Referendum abrogativi sul lavoro 2025
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Nei giorni dell’8 e 9 giugno 2025, i cittadini sono chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari abrogativi, quattro dei quali riguardano in modo diretto il mondo del lavoro: licenziamenti, tutele nelle piccole imprese, contratti a termine e sicurezza negli appalti. Il quinto riguarda la cittadinanza, ma il cuore della mobilitazione – promossa principalmente dalla CGIL – è tutto centrato sui diritti dei lavoratori e sulle trasformazioni delle regole del lavoro negli ultimi vent’anni.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Il contratto a tutele crescenti ha prodotto un effetto che può essere riassunto in due parole: disuguaglianza strutturale.
La proposta di eliminare il contratto a tutele crescenti non rappresenta un progresso, ma un ritorno a un passato che aveva già mostrato i suoi limiti.
In Italia, un lavoratore licenziato senza giusta causa in una piccola azienda può ricevere 6 mensilità di risarcimento, anche se il licenziamento è ingiustificato, persino discriminatorio.
Per imprese con meno di 15 dipendenti in Italia, il quesito referendario sull’abolizione del tetto massimo di indennizzo per licenziamenti illegittimi rappresenta una minaccia più che una tutela.
In Francia, Germania, Belgio e Spagna, il contratto a termine senza causale è ammesso solo per durate molto brevi o con forti limitazioni. In Italia, invece, è diventato il default.
La motivazione scritta per ogni contratto a termine, per chi opera nei settori a forte rotazione o a carattere stagionale, può essere un ostacolo operativo e occupazionale.
La responsabilità solidale non è una novità : era già in vigore prima del 2021, ed è presente in molte legislazioni europee. Serve a creare una catena della sicurezza e della legalità.
Quando una norma scarica l’intero peso della responsabilità su chi commissiona un’opera – anche se non ha alcuna capacità di controllo – il risultato può essere più paralizzante che protettivo.
Ripristinare l’articolo 18 vuol dire giustizia, dignità e uguaglianza nel lavoro
Quando, nel 2015, entrò in vigore il contratto a tutele crescenti, introdotto con il Jobs Act, il governo dell’epoca lo presentò come un passo storico verso la “modernizzazione” del mercato del lavoro italiano. La nuova normativa prevedeva che i lavoratori assunti da quel momento in poi non potessero più essere reintegrati nel proprio posto di lavoro in caso di licenziamento ingiusto, salvo rarissime eccezioni (discriminazioni, nullità del licenziamento). Al posto della reintegra, il dipendente aveva diritto a un indennizzo monetario compreso tra le 2 e le 6 mensilità, eventualmente aumentabili fino a 12. Sembrava una soluzione “più rapida” e “più efficiente”. Ma col passare degli anni, la narrazione si è incrinata.
Secondo la CGIL e la Fondazione Di Vittorio, che nel 2025 hanno pubblicato un rapporto dettagliato sull’impatto del Jobs Act a dieci anni dalla sua introduzione, il contratto a tutele crescenti ha prodotto un effetto che può essere riassunto in due parole: disuguaglianza strutturale. A essere colpiti sono in particolare i 3,5 milioni di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Per loro, la perdita del posto di lavoro è diventata un evento spesso irreversibile, accompagnato da un risarcimento del tutto insufficiente a compensare il danno subito. Non si tratta solo di una questione economica, ma di una ferita al principio costituzionale di uguaglianza e dignità nel lavoro.
I dati parlano chiaro. Nel periodo 2015–2024, i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo sono cresciuti del 18%, ma il numero di reintegri è crollato. Dove prima un giudice poteva ordinare il ritorno in azienda del lavoratore ingiustamente allontanato, ora la sanzione si limita a un’indennità, spesso percepita dalle imprese come un “costo calcolabile”. Un fenomeno che ha avuto effetti particolarmente negativi su donne, lavoratori più anziani e soggetti con fragilità sanitarie, spesso scelti come “esuberi” proprio per la loro minore “flessibilità”.
Come ricorda il documento ufficiale della CGIL (Le conseguenze favorevoli dell’abrogazione del Jobs Act), il ritorno dell’articolo 18 garantirebbe il reintegro in numerosi casi oggi esclusi: ad esempio, nei licenziamenti collettivi illegittimi, nelle violazioni procedurali, nei casi di malattia, maternità o discriminazioni indirette. Inoltre, verrebbe ripristinato l’obbligo della conciliazione obbligatoria tra le parti, previsto dalla Legge 604/1966, ma cancellato dalla riforma renziana.
