In una fase economica recessiva, solo l'intervento statale consente la ripresa economica

I danni dell’intervento dello stato nell’economia

Il fallimento delle politiche Keynesiane, basate su spesa pubblica in deficit per stimolare il sistema economico, risale agli anni Settanta, dopo il primo shock petrolifero. In quegli anni si è verificata la “stagflazione”, ossia la stagnazione unita all’inflazione, un fenomeno non previsto nella teoria economica Keynesiana, che non riteneva possibile la presenza simultanea della disoccupazione con un aumento generale dei prezzi, bensì soltanto con una loro diminuzione, che corrispondeva ad un calo dei consumi. La “stagflazione” dipendeva da vari fattori, tra cui la terziarizzazione dell’economia, correlata ad una contrazione del settore primario e secondario, e la presenza di grandi oligopoli i quali, nonostante il calo della produzione, hanno potuto mantenere prezzi elevati. Le politiche espansive che sono state attuate per combattere la “stagflazione” si sono rivelate inefficaci, rialzando ulteriormente i prezzi dei beni senza contrastare adeguatamente la disoccupazione. Oltretutto, l’intervento massiccio dello Stato nel sistema economico genera deficit, che accumulandosi diviene debito pubblico. Esiste una correlazione tra scarsa crescita e alto debito pubblico, in particolare quando quest’ultimo si avvicina al 100% del PIL, come dimostrato nel 2010 dagli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff in un working paper pubblicato sulla “American Economic Review” del titolo Growth in the Time of Debt [“la crescita ai tempi del debito”, TdR], (“nber.org”, 5 dicembre 2011). Nonostante le critiche metodologiche indirizzate agli autori, i risultati restano validi, tanto che i paper successivi degli stessi autori sono giunti alle stesse conclusioni. Per la ricerca sono stati analizzati i dati di due secoli di debito pubblico di Stati sia avanzati sia in via di sviluppo, attestando come il livello di debito sia ininfluente sulla crescita finché non si supera la soglia del 90%. I paesi con un debito pubblico superiore al 90% hanno avuto una crescita media che si attesta tra -0,1% e il 2,2%, inferiore a quelli con un debito minore. Per i paesi il cui debito pubblico è detenuto in larga parte da creditori esteri, come avviene spesso agli Stati emergenti, la soglia di debito scende persino al 60%. Alcune nazioni altamente indebitate, infatti, hanno tentato di raggiungere il default tramite una rapida inflazione o un rifiuto di pagare il debito. La lontananza dal default consente un migliore rating e quindi un tasso di interesse inferiore, con una conseguente maggiore fiducia da parte degli investitori. L’eccezionalità del caso giapponese dipende dal fatto che il debito del paese sia quasi interamente nelle mani dei giapponesi e non possa essere dunque oggetto di speculazione straniera. Inoltre, la Bank of Japan può stampare moneta e fungere da prestatore di ultima istanza, a differenza della BCE per l’Eurozona. Ma il Giappone non è sicuramente un modello economico da copiare: il paese è in deflazione dal 1997 e, nel momento in cui i detentori del debito pubblico (prevalentemente baby-boomers nati tra il 1940 e il 1960) saranno prossimi alla pensione, smetteranno di risparmiare e inizieranno a spendere, il debito diventerebbe insostenibile.

