di delegittimazione preventiva di uno degli attori del conflitto, con la conseguente perdita di efficacia diplomatica.
La polarizzazione prodotta da questa impostazione si è tradotta anche in un aumento di rifiuti da parte delle istituzioni israeliane alla cooperazione con le Nazioni Unite. L’ambasciatore israeliano presso l’ONU, Danny Danon, ha dichiarato che “le parole di Albanese danneggiano irreparabilmente l’immagine dell’ONU come mediatore imparziale” e che “in un clima così velenoso, ogni possibilità di collaborazione multilaterale diventa inutile”. Anche la portavoce del Dipartimento di Stato USA ha definito Albanese “un ostacolo al dialogo”, ricordando che “il suo comportamento ha reso impossibile una cooperazione costruttiva tra Washington e il Consiglio per i Diritti Umani”.
La questione non è solo terminologica, ma strategica. Nel momento in cui una relatrice ONU usa la propria visibilità per rilanciare teorie di boicottaggio totale, sanzioni unilaterali e “isolamento economico” verso Israele, senza mai inserire nel quadro le responsabilità di Hamas, si rende non solo vulnerabile all’accusa di parzialità, ma riduce l’agibilità diplomatica dell’istituzione stessa. Questo è evidente anche nei commenti di Richard Goldberg, analista del Foundation for Defense of Democracies, secondo cui “Albanese ha dismesso la toga del giurista per indossare l’uniforme dell’attivista. Le sue proposte non sono giuridicamente sostenibili ma politicamente infiammatorie”.
L’aspetto più problematico, tuttavia, è l’effetto che tali prese di posizione hanno sul campo. In un contesto in cui ogni parola può essere strumentalizzata, un relatore ONU che minimizza la strage del 7 ottobre 2023 – come Albanese ha fatto definendola una “reazione da contestualizzare” – fornisce un’arma narrativa a chi giustifica il terrorismo. Non a caso, come documentato da UN Watch, le sue parole sono state rilanciate da organi di propaganda vicini a Hamas e da account ufficiali iraniani come prova del “supporto dell’ONU alla resistenza armata”. Questo tipo di esposizione è incompatibile con il mandato di neutralità che dovrebbe guidare ogni titolare di incarico speciale.
Bisogna inoltre considerare l’effetto interno all’ONU. L’Alto Commissario per i Diritti Umani Volker Türk, pur difendendo l’indipendenza degli esperti, ha sottolineato in una dichiarazione del 10 luglio 2025 che “i titolari di mandato devono ricordare che le loro parole hanno peso istituzionale e devono essere calibrate in funzione del loro ruolo pubblico”. In altre parole: la libertà di analisi non esclude la responsabilità comunicativa. Se un esperto ONU diventa un attore di parte nel conflitto, ne compromette il potere persuasivo anche quando denuncia crimini effettivi.
Francesca Albanese ha sollevato questioni cruciali e ha acceso i riflettori su violazioni troppo a lungo ignorate. Tuttavia, lo ha fatto con un linguaggio e un’impostazione che hanno aggravato la polarizzazione, ridotto le possibilità di mediazione e indebolito la stessa autorità dell’ONU. La sua figura – per molti – ha superato il confine sottile che separa il dovere di denuncia dal rischio dell’attivismo politico.
Nina Celli, 16 luglio 2025