Uscire dalla moneta unica significherebbe bancarotta

Gli argomenti di Giacchè

Vladimiro Giacché, nell’articolo A quali condizioni può sopravvivere l’euro? Un’ipotesi da non esorcizzare, pubblicato su “Linus” (luglio 2014), argomenta contro la tesi secondo cui l’uscita dall’euro dell’Italia, o la fine della moneta unica, equivarrebbe ad una forte crescita del debito pubblico, che porterebbe l’Italia a dichiarare insolvenza. Tale tesi sarebbe frutto di un processo di eccessiva enfatizzazione, che farebbe apparire gli svantaggi dell’uscita dall’euro più grandi di quelli che realmente sono. La struttura argomentativa di Giacché, mirante a sciogliere l’equiparazione tra “uscita dall’euro” e “bancarotta”, si fonda su due ordini di ragioni: il primo riguarda il fatto che “i contratti di debito stipulati secondo la legge italiana devono essere pagati nella moneta nazionale”; il secondo, l’idea secondo cui “il vero nemico della sostenibilità del debito pubblico non è la svalutazione, ma la deflazione”.

 

La lex monetae

Riguardo al primo punto, scrive Giacché: “Nella sua versione più diffusa la tesi ‘uscita dall’euro = bancarotta dell’Italia’ utilizza un argomento di facile presa: siccome il nostro debito pubblico è in gran parte in euro, se l’Italia uscisse dall’euro per poi svalutare, ci troveremmo a pagare debiti […] denominati in una valuta molto più forte della nostra. Questo farebbe esplodere i nostri debiti, rendendone impossibile il ripagamento”. Giacché argomenta sulla non correttezza di tale ragionamento, che non tiene conto del principio giuridico della lex monetae, espresso nell’ordinamento italiano negli articoli 1277 e seguenti del Codice Civile, disponibili on line sul sito “Brocardi”. Bisogna subito ricordare che si stima che circa il 98% dei titoli di Stato sono regolati dalla legge italiana. È importante questa precisazione perché uno degli argomenti di coloro che prevedono una bancarotta dello Stato se l’Italia uscisse dall’euro è quello di affermare sostanzialmente che il debito in valuta estera o disciplinato dal diritto estero si rivaluterebbe. La risposta di Alberto Bagnai a questo argomento, nell’articolo Debito pubblico: quelli che "la monetizzazione si fa coi miniassegni...", pubblicato sul “Fatto Quotidiano”, l’8 aprile 2014, è “de minimis non curat praetor”, ”l pretore non si occupa di cose di poco conto. I dati dei Bollettini trimestrali del Tesoro mostrano che il debito in valuta estera è di circa il 3 %: “una sua rivalutazione del 30% equivarrebbe quindi a una rivalutazione dello 0.9% del debito complessivo”.
Come sottolineato anche da Sapir, per il caso francese, e da Bagnai – nell’articolo ‘A rata der mutuo, pubblicato sul sito “Goofynomics” il 29 settembre 2012 – rispetto alla situazione dell’ordinamento italiano, in caso di un’implosione dell’eurozona, cioè nel caso in cui l’euro non avesse più corso legale al tempo del pagamento, si applicherebbe l’art. 1277 del Codice Civile (debito di somma di danaro) – disponibile sul sito web “Brocardi” – che prevede che “i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima”, con un rapporto di cambio identificato nel changeover in uscita. Analizzare il caso, peraltro decisamente improbabile, di un’uscita dell’Italia dall’euro, ma senza implosione dell’eurozona, che sarebbe regolato dall’art. 1278 del Codice Civile (Debito di somma di monete non aventi corso legale), disponibile sul sito web “Brocardi”, sarebbe inconcludente perché non apporterebbe cambiamenti sostanziali all’argomentazione esposta da Giacché nel sopra citato articolo A quali condizioni può sopravvivere l’Euro? Un’ipotesi da non esorcizzare, pubblicato su “Sinistra in rete” il 16 novembre 2014. L’autore infatti evidenzia che: “nel caso di un’uscita dall’euro, la valuta sarebbe convertita in neo-lira alla pari (ossia secondo un rapporto 1 a 1) e la nostra moneta nazionale diventerebbe la neo-lira. Quindi, nel caso di un passaggio dall’euro alla neo-lira, tutti i contratti sarebbero ridenominati nella nuova valuta. Subito dopo la neo-lira svaluterebbe”. Questa situazione permetterebbe allo Stato italiano di non dover sostenere un maggior onere di costi, mentre i possessori dei Titoli di Stato assisterebbero alla diminuzione del valore di questi ultimi.
Ma per i possessori dei Titoli di Stato si avrebbero conseguenze diverse. Nota Giacché che “per il cittadino italiano che possiede un BTP e che vive in Italia (ricevendo lo stipendio in neo-lira e usando la neo-lira per comprare quello che gli serve) la cosa sarebbe indifferente; non è così per il cittadino – poniamo – tedesco: per quest’ultimo, la cui valuta nazionale (euro o neo-marco) varrebbe adesso di più della neo-lira, il valore ricevuto dallo Stato italiano alla scadenza del suo BTP rappresenterebbe effettivamente una perdita secca”, senza compensazione di alcun genere. La perdita per i possessori esteri dei Titoli di Stato italiani sarebbe correlata alla svalutazione. “Lo stesso discorso vale per le banche, che sono i principali detentori del debito pubblico: quelle straniere risulterebbero più penalizzate di quelle italiane”.
Giacché riconosce il fattore negativo di tale scenario: “per le nuove emissioni di titoli di Stato i rendimenti offerti dovrebbero essere superiori, per invogliare gli investitori stranieri a comprarli. Di fatto il costo del nuovo debito aumenterebbe”. Tuttavia, questo lato negativo, più che essere ingigantito, deve, secondo l’opinione di Giacché, essere confrontato con i fattori positivi legati all’uscita dall’euro, che sono individuati sia nel rientro di 58 miliardi di euro versati nel Fondo Salva-Stati, sia in una moderata inflazione che “diminuirebbe il valore reale del debito esistente”.
Anche il movimento no Euro riprende l’argomentazione relativa alla Lex Monetae per allontanare lo spettro del default: “L’Italia, in quanto Stato sovrano, può decidere in quale valuta denominare i rapporti di debito e credito e questo vale anche per il debito pubblico. Ciò significa che chi possiede un Btp per 10,000 euro, sia un cittadino italiano o di un altro Paese, si troverà con un Btp per 10,000 nuove lire. Dunque per il creditore interno, questo non cambia molto, mentre per il creditore estero, il valore del suo btp perdera’ un valore derivato dalla svalutazione della nuova lira nei confronti della valuta del suo paese” (Movimento per l’Uscita dall’Euro, Cosa succede al debito pubblico in caso di uscita dall’euro?, “noeuro.org”, tratto da Alberto Bagnai, Il tramonto dell'euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur, 2012, consultato il 13 febbraio 2017). Il caso dell’Argentina, considerata come esempio negativo del cambio di moneta, si differenzierebbe da quello dell’Italia. Infatti, il debito argentino “era definito in dollari e regolato da norme di diritto anglosassone quindi non poteva applicare il principio Lex monetae come potrebbe fare l’Italia” (Ibidem). Oltretutto, sarebbe davvero così drammatico un eventuale default? Il giornalista Mario Giordano si chiede se sia davvero possibile pagare il debito pubblico italiano, che continua ad aumentare: “D’altro canto, è noto l’esempio di Stati che sono andati in default, come è accaduto all’Uruguay nel 2003, salvo essere riammessi nel giro di pochi mesi, e con tutti gli onori, sui mercati internazionali” (Mario Giordano, Non vale una lira, Mondadori, 2014). In ogni caso, uno dei principali economisti anti-euro, il professor Alberto Bagnai, reputa la bancarotta, anche parziale, dell’Italia come “estremamente improbabile”. Giordano sostiene che “bisogna paragonare i rischi dell’uscita dall’euro all’attuale situazione: bisogna paragonare i rischi che si corrono uscendo dall’euro con i rischi che si corrono rimanendo” (Ibidem).
Anche Alberto Bagnai, professore associato di Politica Economica all'Università “G. d'Annunzio” di Chieti-Pescara, nell'articolo Uscita dall'euro: quelli che 'la benzina andrebbe a 3000 lire', pubblicato il 6 gennaio 2015 sul sito del “Fatto Quotidiano”, concorda con la posizione sopra espressa da Giacché: “l’uscita da un’Unione monetaria avviene con un cambio uno a uno: è stato così nel caso della Repubblica Ceca, è stato così nel caso della Russia, è stato così nel caso della Yugoslavia, è stato così un sacco di volte. Il superamento dell’euro avverrà quindi verso una lira “pesante”, che all’atto dell’uscita avrà cambio uno a uno sia rispetto all’euro (se esisterà ancora), sia rispetto alle valute degli altri ex-membri della zona euro. Poi saranno mercato e banche centrali a guidare i cambi verso i nuovi valori reciproci, aggiustando la competitività di prezzo fra paesi. Ma all’interno di ogni paese cambierà solo la denominazione della valuta: ai cartellini dei prezzi non verranno aggiunti né sottratti zeri, né fatte altre operazioni astruse. Non è un ritorno alla vecchia lira: è un superamento del vecchio (e pericoloso) euro”.
Della stessa opinione di Bagnai è l'economista francese Jacques Sapir, che, sul suo blog russeurope.hypotheses.org, l'8 novembre 2014, pubblica un articolo - Les conséquences d’une sortie de l’Euro – nel quale, soffermandosi sulle conseguenze finanziarie di un uscita della Francia dall'euro, afferma: “i risparmi dei francesi depositati nelle banche e nelle istituzioni finanziarie francesi non conoscerebbero nessun cambiamento, perché nel caso di un'uscita dall'euro tutti i conti sarebbero immediatamente ri-denominati in 'franchi'. Coloro che sostengono che uscire dall'euro porterebbe ad una svalutazione dei risparmi dei francesi semplicemente non sanno di cosa stanno parlando o mentono sapendo di mentire. […] L'allarmismo sulle implicazioni di un'uscita dall'euro per quel che riguarda i debiti è infondato e riflette sia l'ignoranza di coloro che lo alimentano sia il desiderio di creare un effetto panico”.