L’equilibrio del mercato e la teoria della public choice

In Europa l’adozione di politiche di austerity è servita a prevenire questi scenari, per consentire in un secondo momento al mercato di ritornare in una situazione di equilibrio. I sistemi economici di mercato, come suggerito dalla teoria neoclassica, sono guidati dall’incrocio tra domanda e offerta che li rende intrinsecamente stabili. Secondo la legge di Walras (consultato in “Encicloperdia Treccani” il 24 ottobre 2016), considerando n mercati (ad esempio quello delle merci, quello del lavoro, della moneta ecc.), se “n-1” sono in equilibrio allora anche l’ennesimo mercato è in equilibrio. La disoccupazione di massa che caratterizza questo periodo storico è data dal fatto che ci sia un’offerta di lavoratori molto superiore alla domanda, non tanto dovuta al malfunzionamento del mercato, quanto a vari fattori distorsivi: per l’Italia si può citare la tassazione troppo elevata, vincoli su assunzioni e licenziamenti (ridotti dal Jobs Act), mancata corrispondenza tra la scuola e le competenze richieste nel mondo del lavoro. Nel caso della Francia, anche la presenza massiccia del sindacato costituisce un ostacolo al buon funzionamento del mercato, che richiederebbe maggiore flessibilità dei salari. L’intervento pubblico si rivela inutile, poiché conduce a un aumento del tasso di interesse e a un ulteriore aumento del debito pubblico, aggravando la recessione. La teoria della public choice (voce consultata in “econlib.org” il 24 ottobre 2016), elaborata dal premio Nobel per l’Economia James Buchanan, sostiene che gli attori politici siano soggetti razionali guidati da interessi egoistici, esattamente come gli altri attori economici, che mirano alla massimizzazione dell’utilità (e non del benessere collettivo). I gruppi di interesse (imprese, sindacati, associazioni ecc.) esercitano pressioni sulla politica affinché possano beneficiare di una maggiore spesa pubblica nel proprio settore o di una legislazione favorevole. Quindi, i politici che devono sostenere campagne elettorali costose per essere eletti appoggeranno questi gruppi di interesse per essere finanziati. Una volta giunti al potere, i politici tenderanno ad assecondare le richieste dei portatori di interessi spesso a discapito dell’interesse generale. Perciò, le politiche di liberalizzazioni e privatizzazioni su vasta scala, che pure sarebbero fondamentali per ridurre il debito pubblico e aumentare l’efficienza, incontrano grossi ostacoli. I veti incrociati di vari portatori di interessi impediscono una riduzione della spesa, l’alto debito pubblico influisce negativamente sulla competitività e rende più difficile l’accesso ai capitali.

I fallimenti del mercato e il moltiplicatore della spesa pubblica

Esiste una forte evidenza empirica riguardante l’esistenza di fallimenti del mercato. I “fallimenti macroeconomici del mercato” consistono in varie inefficienze e/o iniquità che si verificano nelle economie di mercato, quali disoccupazione, inflazione, sottosviluppo, squilibri nella bilancia dei pagamenti, ovvero squilibri nelle transazioni che l’economia di un paese intrattiene con i non residenti. La teoria di Adam Smith, secondo il quale il mercato è in grado di autoregolarsi come se fosse guidato da una “mano invisibile” (Adam Smith, An Inquiry Into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776, qui ripreso da “ifaarchive.com”, consultato il 24 ottobre 2016), viene smentita nella realtà. Infatti, secondo John Maynard Keynes, il capitalismo è guidato dagli “spiriti animali” degli imprenditori, che agiscono nel mercato sulla base di informazioni parziali e imperfette (John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Palgrave Macmilian, 1936). Se l’azione del libero mercato producesse esiti ottimali, non si spiegherebbe l’esistenza della disoccupazione involontaria (ancor più presente nelle economie in crisi). L’esistenza di un’alta disoccupazione involontaria rappresenta una forte perdita di efficienza per il sistema economico. Oltretutto, la disoccupazione prolungata favorisce il deperimento delle risorse umane. Infatti, la possibilità di un disoccupato di trovare un’occupazione diminuisce all’aumentare del periodo di disoccupazione. Un intervento pubblico di redistribuzione del reddito può mitigare tali effetti nefasti, tramite forme di protezione sociale come indennità di disoccupazione oppure reddito di cittadinanza. Sarebbe tuttavia preferibile reimmettere più disoccupati possibile nel mercato del lavoro. Soprattutto in periodi di recessione, lo Stato dovrebbe fare, secondo Keynes, ciò che l’economia privata non ha convenienza a realizzare, ovvero investimenti in infrastrutture, grandi opere, ricerca e innovazione. Questo mette in moto una filiera produttiva che porta più individui al lavoro e di conseguenza all’aumento della domanda aggregata (i lavoratori potranno permettersi beni e servizi che prima non potevano permettersi, considerato l’aumento dei redditi). Percependo un reddito maggiore, i cittadini sarebbero in grado di pagare più tasse e quindi di compensare l’investimento iniziale: in questo consiste il fenomeno del moltiplicatore della spesa pubblica. Keynes si pronuncia contro l’abbassamento dei salari e dei prezzi, poiché sfavorisce i lavoratori e avvantaggia chi vive di rendita, che possiede una minore propensione al consumo. Viene inoltre aumentato il valore reale dei debiti, così aumenta il rischio di fallimenti delle imprese e si riduce la propensione agli investimenti, sia da parte delle famiglie sia da parte delle imprese.