A sostegno del referendum si schierano anche giuristi come Luigi Ferrajoli, secondo cui la reintegra non è una “anomalia italiana” da eliminare, ma un presidio costituzionale di giustizia sostanziale: il lavoratore non è un “oggetto”, sostituibile con denaro, ma un cittadino titolare di diritti inviolabili. Le parole dello stesso Ferrajoli, riportate su “Il Manifesto”, sono emblematiche: “Il licenziamento arbitrario è un abuso di potere. Abrogarne il contrasto equivale a privatizzare il diritto”.
C’è anche un altro elemento di forte rilievo: il fattore dissuasivo. Prima del Jobs Act, la prospettiva di dover reintegrare il lavoratore fungeva da deterrente contro licenziamenti strumentali o basati su motivazioni fittizie. Oggi, come denunciato da lavoratori intervistati da “Il Fatto Quotidiano” e “La Repubblica”, molte aziende possono “liberarsi” di un dipendente scomodo (magari sindacalizzato, malato, o semplicemente non gradito) sapendo che la peggiore delle ipotesi sarà una manciata di mensilità.
Ma non si tratta solo di tutela individuale. Il reintegro rafforza anche la funzione collettiva del diritto del lavoro, favorendo relazioni industriali fondate sul rispetto reciproco. La CGIL sottolinea come la disparità introdotta dal Jobs Act abbia anche aumentato il turnover e la precarietà, con effetti dannosi sulla produttività e sulla fiducia nei rapporti contrattuali. La possibilità di tornare al vecchio impianto, dicono i promotori del referendum, non è un ritorno al passato, ma un passo in avanti verso un sistema più giusto, coerente con la nostra Costituzione. Il ripristino dell’articolo 18, quindi, rappresenta per i favorevoli non solo una battaglia legale, ma una sfida etica: riportare equilibrio tra capitale e lavoro, rafforzare la democrazia nei luoghi produttivi, e riaffermare che la dignità di chi lavora non può avere prezzo.
Nina Celli, 7 maggio 2025
Il ritorno dell’articolo 18 è un salto indietro nel tempo giuridico che danneggia imprese e lavoratori
Per i promotori del “No” al referendum abrogativo sull’articolo 18, la proposta di eliminare il contratto a tutele crescenti non rappresenta un progresso, ma un ritorno a un passato che aveva già mostrato i suoi limiti. L’impianto normativo del Jobs Act, pur con criticità, ha avuto – secondo numerosi esperti e osservatori indipendenti – il merito di introdurre maggiore chiarezza nei rapporti tra imprese e lavoratori, e di ridurre un contenzioso giudiziario percepito da molti imprenditori come imprevedibile, lungo e costoso.
Una delle critiche centrali mosse alla proposta referendaria è che essa rischia di scoraggiare le assunzioni nelle imprese, in particolare piccole e medie aziende, che rappresentano oltre il 90% del tessuto produttivo italiano. Secondo l'analisi pubblicata sul portale “Factorial” e ripresa da testate come “Il Messaggero” e “Wired”, il ritorno della reintegra obbligatoria nei casi di licenziamento illegittimo reintroduce una forte incertezza giuridica: il datore di lavoro non potrà più fare affidamento su un meccanismo “prevedibile” (l’indennizzo economico), ma sarà nuovamente esposto a sentenze variabili, con possibili obblighi di reintegro anche dopo anni.
Questo scenario, come sottolineano alcune associazioni datoriali, rischia di far crescere la ritrosia all’assunzione a tempo indeterminato, specialmente tra le microimprese. Il paradosso, evidenzia “Il Post”, è che proprio i soggetti che il referendum vuole tutelare – i giovani, i precari, i lavoratori delle piccole realtà – potrebbero trovarsi penalizzati da una norma che rende meno attraente il contratto stabile.
Tuttavia, il nodo non è solo occupazionale: è anche culturale e giuridico. Il Jobs Act, secondo alcuni giuristi citati da “Lavoce.info”, ha introdotto una concezione più “contrattuale” del rapporto di lavoro, in linea con molti altri paesi europei. La reintegra – sostengono i critici – rappresenta un residuo di una visione paternalistica, che affida al giudice il potere di “costringere” un imprenditore a tenere con sé un dipendente anche quando il rapporto è definitivamente compromesso. “Non si può forzare la fiducia lavorativa con una sentenza”, ha dichiarato nel 2025 il giuslavorista Marco Biagiotti in un’intervista ripresa da “ItaliaOggi”.
