Le sanzioni economiche sono un'alternativa efficace all’intervento militare
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Le sanzioni economiche si sono affermate come lo strumento prediletto dalle democrazie occidentali per reagire a crisi internazionali, invasioni, violazioni dei diritti umani e minacce alla sicurezza collettiva. Il loro fascino sta, almeno in apparenza, nella loro promessa: colpire senza uccidere, punire senza invadere, condizionare senza combattere. Ma dietro questa potenza incruenta si cela un dibattito profondo, spesso ideologico, che interroga tanto l’efficacia quanto la legittimità delle sanzioni come vera alternativa all’intervento militare.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Numerose evidenze raccolte nei report indicano che le sanzioni agiscono come deterrente multilivello, limitando l’innovazione militare , logorando l’economia interna e complicando i canali logistici.
Anche quando le sanzioni sono intense, coordinate e prolungate, non garantiscono affatto il risultato atteso.
Le sanzioni economiche, oltre a colpire direttamente l’economia di uno Stato aggressore, generano l’isolamento diplomatico e l'indebolimento delle alleanze strategiche del Paese colpito.
Se è vero che le sanzioni economiche mirano a colpire un Paese aggressore, è altrettanto vero che i loro effetti collaterali si estendono ben oltre i confini dell’obiettivo.
Le sanzioni economiche sono una delle poche strategie che permettono agli Stati democratici di preservare la loro coerenza interna e, al tempo stesso, di esercitare pressione su potenze ostili.
Le democrazie, per evitare i costi della guerra, scelgono le sanzioni come via intermedia, ma finiscono per prolungare i conflitti e rafforzare la posizione dei regimi autoritari.
Le sanzioni sono un deterrente strategico multilivello
Sin dall’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, le sanzioni economiche sono divenute il principale strumento di reazione occidentale contro la Russia. Nonostante le critiche sulla loro efficacia a breve termine, numerose evidenze raccolte nei report recenti indicano che esse agiscono come un efficace deterrente multilivello, limitando l’innovazione militare russa, logorando l’economia interna e complicando i canali logistici del Cremlino.
Il Council on Foreign Relations, ad esempio, pur riconoscendo che il PIL russo è cresciuto del 3,6% nel 2023, evidenzia come questa crescita sia drogata dalla spesa militare e non rappresenti uno sviluppo sostenibile. Allo stesso modo, l’Atlantic Council riporta che il 41% del bilancio federale russo è destinato al settore militare e della sicurezza, una quota insostenibile nel medio periodo che obbliga Mosca a drenare risorse da altri settori vitali come welfare, sanità e innovazione civile.
Le sanzioni, soprattutto quelle mirate a tecnologie dual-use e componenti industriali, hanno avuto effetti sistemici sulla capacità russa di innovazione militare. Secondo “Il Foglio”, attacchi strategici ucraini sostenuti da intelligence occidentale e da un’industria bellica nazionale sempre più efficiente hanno compromesso fino al 34% della capacità missilistica strategica russa. Questo risultato non sarebbe stato possibile senza il soffocamento tecnologico imposto dalle restrizioni occidentali su componenti critici, tra cui microchip, droni, sensori ottici e software industriali.
In parallelo, il blocco delle esportazioni ha colpito pesantemente anche l’apparato logistico russo. Il report de “Il Foglio” del giugno 2025 cita una strategia di “logoramento finanziario” di Mosca basata su sanzioni mirate e controlli sempre più stringenti sui flussi energetici, tra cui proposte statunitensi per dazi fino al 500% su petrolio e gas russi. Inoltre, l’inflazione, in Russia, ha raggiunto il 10% nel 2025, mentre la Banca Centrale ha mantenuto un tasso d’interesse del 21% per contenere la fuga di capitali e il deprezzamento del rublo.
Il Presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa ha dichiarato: “Continuiamo a esercitare pressioni sulla Russia: abbiamo adottato 17 pacchetti di sanzioni e stiamo lavorando al prossimo”. Le sanzioni, dunque, non sono statiche ma dinamiche: si adattano, si estendono, si perfezionano. Proprio questa loro natura evolutiva le rende efficaci a lungo termine, specialmente se coordinate a livello multilaterale come nell’UE, nella NATO e nel G7.