Sul versante “politico” simili analisi sono state proposte dal Movimento cinque stelle. In un materiale, liberamente scaricabile dal blog di Beppe Grillo, predisposto dal movimento per l'attività di comunicazione politica degli attivisti, intitolato Le sette paure infondate sull'uscita dall'euro, alcuni punti, di seguito elencati e citati, relativi ai mutui, al conto corrente, ai titoli di Stato, in generale al “passaggio dall'euro alla lira”, si richiamano allo schema argomentativo fondato sul principio giuridico, espresso nell'ordinamento italiano del Codice Civile, della lex monatae, secondo cui i contratti di debito stipulati secondo la legge italiana devono essere pagati in moneta nazionale. Da tale principio si deduce che, in caso di uscita dall'euro, la valuta viene convertita in neo-lira secondo un rapporto di 1 a 1; tutti i contratti vengono ridenominati nella nuova valuta e subito dopo la neo-lira si svaluterebbe.
Il Movimento Cinque Stelle trae le conseguenze pratiche di tale argomentazione quando nel manifesto succitato afferma: “I mutui verranno convertiti nella nuova valuta il giorno di uscita dall’euro. Per chi ha il tasso variabile questo rimarrà comunque legato all’euribor e quindi stabile. Sul fronte dei mutui gli italiani ne beneficeranno”.
“Il conto corrente in euro verrà convertito nella nuova valuta. Ma così come oggi uno può tenere conti in valute diverse nel suo conto in banca, la stessa cosa potrà fare dopo l’uscita dall’euro, tenendo conti in dollari, euro, sterline, franchi e nuova valuta”.
“I titoli di Stato italiani saranno convertiti per il 95% nella nuova valuta (dato che per il 95% sono emessi sotto legislazione italiana e per cui ereditano la valuta nazionale). Lo Stato li pagherà e li emetterà nella nuova valuta. Visti i bassi rendimenti e l’alto rischio già oggi i titoli di Stato italiano non sono convenienti per il cittadino italiano”.
“Il cambio probabilmente sarà 1 a 1 con la nuova valuta che poi si svaluterà un po’. L’effetto sui prezzi farà si che da subito probabilmente rimarranno uguali a quelli che vediamo oggi semplicemente denominati nella nuova valuta”.