Dal punto di vista economico, l’indennizzo previsto dal contratto a tutele crescenti è ritenuto più conforme al principio del bilanciamento tra le parti. Come evidenziato da “Lavoce.info” in uno studio sulle imprese tra 2015 e 2019, la maggiore prevedibilità delle norme sui licenziamenti ha portato a investimenti in automazione e formazione, con un incremento medio della produttività del +1,5%. Reintrodurre un meccanismo giudiziario aleatorio, sostengono alcuni economisti, potrebbe invertire questa dinamica e rafforzare un clima di conservatorismo gestionale.
Anche sul piano politico e sociale, diversi esponenti del centro moderato, tra cui Renzi, Calenda e Tajani, hanno definito il referendum “una battaglia ideologica fuori dal tempo”. Secondo Italia Viva, “l’articolo 18 era già stato superato dalla realtà economica e dalla giurisprudenza costituzionale. Il ritorno indietro non favorisce i lavoratori: li rende solo più incerti, perché nessuno vorrà assumerli”.
Non mancano critiche al modello di reintegra come meccanismo “binario”: dentro o fuori. Secondo “Factorial”, un sistema più evoluto dovrebbe puntare su conciliazioni strutturate, supporto alla ricollocazione e welfare attivo, piuttosto che su soluzioni forzate che possono aggravare il conflitto e minare la fiducia nei luoghi di lavoro.
Per chi sostiene il “No” al quesito referendario sull’articolo 18, dunque, la proposta abrogativa è retorica e pericolosa: alimenta un’illusione di tutela, ma rischia di tradursi in nuove esclusioni. Una protezione efficace, dicono, non si misura dal numero dei reintegri, ma dalla qualità del lavoro, dalla capacità di adattamento del sistema e dalla sostenibilità dell’impresa. Tornare all’articolo 18 significherebbe ignorare le lezioni del passato e indebolire, non rafforzare, i diritti dei lavoratori.
Nina Celli, 7 maggio 2025
Rimuovere il tetto di indennizzo nelle piccole imprese: stessa giustizia per tutti i lavoratori
In Italia, un lavoratore licenziato senza giusta causa in una piccola azienda – cioè con meno di 15 dipendenti – può oggi ricevere, nella migliore delle ipotesi, 6 mensilità di risarcimento. Non di più. Anche se il licenziamento è chiaramente ingiustificato, persino discriminatorio. Anche se il lavoratore ha alle spalle vent’anni di servizio, ha una famiglia da mantenere e un’età che rende difficile ricollocarsi. La legge non lascia margini. Questo limite è fissato dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, così come riformulato nel corso degli anni. La seconda proposta referendaria del 2025 intende cancellare questa soglia automatica, per restituire al giudice la possibilità di valutare il danno caso per caso, tenendo conto dell’anzianità, del contesto sociale, delle condizioni familiari e professionali. In altre parole: ripristinare la proporzionalità e l’equità nel sistema risarcitorio.
Secondo la CGIL e la Fondazione Di Vittorio, che promuovono questa abrogazione, l’attuale limite crea una disuguaglianza inaccettabile: due lavoratori possono subire lo stesso tipo di licenziamento illegittimo, ma ricevere trattamenti radicalmente diversi solo perché uno lavora in un’azienda con 14 dipendenti, l’altro con 16. Questa discrezionalità basata sulla dimensione aziendale, denunciano i promotori, è una violazione del principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge (art. 3 Cost.).
Nel dossier ufficiale della CGIL (Referendum 2025: Le ragioni del Sì), si ricorda che oltre il 45% dei lavoratori italiani è occupato in microimprese. Questo significa che quasi la metà della forza lavoro è oggi esclusa da forme di tutela risarcitoria piena. E non solo: le sentenze emesse in base alla legge attuale obbligano il giudice a risarcire con una cifra standard, senza poter tenere conto di altri fattori che normalmente incidono nel calcolo del danno subito.
“Il Messaggero”, in un'inchiesta pubblicata il 5 maggio 2025, ha raccolto la testimonianza di Giulia, impiegata part-time in una sartoria a conduzione familiare. Dopo 11 anni di lavoro, è stata licenziata con una motivazione vaga (“riduzione di costi”), ritenuta illegittima dal tribunale. Il giudice le ha riconosciuto 6 mensilità nette di risarcimento, pari a circa 7.800 euro. Niente reintegro, nessun’altra tutela. “È come se non valessi nulla”, ha detto Giulia ai giornalisti.
Le conseguenze sono anche sistemiche. “Fisco e Tasse”, portale tecnico di diritto del lavoro, spiega che il tetto attuale incentiva una certa “disinvoltura” nei licenziamenti nelle PMI. Se il costo massimo è noto e contenuto, il rischio di abuso è più alto. Le imprese meno virtuose possono decidere di “liberarsi” di un lavoratore scomodo o costoso semplicemente mettendo in conto sei mensilità di uscita. La norma, anziché proteggere le piccole realtà, finisce per incentivare pratiche di dumping contrattuale.