Anche dal punto di vista simbolico e politico, l’uso delle sanzioni ha permesso all’Occidente di mantenere un fronte compatto, senza dover ricorrere a interventi armati diretti. Come pubblicato da Brookings Institution, “le sanzioni rappresentano un’alternativa concreta per ridurre il potenziale bellico russo, senza un’escalation militare”.
Le sanzioni economiche, dunque, hanno dimostrato la loro efficacia come strumento di logoramento progressivo, erodendo le capacità offensive del Cremlino, limitando l’accesso a tecnologia critica e producendo effetti di lungo termine sul sistema economico russo. Non sono una soluzione rapida né definitiva, ma nel contesto di una guerra prolungata, si confermano un pilastro strategico fondamentale per evitare un’escalation militare diretta.
Nina Celli, 2 luglio 2025
Le sanzioni economiche non fermano la guerra: la resilienza russa ne è controprova
Uno degli argomenti più utilizzati a favore delle sanzioni economiche è che esse dovrebbero indurre un cambiamento comportamentale nello Stato colpito. In altre parole, colpendo l’economia si spera di piegare la volontà politica. Tuttavia, il caso russo dimostra che, anche quando le sanzioni sono intense, coordinate e prolungate, non garantiscono affatto il risultato atteso. A oltre tre anni dall’inizio della guerra in Ucraina e dopo l’imposizione di oltre 20.000 misure sanzionatorie, Mosca continua non solo a combattere, ma ad adattarsi, innovare e persino rafforzare alcuni settori strategici.
Il Council on Foreign Relations ha evidenziato che nel 2023, nonostante le sanzioni, il PIL russo è cresciuto del 3,6%, sostenuto da una spesa militare senza precedenti. Questo dato apparentemente controintuitivo è in realtà la prova della resilienza di economie autoritarie che possono reindirizzare le risorse verso settori strategici e usare il controllo statale per neutralizzare gli effetti più evidenti delle sanzioni. Secondo il “Financial Times”, nel 2025 la Russia ha destinato oltre 172 miliardi di dollari alla Difesa (7,7% del PIL), il massimo dalla fine dell’URSS.
Le strategie di elusione delle sanzioni si sono perfezionate. Il report “ISPI” mostra come la Russia abbia usato Paesi intermediari, in particolare in Asia Centrale, per triangolare merci vietate: le importazioni da UE verso Kazakistan, Armenia e Uzbekistan sono cresciute a doppia cifra, così come le loro esportazioni verso la Russia. Si tratta di una forma di adattamento sofisticato, non solo economico ma anche logistico e diplomatico, che rende le sanzioni vulnerabili a manipolazioni e inefficaci nel fermare i conflitti in tempo utile.
Un’altra forma di adattamento riguarda la relocalizzazione industriale e tecnologica. Il sostegno di Cina, Iran e Corea del Nord ha permesso a Mosca di reintegrare mezzi blindati e droni, compensando parte delle perdite sul campo. “Startmag” ha documentato come 20.000 container nordcoreani siano stati consegnati a Mosca con materiali bellici, oltre a 9 milioni di proiettili, mentre la Cina ha aumentato del 30% l’esportazione di microchip e tecnologie dual-use nel 2024. Questo dimostra che, in assenza di un sistema globale di enforcement, le sanzioni non possono isolare un Paese determinato e sostenuto da potenze rivali dell’Occidente.
Anche sul piano interno, la narrazione delle sanzioni come “arma democratica” si scontra con la repressione mediatica e la propaganda di Stato nei regimi autoritari. Il sondaggio del Levada Center (marzo 2025) indica che il 68% dei cittadini russi continua a sostenere la guerra. Questo è possibile grazie alla censura, ma anche grazie a misure compensative: l’aumento dei salari reali e dei contributi alle famiglie dei militari ha rafforzato il consenso interno, vanificando gli effetti disgreganti delle sanzioni economiche. Inoltre, il controllo sull’informazione permette di trasformare le sanzioni in una narrazione di accerchiamento che rafforza il patriottismo e la legittimità del regime.