 

Il nemico del debito pubblico non è la svalutazione ma la deflazione

Il secondo argomento portato da Giacché a sostegno della tesi secondo cui l’uscita dell’Italia dall’euro non comporterebbe una forte e improvvisa crescita del debito pubblico si fonda sull’idea secondo cui “il vero nemico della sostenibilità del debito pubblico non è la svalutazione ma la deflazione”, che aumenta il valore reale del debito esistente. Il rialzo dei prezzi, e la conseguente diminuzione del potere d’acquisto della moneta, opera in modo tale da privare il creditore di una quota di valore che gli appartiene a vantaggio del debitore. La diminuzione dei prezzi, con conseguente aumento del potere d’acquisto della moneta, opera in modo contrario: priva il debitore di una quota del valore che gli appartiene a vantaggio del creditore.
Giacché sostiene sia che il “rischio” deflazione in Europa è una “possibilità reale” (prova ne è la politica monetaria in chiave antideflattiva della BCE) – riduzione dei tassi d’interesse – sia che alcune regioni periferiche (tra cui anche Länder tedeschi) sono, di fatto, già in deflazione, deflazione che è accentuata dalle misure di austerity ( A quali condizioni può sopravvivere l’euro?...cit.).
Della stessa opinione è anche il celebre economista, premio Nobel, Paul Krugman, che dalle pagine del proprio blog, in un articolo del 19 aprile 2014 intitolato European Debt Deflation, scrive: “La bassa inflazione è un problema molto più grande rispetto a ciò che suggerisce il numero complessivo, proprio perché è concentrata nelle nazioni debitrici e rappresenta quindi l’imposizione di un onere maggiore ai debitori rispetto a ciò che il numero complessivo rivela” (TdR).
Ancora, Luigi Zingales nel libro Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire (Rizzoli, 2014) scrive: “Rinunciare alla sovranità monetaria non significa necessariamente accettare la deflazione. Ma senza detenere il controllo della propria moneta, un paese è più a rischio, soprattutto se la moneta comune è pesantemente influenzata da chi ha tutto da guadagnare da una deflazione”.
Ambrose Evans-Pritchard, editorialista anti-europeista del quotidiano inglese “Telegraph”, constata che l’Italia è ancora bloccata tra debito pubblico e deflazione: “e sta ancora lottando contro una crisi delle banche che non può combattere con i limiti paralizzanti dell’unione monetaria” (Telegraph: “Italia deve scegliere tra l’euro e la sopravvivenza. Renzi mandi l’Europa all’inferno se non vuole il default”, “Il Fatto Quotidiano”, 13 maggio 2016). L’Italia quindi deve scegliere, secondo Evans-Pritchard “tra l’euro e la sua sopravvivenza economica” (Ibidem).
Alcune prese di posizione prima espresse da Giacché possono essere rintracciate nella seguente affermazione dell’economista e filosofo francese Frédéric Lordon, contenuta nell’articolo Sortir de l’euro ?, pubblicato su “Le Monde Diplomatique” nell’agosto 2013: “Quanto all’inflazione, che richiederebbe di preferire il primo tipo di aggiustamento al secondo, è un ectoplasma in un periodo dove la minaccia più forte è data dalla deflazione (l’abbassamento del livello generale dei prezzi), che è almeno altrettanto pericolosa, e che richiederebbe nei fatti una reflazione controllata, non fosse altro che per alleggerire il peso reale del debito. Ma questo effetto di alleggerimento reale non sarebbe forse dominato dall’incremento del nostro debito esterno per via della svalutazione stessa? Svalutare del 10% contro il dollaro equivale automaticamente ad appesantire del 10% il nostro debito denominato in dollari. Salvo che, come ha dimostralo Jacques Sapir, l’85% del debito francese è stato emesso con contratto di diritto francese e sarebbe ridenominato in euro-franchi, di conseguenza senza alcun effetto in seguito a una svalutazione” (TdR).

Sul versante politico, opinioni simili sugli effetti positivi di una moderata inflazione sono state espresse dal Movimento Cinque Stelle, nel documento, sopra citato, intitolato Le sette paure infondate sull'uscita dall'euro. Al secondo punto, infatti, si afferma: “Se pensiamo che i beni che vogliamo comprare scenderanno di prezzo non spendiamo e l’economia si ferma. Questo succede oggi con la deflazione. Un po’ di inflazione è quindi necessaria a far girare l’economia. Dall’altro lato non deve essere troppo alta per non svalutare la nostra capacità di spesa. Questo non succederà perché i prodotti italiani diventeranno più competitivi rispetto agli esteri”.
Sempre in relazione alla relazione tra uscita dall’euro e debito pubblico è sicuramente interessante l’affermazione di Guido Tabellini, economista ed ex rettore dell’Università “Bocconi”. In un convegno organizzato a Milano dalla società di gestione del risparmio AcomeA e dalla Fondazione “Corriere della Sera”, Tabellini ha dichiarato come entrare nell’euro fu un errore e in caso di nuova crisi “piuttosto che dover negoziare il debito sarebbe preferibile sganciarsi”.