A sostegno del quesito si è espresso anche il giurista Francesco Martelloni, professore di Diritto del lavoro a Siena, che ha scritto su “Il Manifesto”: “Stabilire un tetto assoluto all’equità risarcitoria equivale a legittimare l’ingiustizia. La giustizia deve essere libera di valutare, non incatenata dalla logica contabile”.
Dal punto di vista sociale, il referendum viene visto come un tentativo di restituire dignità alle tutele minime, troppo spesso sacrificate in nome della flessibilità. L’obiettivo, ribadiscono CGIL e promotori, non è penalizzare le piccole imprese, ma responsabilizzarle. Il principio è chiaro: se un licenziamento è illegittimo, lo è a prescindere dalla dimensione dell’azienda, e il danno deve essere ristorato in modo adeguato.
Come ha dichiarato Maurizio Landini in una conferenza pubblica: “In Italia c’è una zona grigia di lavoratori che sono tutelati solo a metà. Il referendum serve a dire che la legge non può avere due pesi e due misure. Se sei ingiustamente licenziato, hai diritto a una giustizia piena. Punto”.
Nina Celli, 7 maggio 2025
Senza tetti risarcitori nelle piccole imprese c’è rischio di contenziosi e instabilità per chi crea lavoro
Per chi guida un’impresa con meno di 15 dipendenti in Italia – artigiani, commercianti, piccole realtà familiari – il quesito referendario sull’abolizione del tetto massimo di indennizzo per licenziamenti illegittimi rappresenta una minaccia più che una tutela. Non tanto perché si contesti il diritto dei lavoratori a essere risarciti in caso di abuso, quanto per l’effetto sistemico che questa abrogazione potrebbe produrre su un tessuto produttivo già fragile.
La norma che si vuole cancellare prevede che, nelle aziende sotto i 15 dipendenti, il giudice possa riconoscere un massimo di 6 mensilità come risarcimento per un licenziamento illegittimo. Una soglia bassa, sì, ma anche trasparente e prevedibile, che consente a una piccola azienda di sapere a cosa va incontro in caso di contenzioso. Togliere questo tetto, secondo imprenditori e associazioni come Confartigianato e Confcommercio, significa esporre le microimprese a rischi giudiziari difficili da sostenere.
Il portale “Factorial”, in un’analisi pubblicata ad aprile 2025, riporta interviste a numerosi imprenditori: “Senza una soglia fissa, ci troveremmo in balia di sentenze che potrebbero portare risarcimenti sproporzionati rispetto alla nostra capacità economica. Non siamo grandi gruppi con riserve legali, siamo botteghe con 3 o 4 dipendenti”. Il timore diffuso è che, in assenza di un tetto, i giudici possano applicare criteri non omogenei, con il risultato di creare un clima di incertezza che scoraggia le nuove assunzioni.
A questa preoccupazione si aggiunge un dato strutturale: il 95% delle imprese italiane ha meno di 15 dipendenti, secondo Istat. Il blocco o la contrazione della volontà di assumere in questo settore si tradurrebbe in una perdita complessiva di dinamismo occupazionale. Come sottolineato in un editoriale su “Il Messaggero”, “il piccolo imprenditore non è un licenziatore seriale, ma spesso un datore di lavoro coinvolto personalmente nella gestione quotidiana. Appesantirne il rischio legale non lo renderà più equo, lo renderà più prudente”.
Il tema tocca anche la tenuta del sistema giudiziario. Oggi, con un tetto massimo fisso, molte cause si chiudono più rapidamente perché la posta in gioco è circoscritta. L’abolizione della soglia potrebbe comportare una ri-esplosione del contenzioso sul lavoro, già particolarmente oneroso per i tribunali italiani. La durata media di un processo del lavoro, secondo il Ministero della Giustizia, supera i 420 giorni in primo grado. Se ogni causa implicasse un potenziale risarcimento senza limiti, la pressione su giudici e avvocati aumenterebbe, con conseguenze sistemiche anche sulla fiducia degli operatori economici.
Sul versante politico, esponenti come Antonio Tajani (FI) e Maurizio Lupi (Noi Moderati) hanno definito questo quesito “ostile alla piccola impresa”. La loro posizione, espressa durante le celebrazioni del Primo Maggio 2025 e riportata dall’“AGI”, è che “non si può chiedere allo stesso tempo alle piccole imprese di innovare, assumere, essere competitive… e poi trattarle come se fossero colossi industriali in caso di errore formale”. Il rischio paventato è quello di una crescente burocratizzazione del rapporto di lavoro, in cui ogni licenziamento diventa una potenziale bomba a orologeria.