I risultati delle sanzioni sono chiari: la Russia mantiene ancora capacità offensive elevate, nonostante le perdite. L’operazione ucraina “Spiderweb”, pur avendo colpito 41 aerei strategici, non ha impedito a Mosca di continuare a bombardare con intensità. Le sanzioni, pur indebolendo il sistema industriale, non hanno interrotto la capacità bellica del Cremlino in modo decisivo né hanno costretto Putin a negoziare. Anzi, come conferma “AGI”, le condizioni proposte dalla Russia nel giugno 2025 prevedono concessioni massime da parte di Kyiv e la revoca totale delle sanzioni come primo passo, senza offrire alcuna garanzia in cambio. L’esperienza russa dimostra che le sanzioni economiche, da sole, non fermano una guerra. Possono colpire l’economia, generare effetti collaterali anche gravi, ma non garantiscono un esito politico desiderato. In contesti autoritari, con forti legami internazionali e un’opinione pubblica sotto controllo, esse rischiano di diventare una misura cosmetica, utile solo per salvare la coscienza delle democrazie occidentali, ma inefficace sul piano strategico.
Nina Celli, 2 luglio 2025
Le sanzioni economiche sono una leva diplomatica per isolare l’aggressore
Le sanzioni economiche, oltre a colpire direttamente l’economia di uno Stato aggressore, generano un effetto indiretto ma non meno rilevante: l’isolamento diplomatico e il progressivo indebolimento delle sue alleanze strategiche. In questo senso, le sanzioni diventano uno strumento non solo punitivo, ma anche trasformativo, capace di erodere il capitale politico di un regime ostile e limitarne l’influenza nel sistema internazionale. Un esempio emblematico emerge dal memorandum russo analizzato da “AGI”: Mosca chiede esplicitamente la revoca di tutte le sanzioni ucraine e russe come condizione necessaria per firmare qualsiasi accordo di pace. Questo elemento sottolinea chiaramente il potere negoziale che le sanzioni conferiscono alla parte che le impone: la loro sospensione può diventare merce di scambio, rendendo le sanzioni una leva diplomatica a tutti gli effetti.
Secondo Brookings Institute, il ricorso sempre più strutturato alla cosiddetta “economic statecraft” [diplomazia economica] permette agli Stati Uniti e ai partner europei di perseguire obiettivi strategici comuni senza la necessità di interventi armati, mantenendo la coesione interna e il sostegno dell’opinione pubblica. Questo è particolarmente rilevante nei contesti democratici, dove l’uso della forza militare è sottoposto a forti vincoli etici, politici e parlamentari.
Nel contesto europeo, il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa ha confermato che “abbiamo adottato 17 pacchetti di sanzioni e stiamo lavorando per implementarli ulteriormente”. Questi pacchetti non sono solo misure economiche, ma anche strumenti di coordinamento tra Stati membri, che rafforzano la visione comune della minaccia e stimolano l’integaACrazione politica e strategica.
Le sanzioni, quindi, hanno anche l’effetto di rinsaldare le alleanze. Come evidenziato dal report di “Startmag”, Francia, Germania e Regno Unito hanno risposto al disimpegno americano con un’espansione autonoma dei loro budget per la difesa e con una strategia congiunta di pressione su Mosca. L’adozione di pacchetti sanzionatori condivisi ha anche consolidato il concetto di autonomia strategica europea, un processo che, pur nella sua complessità, si è accelerato proprio grazie al contesto sanzionatorio.
Oltre a rafforzare le alleanze, le sanzioni disincentivano altri potenziali aggressori, creando un precedente visibile e misurabile. Secondo l’analisi de “Il Foglio”, la minaccia di un logoramento economico costante è uno dei fattori che può dissuadere altri attori (come la Cina o l’Iran) dal lanciarsi in operazioni militari unilaterali, consapevoli dell’effetto domino che le sanzioni multilaterali comporterebbero su commercio, finanza e tecnologia.
Non va sottovalutato l’impatto delle sanzioni sull’opinione pubblica interna del paese colpito. La Banca Centrale russa ha mantenuto tassi d’interesse al 21% per controllare un’inflazione oltre il 10%, mentre la previsione è di una contrazione della crescita dal 4% al 1,5% nel 2025. Questi dati si traducono in una pressione costante su famiglie, imprese e istituzioni, alimentando un malcontento sociale che, pur represso, agisce nel lungo periodo come freno politico per i regimi autoritari.
Le sanzioni economiche, quindi, vanno interpretate non come un’alternativa debole alla guerra, ma come uno strumento sofisticato di geopolitica del XXI secolo, capace di agire su molteplici livelli: economico, diplomatico, psicologico e strategico. Il loro potenziale si manifesta soprattutto quando sono coordinate, modulari e flessibili, come dimostrato dalla risposta dell’Occidente alla guerra in Ucraina.