Come l’austerità ha favorito deflazione e disoccupazione di massa

Di fatto, queste analisi risultano molto attuali in questa crisi economica, data la presenza della deflazione combinata alla disoccupazione di massa, entrambe prodotte dall’austerity. La deflazione, ovvero una riduzione generale dei prezzi monitorata sulla base di un paniere di beni, è solo in apparenza un fenomeno positivo. Infatti, i prezzi in calo generano aspettative di ulteriori cali, spingendo gli individui a posticipare gli acquisti e a livello macroeconomico si genera una riduzione dei consumi. Questo si ripercuote negativamente sulle imprese, che diminuiscono i propri guadagni e tendono a licenziare di più, creando nuova disoccupazione, oppure rinunciano a nuove assunzioni. Una politica monetaria basata unicamente sulla stabilità dei prezzi, e quindi sul freno all’inflazione, sostenuta dai fautori delle politiche del rigore, paralizza la crescita economica. La paura dell’inflazione e del debito costituisce il pilastro fondamentale della politica del rigore, che ha causato e causa tuttora disoccupazione di massa e contrazione dei consumi e degli investimenti nei paesi periferici dell’Eurozona. Da quando le politiche del rigore sono state rese esecutive, paradossalmente il debito pubblico è aumentato notevolmente in molti paesi (Italia, Grecia, Spagna, Irlanda). Il rapporto debito pubblico/PIL può variare sia sul versante del numeratore (debito pubblico) sia su quello del denominatore (PIL). Per far diminuire il rapporto, si può ridurre l’entità del numeratore (debito pubblico) oppure aumentare il denominatore (PIL). Le misure di austerità si sono esclusivamente concentrate sulla prima opzione, deprimendo però il PIL più del previsto. Solo cambiando paradigma, ossia promuovendo politiche di crescita per l’aumento del PIL, anche con l’ausilio di investimenti pubblici in deficit, si potrà rilanciare l’economia e ridurre il rapporto debito pubblico/PIL. Gli studiosi tedeschi Gechert e Rannenberg, ripresi in un articolo dell’economista Nicola Acocella su “Repubblica”, “hanno dedotto che la riduzione del PIL conseguente all’austerità è stata superiore al 25% rispetto al livello del reddito che ci sarebbe stato in assenza di consolidamento fiscale” (Nicola Acocella, I conti dell’austerità più debito meno pil, “La Repubblica”, 11 aprile 2016). L’inefficacia dell’austerità si evidenzia in maniera ancora più evidente se si paragonano le misure attuate nell’Eurozona con quelle degli Stati Uniti: “In quel paese, la politica fiscale espansiva è intervenuta massicciamente nei primissimi anni della crisi e, grazie ad una tempestiva ed innovativa politica monetaria […] ha portato il paese fuori dalle secche della deflazione” (Ibidem). La Federal Reserve ha attuato una politica monetaria espansiva tramite ampi quantitative easing, acquistando la quasi totalità dei titoli emessi dal tesoro e quindi mantenendo bassi i tassi di interesse. Unitamente a sconti fiscali e investimenti pubblici, l’economia americana è ritornata ai livelli pre-crisi a differenza dell’Eurozona.

Gloria Gattoni, 31 ottobre 2016