 

Debito pubblico italiano con o senza moneta unica

Tra le posizioni di coloro che sono favorevoli all’uscita dall’euro, si riporta la simulazione condotta dal sito “Scenari economici” e riportata nell’articolo Esclusiva Analisi: simulazione di cosa accadrebbe con e senza euro, pubblicato il 17 giugno 2013, in merito al debito pubblico in caso di uscita o meno dell’Italia dall’euro partendo da alcune ipotesi fissate. Nell’analisi della simulazione si può leggere: “Col mantenimento dell’euro la Germania migliorerebbe il debito al 76%, senza andrebbe al 90%. Situazione opposta per l’Italia: con l’euro siamo sul 130%, senza andrem[m]o al 117% e trend calante”. Da ciò si evince, secondo i fautori dell’uscita dall’euro, che le politiche europee perseguono come obiettivo quello di difendere gli interessi dei creditori (Germania su tutti) contro quelli dei debitori.
Anche uno studio di Mediobanca svelato da “Il Giornale” parla dei vantaggi per il nostro debito pubblico derivante dall’uscita dall’euro: “La finanza si prepara a ItalExit, o almeno tiene in forte considerazione l'uscita del nostro Paese dall'euro. Mentre la politica ha confinato a movimenti politici che vengono definiti populisti, la questione dell'uscita dall'euro, nei salotti che contano si fanno già le simulazioni su quanto ci verrebbe a costare” (Nicola Porro, Col paese fuori dall’euro si risparmiano 8 miliardi, “Il Giornale”, 27 gennaio 2017). Negli ultimi quindici anni l’Italia ha avuto sempre (escludendo il 2009) l’avanzo primario maggiore d’Europa ma nonostante ciò il debito non cala. La causa principale è l’ammontare degli interessi sul debito e la bassa crescita economica. Il PIL non cresce “schiacciato dall'austerità e dalla moneta unica rivalutata” (Ibidem), e quindi la rinegoziazione del debito potrebbe rendersi inevitabile. Si rischierebbe però il panico sui mercati e l’Italia potrebbe pensare ad una Italexit. “Il passaggio dall'euro alla lira ci farebbe subito avere un risparmio di 8 miliardi. Ma […] più passa il tempo e più si devono emettere nuovi titoli del debito pubblico (soggetti ai Cac) che non si potranno convertire in lire, e dunque ogni mese si erode il vantaggio di convertire il debito da euro in lire. Se questa operazione l'avessimo fatta nel 2013 avremmo avuto un vantaggio finanziario di 285 miliardi, oggi solo otto, nel 2017 saremmo in perdita” (Ibidem). Sul versante tedesco, l’economista tedesco Clement Fuest, presidente dell’Istituto IFO di Monaco, non considera tabù un’eventuale Italexit (Federico Fubini, Fuest: “Se l’Italia non cresce, valuti l’uscita dall’euro Berlino è preoccupata”, “Corriere della Sera”, 16 dicembre 2016). Intervistato dal “Corriere della Sera”, Fuest crede che se l’Italia lasciasse l’euro, si verificherebbe una crisi, che però sarebbe preferibile ad una stagnazione permanente: “C’è anche la preoccupazione che, se l’Italia avesse bisogno di finanziamenti dall’esterno, altri Paesi dovrebbero sopportare il costo del debito italiano. Come per la Grecia” (Ibidem), osserva Fuest. Anche dal World Economic Forum di Davos ci si prepara ad un eventuale rottura dell’Eurozona: “L’atteggiamento da Armageddon riguardo la Brexit e l’Eurozona è davvero infondato”, afferma uno dei banchieri presenti al World Economic Forum di Davos al “Financial Times” (Martin, Arnold, Bankers prepare for eurozone break-up risk, “Financial Times”, 20 gennaio 2017).

 

Uscita dall’euro come ripudio del proprio debito

Nell’articolo Le conseguenze di un ripudio. Del debito, pubblicato su “La Voce” il 16 maggio 2014, Francesco Lippi e Fabiano Schivardi affrontano il tema delle conseguenze che l’uscita dall’euro avrebbe sul debito pubblico italiano, laddove la stessa uscita dall’euro viene equiparata ad una sorta di “ripudio”, di disconoscimento del proprio debito.
L’argomentazione di Lippi e Schivardi parte dalla constatazione del fatto che “Tra gli oneri che gravano sul nostro sistema economico spicca l’elevato livello di debito pubblico, al di sopra del 130 per cento del PIL. Alti costi di servizio del debito si riflettono in alta tassazione, con conseguenze negative sull’attività economica. Senza una forte crescita del PIL, ridurre l’onere del debito è difficile”.

 

O ridurre le spese o dichiarare fallimento

Il secondo passo dell’argomentazione è quello di individuare due modalità, dunque di porre sostanzialmente un’alternativa, attraverso le quali ci si può tirare fuori dalla situazione di debitore: la prima è “ridurre” le spese, la seconda è dichiarare fallimento, ossia rifiutarsi di pagare il debito contratto. Lippi e Schiavardi non mancano di sottolineare che “il ripudio del debito si è verificato molte volte nella storia, generalmente con costi notevoli”.

 

Default = impoverimento 

Successivamente si argomenta che in caso di default del debito sovrano, i detentori del debito pubblico italiano (intermediari finanziari 35%, famiglie italiane 13%, investitori esteri 30%, BCE e Banca d’Italia 10%) subirebbero “consistenti perdite in conto capitale”: secondo gli autori, ciò significa “impoverire una parte importante dell’economia italiana, come le famiglie e gli intermediari finanziari”, presso i quali, le famiglie “detengono la loro ricchezza finanziaria, e se falliscono ‘le banche’ […] spariscono gran parte dei loro risparmi e di quelli delle imprese”, con conseguenze quali “il collasso del sistema finanziario” e una forte caduta del PIL.

 