Non manca chi propone una via alternativa: anziché eliminare il tetto, si potrebbe rialzarlo gradualmente, magari portandolo da 6 a 10 mensilità, con una clausola di equità per casi gravi. Così facendo, si tutelerebbero meglio i lavoratori, senza scaricare sulle imprese più piccole un peso giudiziario ingestibile.
Per i contrari a questo quesito referendario, la rimozione del tetto risarcitorio è una riforma sproporzionata e rischiosa, che colpisce proprio quella parte del mondo del lavoro che ha meno strumenti per difendersi. Non si tratta di negare i diritti del lavoratore, ma di riconoscere che la giustizia deve essere anche sostenibile e coerente con la struttura produttiva del Paese. Un sistema in cui le imprese temono di assumere per paura di non poter gestire le uscite non è un sistema più equo: è un sistema più immobile.
Nina Celli, 7 maggio 2025
Reintrodurre la causale nei contratti a termine per combattere la precarietà legale
C’era un tempo in cui, per assumere un lavoratore a tempo determinato, il datore di lavoro doveva spiegare il perché. Serviva una motivazione concreta: una sostituzione temporanea, un picco produttivo, una ragione stagionale. Quella causale, che poteva sembrare una semplice formalità burocratica, rappresentava invece un principio fondamentale del diritto del lavoro: la temporaneità doveva essere giustificata, non la regola.
Questo è cambiato con la riforma del 2018 e poi con la liberalizzazione successiva. Oggi un’azienda può assumere un lavoratore con contratto a termine senza dover specificare alcuna ragione, a patto che la durata non superi i 12 mesi (rinnovabili). Il risultato, secondo i promotori del terzo quesito referendario del 2025, è stato un’esplosione della precarietà legale: contratti brevi, ripetuti, rinnovabili, con scarse tutele e un turnover che rende sempre più difficile immaginare un futuro stabile.
Nel documento ufficiale della CGIL, si evidenzia che il 30% della forza lavoro under 35 è oggi impiegata con contratti a termine o part-time involontari. La Fondazione Di Vittorio sottolinea che tra il 2015 e il 2023 il numero di contratti a termine inferiori a 12 mesi è cresciuto del 42%, con punte nel settore del turismo, del commercio e dei servizi alla persona. Si tratta di contratti che spesso si susseguono senza soluzione di continuità, con interruzioni minime, e che impediscono ai lavoratori di accedere a mutui, pianificare una famiglia, ottenere prestiti o garanzie.
L’abrogazione dell’esenzione causale mira proprio a questo: rimettere un freno alla precarietà seriale, facendo sì che le imprese debbano giustificare per iscritto – in modo tracciabile – il ricorso al tempo determinato. Non un divieto, ma una responsabilizzazione. Il principio è semplice: se c’è una buona ragione, nessuno vieta il contratto breve; se non c’è, è preferibile assumere con contratti più stabili.
L’articolo di “Wired” sul referendum 2025 riporta il caso emblematico di Simone, 29 anni, che ha cambiato otto contratti in sei mesi nella stessa azienda: “Mi mandavano via per due settimane e poi mi richiamavano. Sempre con contratti di 3 mesi, senza spiegazioni. Quando ho chiesto di essere stabilizzato, mi hanno detto che non era previsto budget”. Un esempio, purtroppo, molto comune.
Dal punto di vista macroeconomico, anche la Banca d’Italia ha sottolineato più volte che la frammentazione dei rapporti di lavoro penalizza la produttività e la formazione. Un lavoratore che cambia azienda ogni 6 mesi difficilmente può investire in competenze, sentirsi parte di un progetto o crescere professionalmente. Secondo il report della Fondazione Di Vittorio, la frammentazione contrattuale incide sul tasso di produttività nazionale per oltre 0,5 punti percentuali all’anno.
Non si tratta solo di numeri. La mancanza di causale crea un’asimmetria di potere: il lavoratore sa che può essere “scaricato” senza motivo alla scadenza del contratto, e questo lo rende più ricattabile, meno propenso a chiedere ferie, malattia, permessi o persino a iscriversi a un sindacato. Come ha scritto Ferrajoli su “Il Manifesto”: “La precarietà contrattuale non è solo instabilità materiale, è insicurezza giuridica, psicologica e civile”.
I promotori del referendum sottolineano che la causale è uno strumento per riequilibrare le relazioni industriali, non per imbrigliare l’impresa. In Francia, Germania, Belgio e Spagna, il contratto a termine senza causale è ammesso solo per durate molto brevi o con forti limitazioni. In Italia, invece, è diventato il default.