Nina Celli, 2 luglio 2025
Gli effetti collaterali delle sanzioni sono un boomerang sull’economia globale e sull’unità occidentale
Se è vero che le sanzioni economiche mirano a colpire un Paese aggressore, è altrettanto vero che i loro effetti collaterali si estendono ben oltre i confini dell’obiettivo. La narrativa che le presenta come strumenti chirurgici e mirati non regge di fronte all’analisi degli impatti sistemici che esse generano, non solo sull’economia globale, ma anche sul fronte politico interno dei Paesi che le impongono.
Un primo livello di criticità è quello energetico. Le sanzioni sull’energia russa, in particolare petrolio e gas, hanno prodotto un effetto a catena sui mercati globali. Secondo i dati dell’Atlantic Council, l’Europa ha dovuto affrontare ondate inflazionistiche e una crisi dei prezzi energetici che ha messo in difficoltà interi settori industriali. Il gas liquefatto statunitense non è bastato a sostituire interamente le forniture russe e i Paesi più vulnerabili – come Slovacchia e Ungheria – hanno minacciato il veto su alcuni pacchetti sanzionatori, evidenziando le prime crepe nella coesione dell’UE.
Questa tensione è visibile anche nelle dinamiche interne tra alleati occidentali. Secondo l’“ISPI”, il quattordicesimo pacchetto di sanzioni UE è stato oggetto di aspre trattative: alcuni Stati membri temevano contraccolpi sui propri settori strategici, in particolare l’automotive tedesco e la chimica italiana. Inoltre, il fatto che i costi economici non siano distribuiti in modo equo fra i membri UE sta generando una crescente disaffezione verso il principio di solidarietà, rendendo più difficile approvare nuovi pacchetti e indebolendo la leva negoziale comune. Un secondo effetto collaterale è legato all’instabilità delle catene globali del valore. L’articolo di Alex J. Brackett per “Global Investigations Review” evidenzia come le sanzioni, specie quelle legate a export control e componentistica industriale, abbiano rallentato le catene logistiche internazionali, obbligando le aziende a riconfigurare in fretta i propri approvvigionamenti. Questo ha comportato costi enormi in termini di compliance, assicurazione e riconversione tecnologica, colpendo le PMI molto più delle grandi multinazionali.
A livello macroeconomico, il risultato è stato un calo della produttività in molti Paesi europei e un aumento della dipendenza da fornitori extra-europei, come l’India e la Cina, con il paradosso che alcune delle stesse economie che si volevano contenere sono diventate rifornitrici alternative in settori strategici. Il tentativo di colpire Mosca ha finito per ridefinire l’architettura economica globale in modo non sempre favorevole all’Occidente.
Un altro tema spesso sottovalutato riguarda la perdita di attrattività normativa e commerciale dell’Occidente. Secondo il Brookings Institute, molti Paesi emergenti vedono le sanzioni come strumenti imperiali, imposti da una ristretta élite occidentale secondo una logica unilaterale. Questo sta alimentando un “mercato grigio” di relazioni strategiche, dove Stati come la Turchia, il Brasile e persino l’Arabia Saudita scelgono di non allinearsi e di mantenere rapporti commerciali con la Russia. Il risultato è una frattura geopolitica più profonda e una crescente sfiducia verso le istituzioni multilaterali, che vengono viste come estensioni della volontà statunitense o europea.
Le sanzioni hanno anche un prezzo politico interno. Come sottolinea il Cato Institute, l’opinione pubblica americana, già provata da crisi interne e polarizzazione, è sempre meno propensa a sostenere misure che comportano costi economici diffusi senza risultati militari tangibili. Lo stesso vale in Europa, dove i partiti populisti stanno usando le sanzioni come leva elettorale, dipingendole come responsabili di aumenti nei costi dell’energia, del pane e dei trasporti. Il rischio è che, invece di indebolire il nemico, le sanzioni finiscano per corrodere la tenuta politica delle democrazie che le impongono.