Sostanziale similitudine tra monetizzazione del debito e default

Prima di dedurre che l’unica modalità per superare la crisi del debito deve essere quella di “ridurre la spesa”, i due autori si avviano a discutere quella “terza via” che “molti commentatori a favore dell’uscita dall’euro prospettano”, via che è “preclusa dalla partecipazione all’euro, in quanto la politica monetaria è decisa dalla BCE”.
La tesi di fondo del contributo di Lippi e Schivardi è espressa nella seguente citazione: “Nemmeno riacquistando la ‘sovranità monetaria’ ci riapproprieremmo della possibilità di monetizzare il debito, perché è denominato in euro; ridenominarlo forzosamente in nuove lire (svalutate) equivarrebbe a dichiarare un default sulle obbligazioni precedentemente contratte. Ma anche qualora si riuscisse a monetizzare il debito in euro (per esempio tramite la BCE) sarebbe illusorio ritenerla una intelligente soluzione al problema: la monetizzazione è una forma di sostanziale ripudio e con esso condivide gran parte dei costi”.
Dato che monetizzare il debito equivale a ripagare il debito in scadenza “stampando moneta”, l’ipotesi degli autori è che “se il debito venisse monetizzato completamente, ciò porterebbe nel giro di circa sei anni ad aumentare di circa 10 volte la base monetaria: un aumento vicino al 1.000 per cento in sei anni, intorno al 45 per cento all’anno”. Da questo ragionamento si concluderebbe che “l’enorme aumento della massa monetaria condurrebbe a un proporzionale aumento dei prezzi”. La monetizzazione del debito equivarrebbe dunque ad un aumento dell’inflazione.
E poiché “la monetizzazione è una forma sostanziale di ripudio” del debito, i due autori affermano che “una riduzione sostanziale del valore del debito attraverso la monetizzazione avrebbe effetti sull’economia simili a quelli di un default: forti perdite in conto capitale per tutti i detentori di debito pubblico. […] riduzione della ricchezza dei cittadini, crisi finanziaria, prolungato periodo di stagnazione”.

 

Differenze tra monetizzazione e default

In seguito, evidenziate le similitudini “sostanziali” tra monetizzazione del debito e default del debito, Lippi – Schivardi elencano anche le differenze tra monetizzazione e default: “mentre il default colpisce in prima battuta solo i titolari di debito pubblico, un tasso di inflazione elevato influenza una platea molto più vasta di cittadini. L’inflazione modifica il valore di tutti i contratti di debito stipulati in termini nominali, inclusi quelli fra privati, trasferendo ricchezza dai creditori (che vedono ridursi il valore dei propri crediti) ai debitori.” […], in mancanza di un meccanismo di indicizzazione dei redditi, l’inflazione attacca direttamente tutti i percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati, ad esempio)”.

 

Pensare che uscire dall’euro apra una strada in discesa per ridurre l’onere del debito pubblico è illusorio

Dunque – dopo aver mostrato: a) che una situazione debitoria può essere superata o riducendo le spese o dichiarando default; b) le conseguenze negative che il “ripudio” del debito comporterebbe; c) la “sostanziale assimilazione” della monetizzazione al default – Lippi e Schivardi concludono così il loro articolo: “il livello elevato del debito pubblico di molti paesi sviluppati rischia di diventare insostenibile se la crescita del PIL non aumenta. Ridurre l’onere del debito attraverso operazioni straordinarie può diventare una necessità. Non esistono purtroppo scappatoie indolori. Pensare che uscire dall’euro apra una strada in discesa per ridurre l’onere del debito pubblico è illusorio. Sia il default che la monetizzazione avrebbero pesanti conseguenze reali, causando una recessione prolungata. Il default avrebbe poi importanti effetti redistributivi fra lo Stato e i detentori del debito (i risparmiatori), mentre una monetizzazione li estenderebbe a tutti i rapporti debitori aventi natura nominale”.

 

Debiti in euro su mercati internazionali

L'economista tedesco, componente del Consiglio tedesco di esperti per la valutazione dello sviluppo macroeconomico, direttore dell'Istituto "Walter Eucken" di Friburgo, Lars Feld (eletto dal quotidiano “Frankfurter Allgemeine Zeitung” 'l'economista più influente della Germania'), secondo quanto riportato il 7 dicembre 2014 dall'agenzia Ansa nell'articolo 'Saggio' dell'economia tedesca avverte: un disastro per l'Italia uscire dall'euro, ha affermato che un'eventuale uscita dell'Italia dall'euro avrebbe “effetti disastrosi”: “Innanzitutto ci sarebbero ingenti turbolenze sui mercati finanziari. L'Italia è uno dei più grandi 'fornitori' di titoli di Stato sul mercato internazionale”. In secondo luogo, “tutte le relazioni economiche transfrontaliere instaurate negli ultimi anni in Europa sono in euro” e “dalla rinegoziazione dei contratti nella nuova valuta più debole potrebbero aversi crolli molto grandi del prodotto interno lordo”, che “spingerebbe la disoccupazione ancora più in alto di quanto non sia”.
Forti perplessità sulle conseguenze di un’uscita dall’euro sono state segnalate nell’articolo di Andrea Telara Uscita dall’euro: perché ci renderebbe più poveri, pubblicato su “Panorama” il 6 maggio 2014: “Attualmente, il debito pubblico italiano è completamente denominato in euro. Cosa accadrebbe se il nostro paese abbandonasse la moneta unica? C’è chi dice che l’Italia, essendo uno Stato sovrano, avrà la piena facoltà di convertire l’intero debito in una nuova divisa svalutata (lex monetae). Bisogna calcolare, però, quali sarebbero le ripercussioni a livello internazionale di questa decisione, visto che una parte del nostro debito è detenuto da stranieri, che certo non digerirebbero volentieri una decisione di questo tipo. Inoltre, un interrogativo è d’obbligo: cosa accadrebbe invece ai debiti in euro, contratti dalle banche italiane e dalle imprese private sui mercati internazionali? Nel caso adottassimo una moneta svalutata, c’è il rischio concreto che molte aziende indebitate si trovino a dover affrontare oneri maggiori”.
L’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco sottolinea come il debito pubblico italiano non potrebbe essere interamente convertito in lire svalutate, in caso di uscita dall’euro dell’Italia. Benché detenuto in maggioranza da italiani, il debito pubblico dovrà comunque essere parzialmente rimborsato in euro, cioè una moneta molto più forte rispetto ad un’eventuale neo-lira. Infatti, “nel 2012 in occasione della costituzione del ESM gli stati membri dell’eurogruppo hanno concordato che una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, possa essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori. Si tratta per l’Italia di oltre 400 mld di euro, ai quali si devono aggiungere i 140 mld che la Banca d’Italia acquisterà con i finanziamenti QE da parte della BCE che saranno per definizione di diritto estero. Ne deriva che in caso di uscita dall’euro una quota molto rilevante del debito pubblico italiano dovrebbe comunque essere rimborsata in una valuta di valore considerevolmente superiore (30%?, 50%?) alla nuova lira. Il default sarebbe quindi pressoché inevitabile” (Vincenzo Visco, Fuori dall’Euro?, “Economia e Politica”, 23 marzo 2015). Oltre al default, l’abbandono della moneta unica significherebbe anche la perdita di sostegno della BCE. Anche l’euro si è svalutato nel corso degli anni, ma svalutare non è come cambiare valuta. Massimo Florio, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Milano, afferma che “Cambiare valuta è come un prestito denominato in oro e restituito in rame. Nel momento in cui Italia (o Grecia) si accingessero a ripudiare il debito pubblico (e privato), si creerebbero tre effetti istantanei: si sarebbe di fatto introdotta una imposta patrimoniale alla cieca sui risparmiatori interni, senza poterne distinguere la posizione sotto il profilo distributivo; si romperebbe il contratto con i creditori esterni e si chiuderebbe quindi di colpo l’accesso ai mercati finanziari internazionali” (Massimo Florio, Lezione di greco? Euro, debito pubblico e conflitto sociale, “Economia e Politica”, 15 febbraio 2016).