Restituire la causale ai contratti sotto i 12 mesi significa dire che la regola è il tempo indeterminato, e che il contratto a termine è un’eccezione giustificata. Non si tratta di ostacolare la flessibilità, ma di difendere la stabilità e l’equità. E come ha affermato Maurizio Landini, “Non c’è libertà nel lavoro se ogni mese devi sperare in una firma”.
Nina Celli, 7 maggio 2025
La causale obbligatoria è un freno per l’occupazione nei settori stagionali e a ciclo breve
In teoria, richiedere una motivazione scritta per ogni contratto a termine può sembrare un principio di responsabilità. Ma in pratica, per chi opera nei settori a forte rotazione o a carattere stagionale, questa misura si tradurrebbe in un ostacolo operativo e occupazionale. È questo il cuore della critica al quesito referendario che propone di reintrodurre l’obbligo di “causale” per tutti i contratti a tempo determinato, anche sotto i 12 mesi.
La flessibilità, sostengono i contrari, non è sempre sinonimo di abuso. In molti comparti economici – come il turismo, l’agricoltura, il commercio stagionale, la ristorazione, l’intrattenimento – l’andamento della domanda è fortemente variabile, legato a fattori climatici, festività, fiere, eventi o picchi imprevisti. In questi contesti, dover specificare e giustificare una causale documentabile può diventare un vincolo burocratico che scoraggia le assunzioni o espone le imprese a rischi di contenzioso per errori formali o interpretazioni divergenti. In un’analisi pubblicata da “Factorial”, molti imprenditori riportano l’esperienza vissuta prima del 2018 (quando la causale era obbligatoria): “Le causali ci mettevano sotto pressione, perché non sempre è possibile dimostrare la ‘temporaneità’ con precisione. Se la motivazione veniva contestata, rischiavamo di dover trasformare il contratto in tempo indeterminato per vizi formali. Molti colleghi hanno smesso di assumere”.
Anche Confcommercio e Confartigianato, in dichiarazioni rilanciate da “Il Messaggero” e “AGI”, hanno espresso preoccupazione per questo quesito. “La normativa senza causale – sostengono – ha consentito negli ultimi anni di aumentare le occasioni di lavoro temporaneo, soprattutto per giovani, studenti, lavoratori extra nei periodi di picco. Obbligare a formalizzare ogni contratto rischia di far cadere molte assunzioni nella zona grigia dell’irregolarità o, peggio, nel non-contratto”.
C’è poi la questione delle piccole imprese e degli studi professionali, che non dispongono di uffici legali interni o consulenti in grado di redigere causali blindate. Un semplice errore di formulazione – come scrivere “motivi organizzativi” invece di “aumento temporaneo della clientela per festività pasquali” – può aprire la porta a vertenze costose, che scoraggiano le assunzioni e favoriscono il ricorso a forme più opache di impiego (collaborazioni, false partite IVA, lavoro nero).
I dati raccolti da “Lavoce.info” mostrano che tra il 2019 e il 2023, proprio grazie alla possibilità di stipulare contratti a termine senza causale sotto i 12 mesi, il numero di nuove assunzioni trimestrali nei settori stagionali è cresciuto del 16%, con picchi del +25% nel turismo e +18% nel commercio natalizio. Secondo l’Osservatorio INPS, queste forme di lavoro – pur temporanee – rappresentano una porta di ingresso nel mondo del lavoro, specialmente per studenti e giovani in transizione.
Critiche giungono anche da Italia Viva e Forza Italia, che parlano di “follia burocratica” e “reintroduzione del formalismo dannoso”. Tajani ha dichiarato: “Bisogna distinguere tra flessibilità cattiva e flessibilità utile. Bloccare il contratto breve senza causale significa punire proprio quei settori che faticano a restare competitivi, che assumono perché devono rispondere al mercato, non per precarizzare”.
Non tutti i lavoratori, poi, vivono la causale come una protezione. In un’inchiesta riportata da “Il Post”, molti giovani dichiarano di preferire contratti semplici, rinnovabili, senza troppi vincoli formali, soprattutto quando cercano un impiego temporaneo per mantenersi negli studi o fare esperienza.
Va ricordato, inoltre, che l’obbligo di causale non elimina il precariato, ma lo rende più difficile da gestire legalmente. Se un’azienda intende evitare la stabilizzazione, può comunque interrompere il contratto, cambiare intestazione, esternalizzare. Il rischio, come ammonisce l’Istituto Bruno Leoni in un position paper del 2025, è che il lavoro regolare venga sostituito da soluzioni più informali, più precarie e meno tutelanti.