Le sanzioni economiche, quindi, non sono prive di costi: possono disarticolare le catene globali del valore, indebolire la coesione tra alleati, rafforzare economie rivali e innescare reazioni politiche interne destabilizzanti. La loro efficacia, per quanto rilevante in alcune aree, deve essere ponderata rispetto a un costo sistemico che, in alcuni casi, può superare i benefici.
Nina Celli, 2 luglio 2025
Sanzioni economiche sono un’alternativa alla militarizzazione del conflitto
In un contesto internazionale sempre più caratterizzato da conflitti ibridi, guerre di logoramento e confronti geopolitici a lungo termine, le sanzioni economiche emergono come una delle poche strategie che permettono agli Stati democratici di preservare la loro coerenza interna e, al tempo stesso, di esercitare pressione su potenze ostili. Questa capacità di “fare la guerra senza armi” si rivela particolarmente cruciale per le democrazie europee e nordamericane, dove il ricorso alla forza militare è spesso osteggiato da vincoli etici, giuridici e parlamentari.
A differenza dell’intervento militare, che implica immediatamente l’uso della forza, il rischio di perdite umane e una potenziale escalation nucleare (specie nel caso di potenze come la Russia), le sanzioni offrono un’alternativa sostenibile e scalabile. Lo ha affermato chiaramente anche il Cato Institute in uno studio pubblicato nel giugno 2025: secondo i sondaggi, solo il 16% della popolazione americana è favorevole a un intervento militare diretto in Medio Oriente o Europa Orientale. La maggioranza preferisce strumenti meno invasivi come la diplomazia, la cyber-guerra o, appunto, le sanzioni economiche.
Nel caso della guerra in Ucraina, le sanzioni hanno permesso a Paesi come Germania, Francia, Regno Unito e Italia di restare attivamente coinvolti nel conflitto senza dover impiegare truppe di terra, mantenendo così un consenso politico interno molto più solido. Come ha dichiarato il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa, “continuiamo a esercitare pressioni sulla Russia”, nonostante le difficoltà legate alla crisi energetica e all’inflazione. Questo tipo di resilienza democratica, fondata su strumenti economici e multilaterali, si traduce in un sostegno strategico di lungo termine, che sarebbe molto più difficile da garantire con un’escalation militare.
Inoltre, le sanzioni non sono statiche ma dinamiche e adattabili. Il caso dei 17 pacchetti sanzionatori europei adottati fino a giugno 2025 dimostra la capacità dell’UE di reagire a cambiamenti sul campo, rafforzare i controlli sulle triangolazioni (come evidenziato da ISPI) e colpire settori sempre più specifici: dalla tecnologia ai beni dual-use, dalla finanza alle esportazioni energetiche. Questo livello di flessibilità è difficilmente replicabile in una strategia puramente militare, che comporta costi esponenziali e una logica binaria (guerra o pace).
Anche sotto il profilo etico, le sanzioni si configurano come una risposta proporzionata e mirata, in contrasto con la logica dei bombardamenti o delle operazioni armate. L’articolo del “Foglio” sul logoramento strategico della Russia sottolinea come, grazie alle restrizioni commerciali e alla pressione tecnologica, Mosca abbia visto ridursi la propria flotta strategica e debba ora impiegare le poche risorse disponibili in maniera forzata, con stress crescente sulla logistica militare. Tutto questo è avvenuto senza un solo missile lanciato dall’Occidente.
Ma l’impatto positivo delle sanzioni sul mantenimento dell’ordine multilaterale è evidente anche nel contesto delle Nazioni Unite. Come emerso nel memorandum russo analizzato da “AGI”, Mosca chiede esplicitamente la revoca delle sanzioni per poter firmare un trattato di pace. Questo dimostra che le sanzioni non sono un elemento accessorio, ma una delle condizioni più rilevanti che orientano le scelte diplomatiche e il bilanciamento del potere globale.
Le sanzioni economiche, dunque, costituiscono una forma avanzata di deterrenza democratica, che permette di contrastare l’aggressione armata mantenendo la coerenza etica, la tenuta delle alleanze e la sostenibilità politica interna. In un mondo dove le guerre diventano sempre più permanenti e asimmetriche, esse rappresentano un ponte tra l’inazione e la guerra, capace di proteggere valori, istituzioni e civili senza precipitare il mondo in un nuovo conflitto mondiale.