Anche il professore di Economia Politica Angelo Baglioni nega che possa corrispondere al vero la tesi secondo cui la conversione dei titoli pubblici nella nuova lira, svalutata, alleggerirebbe il peso del debito pubblico ed esprime, inoltre, alcune obiezioni alla tesi secondo cui qualora la politica monetaria tornasse nelle mani della Banca d’Italia, ciò consentirebbe di “monetizzare” il debito pubblico. Scrive infatti Baglioni nell’articolo Uscire dall’euro? No, grazie, pubblicato su “La Voce” il 4 aprile 2014: “Nell’ipotesi migliore, quella in cui tutto il bilancio pubblico venga ridenominato nella nuova lira, l’operazione sarebbe neutrale: tutte le entrate e le uscite del settore pubblico sarebbero in lire; in particolare, teniamo presente che tutti i redditi e i patrimoni, che sono la base imponibile che fornisce il gettito fiscale necessario per ripagare il debito, sarebbero in lire. Nell’ipotesi peggiore, in cui alcuni titoli di Stato (emessi sui mercati internazionali) non possano essere ridenominati, il peso del debito pubblico aumenterebbe, perché parte di esso resterebbe in euro e si rivaluterebbe rispetto alla nuova lira (in pratica sarebbe un debito in valuta estera, destinata a rivalutarsi rispetto alla valuta nazionale). In aggiunta, questo problema riguarderebbe tutti i soggetti (imprese e banche), che hanno debiti verso soggetti esteri: il contenzioso sarebbe enorme, e in caso di esito sfavorevole alcuni di loro potrebbero ritrovarsi con un debito in valuta estera rivalutata, con un danno economico potenzialmente notevole”.

 

Controindicazioni della monetizzazione del debito

Aggiunge poi Baglioni: “È vero che ci riprenderemmo la sovranità monetaria, e che la nostra banca centrale potrebbe comprare titoli pubblici, comprimendo così il costo del servizio del debito. È anche vero però che se la Banca d’Italia non fosse d’accordo con questa linea di intervento, il governo dovrebbe imporsi su di essa, limitandone fortemente l’autonomia, valore ritenuto da tutti importante per una banca centrale. Ma, soprattutto, la soluzione della monetizzazione ha almeno due controindicazioni. 1) L’aumento della quantità di moneta finisce prima o poi per esercitare una pressione inflazionistica: non è un problema attuale, ma potrebbe esserlo in futuro, soprattutto in uno scenario di spirale svalutazione-inflazione. 2) La ‘valvola di sfogo’ della monetizzazione ha un ovvio effetto di azzardo morale: quale governo sarebbe indotto a tenere sotto controllo i conti pubblici, se sa che può sempre imporre alla banca centrale di comprarsi i titoli del debito pubblico? Al di là di queste obiezioni, bisogna ricordare che l’acquisto di titoli pubblici (sul mercato secondario) è già attualmente previsto tra gli strumenti a disposizione della BCE (con il programma OMT), ed è già stato attuato, seppure in misura molto limitata (con le operazioni del SMP). Tuttavia, su questo fronte la BCE è costretta a muoversi con molta prudenza, scontrandosi contro la resistenza tedesca. Una delle ragioni di queste tensioni deriva dal fatto che, in caso di intervento, la BCE sarebbe costretta a comprare titoli di Stato di singole nazioni, prestando così il fianco a chi la accusa di favorire alcuni governi (altamente indebitati). L’azione della BCE sarebbe facilitata se esistesse un debito federale (come negli USA), che essa potrebbe acquistare. Ma ciò presuppone un salto di qualità nel processo di integrazione, che ci porti ad avere un bilancio e un debito a livello di federazione europea”.

 

Il passivo dell’Italia verso l’Eurosistema: un conto salato

 “358.600.000.000. Euro più, euro meno è questo il conto che potrebbe essere presentato all' Italia il giorno in cui il Bel Paese decidesse di uscire dal sistema della moneta unica” (Ugo Bertone, Mario Draghi ci chiede il riscatto: quanto costa uscire dall’euro, “Libero”, 24 gennaio 2017). Infatti, a questa cifra ammonta il passivo dell’Italia verso l’Eurosistema: “Al di là degli acquisti del Qe, il passivo è legato all' uscita degli investitori esteri dall' Italia, considerata sempre meno affidabile” (Ibidem). Questa stima viene effettuata sulla base del Target 2, ovvero la piattaforma europea per il regolamento dei pagamenti tra banche dell’UE in tempo reale. Il Target 2 di conseguenza registra anche l’afflusso e il deflusso dei capitali da un paese dell’Eurosistema, in questo caso l’Italia è indebitata per circa il 20% del proprio PIL (Draghi spiega come si esce dall’euro: servono 312 miliardi subito, “Keynesblog”, 23 gennaio 2017). Quindi, il superamento in via cooperativa dell’euro con l’appoggio della BCE, suggerito da Stefano Fassina di Sinistra Italiana, non è possibile. Il debito dell’Italia verso la BCE “non può in alcun modo essere ridenominato in lire perché non è sotto diritto nazionale”. “Inoltre dovrà essere estinto prima dell’uscita, perché le banche centrali non partecipanti all’euro (come sarebbe la Banca d’Italia dopo l’Italexit) non possono avere posizioni debitorie verso il sistema” (Ibidem). L’Italia dovrà onorare i propri debiti espressi in euro verso soggetti esteri: “Un terzo del debito pubblico italiano è posseduto da soggetti esteri (ma una parte è in via di assorbimento grazie dal QE. In una trattativa per un’uscita ‘concordata’, l’Italia potrebbe essere costretta ad accettare la non ridenominazione di questi titoli di debito. Questi non andrebbero pagati subito, ma a scadenza. Il Tesoro, che dopo l’uscita tasserebbe i soggetti residenti in lire, dovrebbe quindi procurarsi euro in qualche modo, vedendo così aumentare il peso del debito per l’effetto della svalutazione che, peraltro, aumenterebbe ancora se si decidesse di stampare lire per comprare euro, da usare per rimborsare i debiti (è quello che fece la Repubblica di Weimar, per intenderci) […]Pur supponendo che gli altri paesi europei ci concedano di dilazionare questa montagna di debiti, lo farebbero solo sotto pesantissime condizionalità. Ecco quindi che l’uscita dall’euro ‘assistita dalla BCE’ si tramuterebbe nell’ingresso nei programmi della Troika” (Ibidem).