Per chi si oppone al quesito, quindi, la reintroduzione della causale è una buona idea nel principio, ma pessima nella pratica: rallenta il dinamismo, ostacola l’occupazione nei settori a ciclo breve, penalizza proprio chi crea lavoro. Se si vuole tutelare i lavoratori, concludono, la strada è rafforzare i controlli e i contratti collettivi, non riscrivere leggi che rendono il lavoro temporaneo un terreno minato.
Nina Celli, 7 maggio 2025
Restituire piena responsabilità al committente negli appalti vuol dire tutelare maggiormente chi lavora
La mattina del 16 febbraio 2024, in un cantiere alla periferia di Firenze, cinque operai morirono schiacciati dal crollo di una trave in cemento armato. L’azienda appaltatrice, una piccola ditta subappaltata da una società di costruzioni più grande, non aveva aggiornato i protocolli di sicurezza, e non risultava in regola con tutte le verifiche obbligatorie. L’episodio, riportato da “Il Fatto Quotidiano” e rilanciato su larga scala dai media nazionali, riaccese una ferita profonda: quella degli infortuni sul lavoro negli appalti, una zona grigia dove troppo spesso le responsabilità si perdono lungo la catena dei subappalti. È in questo contesto che si colloca il quarto quesito referendario del giugno 2025, promosso dalla CGIL e sostenuto da numerose reti civiche, che mira a ripristinare la responsabilità solidale piena del committente. In pratica, se l’azienda appaltatrice non rispetta le norme su sicurezza, contratti e contributi, anche l’azienda committente – cioè chi ha affidato il lavoro – dovrebbe essere legalmente responsabile. Oggi non è più così.
Dal 2021, con un emendamento voluto dal governo Draghi e poi confermato, la responsabilità del committente è stata limitata ai soli casi di dolo o colpa grave. In altre parole, se il committente non era “pienamente consapevole” del rischio o della violazione, non risponde più. Questo, secondo i promotori del referendum, ha indebolito la rete di protezione dei lavoratori e incentivato la logica del “non vedo, non sento, non so” nelle filiere produttive.
Nel dossier tecnico diffuso dalla Fondazione Di Vittorio, si evidenzia come nel 2023 oltre 470.000 infortuni sul lavoro siano stati denunciati all’INAIL, di cui 1.090 mortali. Di questi, una percentuale crescente avviene in imprese subappaltatrici, spesso di piccole dimensioni, con margini bassi e alta rotazione di personale. La mancanza di controlli effettivi e di responsabilità della “testa” della filiera ha reso questi ambienti più esposti e più pericolosi. Restituire la responsabilità solidale, secondo la CGIL e giuristi come Luigi Ferrajoli, significa rompere l’asimmetria di potere e di impunità che oggi caratterizza il mondo degli appalti. Il principio è chiaro: chi trae profitto da un’opera – pubblica o privata – ha il dovere di garantirne le condizioni di sicurezza, anche se materialmente eseguita da terzi.
Nell’inchiesta di “Wired” sul referendum 2025, una lavoratrice della logistica racconta: “Mi hanno spostata da una cooperativa all’altra. Lavoravo nello stesso capannone, con lo stesso badge, ma ogni tre mesi cambiava il contratto. Quando ho avuto l’infortunio, nessuno sapeva più di chi ero dipendente. La committente ha detto che non c’entrava”. È questa la zona grigia giuridica che il referendum mira a illuminare.
I promotori sottolineano che la responsabilità solidale non è una novità ideologica: era già in vigore prima del 2021, ed è presente in molte legislazioni europee. Serve a creare una catena della sicurezza e della legalità, dove ogni anello – dal committente al subappaltatore – è tenuto a vigilare, formare, controllare. Come ha detto Maurizio Landini: “La vita non si appalta. Il profitto non può essere separato dalla responsabilità”.
Dal punto di vista economico, i fautori del referendum respingono l’argomento secondo cui questa norma sarebbe un freno agli appalti. Al contrario, spiegano che una filiera trasparente e controllata aumenta la competitività, scoraggiando il dumping contrattuale e la corsa al ribasso sui costi del lavoro. Le imprese virtuose – quelle che rispettano norme, sicurezza e contrattazione – sono oggi penalizzate da chi vince le gare offrendo servizi a prezzi che non consentono legalità.
Il ripristino della responsabilità solidale ha valore culturale e politico: riafferma l’idea che l’impresa non è solo profitto, ma comunità di destino. Che la sicurezza non è un optional, ma un diritto umano. E che ogni lavoratore, anche se assunto da una cooperativa sconosciuta, ha diritto alla stessa tutela.