Nina Celli, 2 luglio 2025
Le sanzioni danno solo l’illusione del controllo
Una delle critiche più fondate alle sanzioni economiche è che esse tendono a generare un’illusione di controllo. Appaiono come una risposta razionale e moralmente legittima a un’aggressione militare, ma spesso finiscono per sostituire misure più incisive o per dilazionare decisioni strategiche necessarie. Le democrazie, per evitare i costi politici e umani della guerra, scelgono le sanzioni come via intermedia, ma finiscono per prolungare i conflitti e rafforzare la posizione dei regimi autoritari, che possono usare il tempo guadagnato per riorganizzarsi.
L’analisi di “Startmag” del giugno 2025 mette in evidenza questa dinamica: la proposta americana di sospendere le sanzioni contro la Russia, come parte di un accordo per il cessate il fuoco, è arrivata senza che Mosca avesse mostrato alcuna intenzione di ritirarsi o negoziare in buona fede. Le sanzioni, usate come moneta di scambio, perdono in quel momento ogni valore deterrente e si trasformano in elementi negoziali deboli, vulnerabili alla manipolazione diplomatica.
Il memorandum russo pubblicato da “AGI” lo dimostra chiaramente: Mosca pretende la revoca integrale delle sanzioni prima ancora della firma di un trattato di pace e propone solo un cessate il fuoco di 30 giorni. Una richiesta che palesemente non corrisponde a una volontà di compromesso, ma piuttosto a una tattica dilatoria per ridurre la pressione occidentale. L’effetto è che le sanzioni si trasformano da strumento di pressione a premio anticipato, incentivando l’aggressore a reiterare le stesse dinamiche in futuro.
Inoltre, affidarsi alle sanzioni come principale forma di reazione produce un pericoloso effetto paralizzante nelle democrazie. Il Brookings Institute ha più volte sottolineato come la cosiddetta “economic statecraft” abbia sostituito un tempo d’azione strategica e militare con una burocrazia della deterrenza, fatta di pacchetti, regolamenti, deroghe e sanzioni secondarie. Questo “tecnicismo reattivo” rallenta le decisioni operative e dà al nemico la possibilità di modellarsi intorno alla pressione imposta.
Nel caso della Russia, la flessibilità sanzionatoria è stata sfruttata da Mosca per testare la tolleranza degli alleati occidentali, aprendo fessure nel consenso internazionale. Come rilevato dal “Foglio”, non tutti i Paesi UE hanno sostenuto in maniera uniforme le misure restrittive: alcuni hanno chiesto esenzioni, altri hanno ritardato l’attuazione, mentre alcune imprese – spesso multinazionali – hanno trovato modalità legali per aggirare i vincoli. Questo ha prodotto disomogeneità applicativa, indebolendo la credibilità dell’intero impianto sanzionatorio.
Dal punto di vista comunicativo, le sanzioni rischiano anche di sovraccaricare le aspettative dell’opinione pubblica, portando a un ciclo pericoloso: il pubblico si aspetta risultati visibili (ritiro, cessazione del conflitto), ma quando questi non si verificano, cresce la sfiducia verso le istituzioni e la pressione per adottare misure più drastiche. Si crea così una polarizzazione tra chi propone l’inasprimento e chi ne chiede l’abbandono, senza che sia mai affrontata una strategia integrata di dissuasione e negoziazione. Il concetto stesso di “soft power” associato alle sanzioni rischia di svuotarsi quando l’avversario non gioca secondo le stesse regole. I regimi autoritari non sono sensibili ai danni diffusi sull’economia civile o alla perdita di status internazionale. Come osserva Nona Mikhelidze sul “Foglio”, Putin percepisce la guerra come strumento per consolidare il potere interno e ha mostrato di poter sopportare anni di isolamento economico pur di mantenere la pressione sull’Ucraina e sull’Occidente. In questo quadro, le sanzioni diventano una strategia autoreferenziale, utile più alla legittimazione politica dei governi occidentali che alla realizzazione di obiettivi concreti sul terreno.
Le sanzioni economiche, se non inserite in un quadro strategico coerente e multilivello, rischiano di trasformarsi in un placebo geopolitico. Illudono le democrazie di esercitare controllo, mentre in realtà prolungano i conflitti, frammentano le alleanze e delegano le vere decisioni strategiche a un futuro indefinito. Più che un’alternativa all’intervento militare, diventano una scorciatoia senza uscita.
Nina Celli, 2 luglio 2025