 

L’opinione di Tito Boeri

Una delle opinioni più autorevoli che sostengono l’inevitabile aumento del debito pubblico in caso di uscita dall’euro dell’Italia è quella dell’economista Tito Boeri. Nell’articolo Quanto costa uscire dall’’euro, pubblicato su “La Repubblica” il 7 aprile 2014 e disponibile on line sul sito di Manuela Ghizzoni, Boeri argomenta innanzitutto che: “c’è una quota di titoli di Stato e di prestiti contratti dallo Stato italiano sui mercati internazionali, che aumenterebbe in proporzione alla svalutazione della lira nei confronti dell’euro e delle monete in cui i nostri titoli sono denominati. La parte restante potrebbe essere ridenominata in lire causando perdite ingenti agli investitori stranieri che hanno nostri titoli in portafoglio. Sarebbe come un ripudio unilaterale del debito, cui seguirebbe inevitabilmente un lungo periodo di chiusura del nostro paese ai mercati internazionali. Questo significa di fatto uno spread che tende all’infinito, un destino paradossale dopo che siamo riusciti a riportare i tassi di interesse sui nostri titoli decennali al minimo storico”. Boeri si esprime poi contro la monetizzazione del debito in questi termini: “Un altro argomento utilizzato dagli anti-euro è che il debito potrebbe essere monetizzato, facendo comprare alla banca centrale, che può stampare moneta, le nuove emissioni di titoli di Stato, sempre che il governatore di Bankitalia si presti a questa politica. Per fortuna abbondiamo di precedenti storici di monetizzazione del debito. Basti pensare ai miniassegni sul finire degli anni Ottanta scambiati in fretta e furia prima che perdessero valore, un surrogato di una moneta che ogni giorno vedeva erodersi il proprio potere d’acquisto, con un’inflazione a due cifre. Certo, quando l’inflazione aumenta, i debitori, tra cui lo Stato italiano, vedono ridursi il valore di quanto devono ripagare. Ma a fronte di questi debitori contenti, ci sono creditori che piangono, famiglie italiane che hanno messo i risparmi in titoli di Stato o in attività che non sono indicizzate all’inflazione e che perderebbero molti soldi. Anche questa, dopotutto, è una tassa, la tassa da inflazione. Ed è utile notare che l’inflazione colpisce sempre le persone più vulnerabili, quelle che non sono in grado di avere redditi indicizzati ai prezzi e che perciò vedono ridursi il loro potere d’acquisto del 10-15% ogni anno, un calo dei redditi reali che non si è visto neanche durante questa interminabile recessione”.

 

Default per le imprese con obbligazioni in euro

Nel suo ultimo libro, Europa o no. Sogno da realizzare o incubo da cui uscire (Rizzoli, 2014), l’economista Luigi Zingales sostiene che le società a partecipazione statale risentirebbero pesantemente di un’uscita non concordata dall’euro: “Su contratti tra italiani in Italia, sottoposti al diritto italiano, il problema è molto semplice: lo Stato italiano ha il diritto di ridenominarli tutti in lire. Potrebbe farlo con un rapporto iniziale di uno a uno, ma poi la lira si svaluterebbe rispetto all’euro di circa il 30%, quindi il valore di questi contratti in euro si ridurrebbe del 30%. La stragrande maggioranza del debito pubblico italiano e del debito delle imprese italiane ha queste caratteristiche. Di conseguenza, un’uscita dall’euro non implicherebbe automaticamente un default. Non tutto il debito delle imprese italiane, però, ha queste caratteristiche. Molte grosse imprese (come Eni, Enel e Telecom) hanno emesso obbligazioni in euro alla borsa di Lussemburgo. In genere queste obbligazioni sono sottoposte al diritto inglese e l’Italia non ha nessun potere su questi contratti, quindi essi rimarrebbero denominati in euro. Per imprese con questo tipo di contratti ma con la maggior parte del fatturato generato in Italia (e quindi ridenominato in lire), l’uscita dall’euro significherebbe probabilmente il default”.
Anche uno studio della USB investment research, dal titolo Euro break-up – the consequences (pp.7-8), pubblicato il 6 settembre 2011 e disponibile on line sul sito “London Business School”, sottolinea le difficoltà delle aziende a dover ripagare il debito in valuta estera: “Se un paese sceglie di lasciare l’euro, ha essenzialmente due scelte per quanto riguarda il proprio debito sovrano nazionale. La prima è lasciare il debito sovrano così com’è, vale a dire denominato in euro. Il problema di questo approccio è che l’intero debito è poi denominato in una valuta straniera, sopra la quale la nuova valuta nazionale del paese non ha potere di tassazione. Il solo modo che permetterebbe di guadagnare sarebbe il commercio, che rischia di essere ostacolato significativamente, e così il default sul debito pubblico denominato in euro sarebbe quasi certo. La seconda e più probabile opzione è la conversione forzata del debito denominato in euro in un debito denominato nella nuova valuta nazionale. Agli occhi di molti investitori questo costituirebbe un default. Il default sul debito sovrano – in entrambi gli esempi – genererebbe costi economici durevoli come l’aumento del costo a lungo termine del capitale per il governo. Comunque, dentro o fuori l’euro, alcuni paesi hanno probabilità di default. L’incremento del costo del debito sovrano associato con un default potrebbe facilmente avvenire con l’euro in circolazione (i mercati obbligazionari già prezzano il debito greco come se fosse in default). Ciò che rende l’uscita dall’euro più costosa è il fatto che così come il default sovrano, vi è anche la possibilità che vi siano default aziendali. Il costo internazionale del capitale per le aziende locali è suscettibile di essere influenzato non solo a causa del ‘limite sovrano’ (le aziende raramente hanno rating più alti rispetto ai governi nazionali) ma anche a causa della natura del default. Se il governo sta cambiando la valuta del paese, forzerà il cambio sul settore delle aziende nazionali, che condivideranno così il default del governo. Anche se non vi è alcuna costrizione, un’azienda nazionale che guadagna ricavi nella nuova valuta nazionale avrà problemi per saldare i debiti con le banche estere. L’uscita dall’euro non si potrà ottenere con una piccola svalutazione della nuova valuta nazionale. L’idea che un adeguamento del 10% o del 20% sia tutto ciò che è richiesto è pura fantasia. Dobbiamo supporre che la valuta sia corrotta in un processo […] o, se il suo valore ufficiale è mantenuto, questo è raggiunto attraverso un estremo controllo sui capitali (che rendono in modo efficace la moneta non convertibile). Il rublo dell’Unione Sovietica può fornire un precedente. In entrambi i casi, le aziende avranno dei problemi per soddisfare i loro vincoli non nazionali” (TdR).