Nina Celli, 7 maggio 2025
La responsabilità solidale negli appalti è una norma che rischia di paralizzare committenti e filiere
Nel mondo complesso e frammentato degli appalti, dove ogni cantiere, magazzino o servizio pubblico coinvolge spesso più imprese, fornitori, subappaltatori e cooperative, introdurre regole severe è fondamentale. Ma quando la norma finisce per scaricare l’intero peso della responsabilità su chi commissiona l’opera – anche se non ha alcuna capacità di controllo diretto – il risultato rischia di essere più paralizzante che protettivo. È questa la critica principale mossa al quarto quesito referendario, che punta a ripristinare la responsabilità solidale del committente in caso di infortuni sul lavoro o violazioni contrattuali nell’ambito di un appalto.
Dal 2021, grazie a una modifica normativa introdotta durante il governo Draghi, la responsabilità del committente è limitata ai casi di dolo o colpa grave. In pratica, l’azienda che affida l’opera a un soggetto terzo risponde solo se ha ignorato o favorito consapevolmente le irregolarità. È un principio ispirato al diritto civile e alla razionalità gestionale: non puoi essere responsabile per ciò che non puoi realmente controllare.
Il referendum, invece, vorrebbe tornare alla logica precedente, in cui il committente risponde in ogni caso in solido con l’appaltatore per eventuali inadempienze, infortuni, mancato pagamento di contributi o retribuzioni. Una norma rigida, che – secondo numerosi imprenditori e giuristi citati da “Il Messaggero”, “Factorial” e “Il Post” – rischia di disincentivare il ricorso agli appalti, soprattutto tra le piccole e medie imprese.
Come ha dichiarato Fabio Bertolotti, titolare di un’impresa edile della provincia di Brescia, in un’intervista pubblicata su “Il Messaggero” (maggio 2025): “Con quella norma in vigore non si trovava più nessuno disposto a fare il committente. Se l’appaltatore faceva un errore, la colpa ricadeva su di te. Anche se avevi rispettato tutte le verifiche. Era un incubo”.
Il problema si acuisce quando il committente è un soggetto pubblico o una PMI, che spesso non ha né le risorse né le competenze per fare un controllo capillare su ogni fase dell’esecuzione. “Chiedere a un preside, a un amministratore comunale o a un piccolo imprenditore di garantire al 100% ciò che fa il subappaltatore è tecnicamente e giuridicamente insostenibile”, ha dichiarato Antonio Tajani in occasione delle celebrazioni del Primo Maggio 2025, citato dall’“AGI”.
Inoltre, il ripristino della responsabilità solidale “automatica” potrebbe causare un aumento dei costi di assicurazione, consulenza e compliance legale, soprattutto nei settori ad alta intensità di subappalto (edilizia, logistica, pulizie, sanità privata). Secondo un’analisi condotta da “Lavoce.info”, questi costi – che ricadono anche su enti pubblici – potrebbero crescere fino al 12–15%, rallentando le gare d’appalto e scoraggiando la partecipazione di imprese medio-piccole.
Critiche arrivano anche da parte di alcune cooperative virtuose, che si dicono preoccupate per un effetto perverso: “Se ogni irregolarità viene fatta risalire alla testa della filiera, i committenti si rivolgeranno solo a grandi gruppi strutturati, escludendo piccole cooperative locali con cui collaborano da anni”, afferma Giovanni Perin, responsabile legale di una rete di servizi integrati nel Triveneto.
Non mancano anche aspetti giuridici e costituzionali. Il principio della responsabilità personale è sancito dall’art. 27 della Costituzione. Attribuire a un soggetto una responsabilità senza prova di colpa o dolo, affermano alcuni giuristi come Luca Failla (su “ItaliaOggi”), rischia di essere una forma di responsabilità oggettiva impropria, incompatibile con lo stato di diritto.
Per questi motivi, i sostenitori del “No” al referendum invitano a distinguere tra lotta alla precarietà e ingiustizia normativa. Non si può chiedere al committente di diventare “ispettore del lavoro”, né costringerlo a farsi carico di ogni errore altrui. La soluzione, dicono, sta nel rafforzare gli strumenti di vigilanza pubblica, aumentare il numero degli ispettori del lavoro e semplificare le regole di tracciabilità, non nell’alzare il livello di rischio legale per chi, in buona fede, commissiona un’opera.
Il quesito appare dunque eccessivo, squilibrato e potenzialmente paralizzante. Intende tutelare chi lavora – un obiettivo sacrosanto – ma lo fa senza tenere conto della complessità organizzativa, generando un possibile effetto boomerang: meno appalti, più chiusure, meno lavoro.
Nina Celli, 7 maggio 2025