 

L’effetto contagio

Nel libro La Battaglia contro l’Europa di Guido Iodice e Thomas Fazi, i due autori contestano fortemente la politica di austerità a livello europeo che ha portato all’ascesa di logiche nazionalistiche e populiste, ritenendo però che l’abbandono dell’euro non sia la vera via d’uscita dalla crisi (Guido Iodice, Thomas Fazi, La Battaglia contro l’Europa, Fazi Editore, 2016). Se l’Italia o la Spagna lasciassero l’Eurozona, si creerebbe un effetto contagio sull’intero sistema bancario del vecchio continente. Si creerebbe il panico sui mercati europei, fortemente interconnessi tra loro. Per la BCE sarebbe difficile fermare la dissoluzione dell’Eurozona, e si rischierebbe così una “Lehman Brothers al quadrato”, per cui il fallimento di una sola banca trascinò in una lunga recessione l’intero sistema economico mondiale. L’Eurozona costituisce il 20% del PIL mondiale, “l’Euro è la seconda moneta di riserva internazionale: il 25% delle riserve delle banche centrali del mondo è denominato in euro e quasi il 40% degli scambi sui mercati valutari internazionali coinvolge l’euro”. Questo dà una panoramica della rilevanza dell’euro, non paragonabile alle precedenti rotture valutarie che si sono verificate in altre parti del mondo. Lo scenario di dissoluzione dell’Eurozona sarebbe senza precedenti. Una volta uscito un paese dell’Eurozona, i mercati si chiederebbero quale sarà il prossimo, “esattamente come accadde nel 2008 con il mancato salvataggio di Lehman Brothers”. Si potrebbe ripresentare la crisi dei debiti sovrani e il credit crunch. Si scatenerebbe un’ondata di fallimenti a livello globale, poiché il sistema economico è too big e too interconnected. Inoltre, dato che l’uscita dall’Euro non è prevista dai trattati europei, potrebbero aprirsi dei contenziosi legali.

 

Le conseguenze gravi e sistemiche dell’uscita dall’euro

 Certamente la discussione sull’uscita dall’euro è stata riaccesa dalla vittoria della Brexit in Gran Bretagna e dalla vittoria del “no” al referendum costituzionale del dicembre 2016. L’economista Giovanni Siciliano su “lavoce.info” ritiene che sia l’uscita dall’euro della sola Italia, sia l’uscita di vari paesi della periferia dell’UE avrebbe conseguenze gravi e sistemiche: “Ci sarebbe un deflusso di capitali e una corsa agli sportelli per evitare che titoli e depositi vengano convertiti a un tasso di cambio penalizzante rispetto a quello di mercato. Si potrebbero contrastare con limiti ai prelievi, divieto di acquistare attività estere o di rimpatriare i capitali per i non residenti. Ma si tratta di misure radicali difficilmente attuabili, in contrasto con le norme UE sulla libera circolazione dei capitali. L’unica alternativa è quella di introdurre una fase transitoria di doppia circolazione monetaria” (Giovanni Siciliano, Uscita dall’euro? Benvenuti all’inferno, “lavoce.info”, 6 dicembre 2016). Questi fattori devono essere tenuti in considerazione ancor prima dell’analisi dell’inflazione, della bilancia commerciale e dell’occupazione. Trattandosi della dissoluzione della seconda valuta di riserva a livello mondiale, l’impatto iniziale potrebbe essere molto più negativo rispetto alle previsioni. Con la doppia circolazione monetaria transitoria, ipotizzata da Siciliano, depositi e obbligazioni resterebbero denominate in euro, mentre in un secondo conto verrebbero pagati stipendi e pensioni nella nuova valuta: “Questa soluzione evita la corsa agli sportelli, ma trasferisce tutto il rischio di cambio sul sistema bancario (che avrebbe passività in euro e attività convertite in valuta domestica a un cambio potenzialmente penalizzante), con analoghi effetti dirompenti sulla stabilità finanziaria” (Ibidem).
La svalutazione causa perdite agli investitori esteri, “che potrebbero reagire uscendo dal nostro mercato e rendere così difficile il rifinanziamento del debito in scadenza” (Ibidem). Così si accrescerebbe il rischio default, con una conseguente depressione del sistema economico.