Il protezionismo rappresenta un ritorno al passato e danneggia i rapporti tra gli Stati

Il protezionismo non è un pericolo in democrazie consolidate

La tesi secondo la quale il libero mercato senza freni porti ad una crescita economica ben redistribuita e alla pace tra le nazioni è destituita di ogni fondamento. Come si legge su “Keynes Blog”, un blog di economisti di ispirazione keynesiana e neokeynesiana (Cfr. Andrea Boitani, Teoria Keynesiana, “Dizionario di Economia e Finanza”, 2012) “la conquista di mercati esteri spesso è all’origine dei conflitti, sicché le guerre commerciali divengono con facilità guerre militari”. Non si tratta di “chiudersi ai commerci in modo pregiudiziale”, ma di “valutare un bilanciamento tra grado di liberalizzazione dei commerci e grado di autonomia in campo economico” (Keynes in difesa del protezionismo economico, “Keynes Blog”, 7 marzo 2013). Keynes sosteneva nel testo “National Self-Sufficiency,” del 1933 che “una certa misura di autarchia o di isolamento economico tra le nazioni, maggiore di quello che esisteva nel 1914, possa piuttosto servire che danneggiare la causa della pace. Certo è che l’epoca dell’internazionalismo economico non è stata particolarmente capace di evitare le guerre”.

Spesso si mette in evidenza il presunto ruolo del protezionismo economico nello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e nell’ascesa dei totalitarismi degli anni Trenta, omettendo che la Prima Guerra Mondiale divampò in un contesto di liberismo economico, e la Seconda Guerra Mondiale ebbe origine dalla crisi del ‘29. Infatti, dopo la Prima Guerra Mondiale, il boom degli anni Venti fu favorito, oltre che da un grande progresso industriale, da un maggiore interscambio tra l’economia americana e quella europea, che stava tornando alla normalità dopo i disastri della guerra. Negli Stati Uniti, l’eccessivo ottimismo sull’andamento economico provocò una forte crescita del mercato borsistico, completamente sconnessa dall’economia reale. Ciò condusse al crollo della borsa di Wall Street e in seguito alla crisi del ‘29, diffusasi anche in Europa. L’adozione successiva di misure protezionistiche non fu altro che una conseguenza dei fallimenti del libero mercato e dell’incapacità di quest’ultimo di generare un’equa distribuzione della ricchezza. Secondo Keynes, “Il capitalismo decadente, internazionale ma individualistico […] Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso, - e non mantiene quel che ha promesso. In breve, non ci piace, e stiamo anzi cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci domandiamo che cosa dobbiamo mettere al suo posto, siamo estremamente perplessi”.
Queste frasi sembrano inserirsi perfettamente nell’attuale contesto politico ed economico, che però si differenzia per un fattore fondamentale dagli anni Trenta del secolo scorso: il compiuto consolidamento delle democrazie occidentali. Keynes iniziò ad osservare con interesse i primi esperimenti protezionistici in Italia, Germania e Russia quando i rispettivi totalitarismi si trovavano in fase embrionale, pur avendo il sentore di una deriva autoritaria. Egli infatti evidenziò tre rischi del nazionalismo economico: il primo è “la stupidità del dottrinario”, ovvero il rischio che gli eletti confondano il consenso con l’azione, eccedendo nella violenza verbale. Il secondo è la fretta, poiché la trasformazione economica necessita di lentezza e gradualità per compiersi. Il terzo “che è il peggiore dei tre, è l’intolleranza e il soffocamento della critica”. L’ultimo punto in particolare si è avverato in maniera dirompente, con la tragica ascesa dei totalitarismi.

 Al giorno d’oggi è possibile evitare questa deriva poiché è possibile definire le democrazie occidentali come “consolidate”. Come affermato dai politologi Maurizio Cotta, Donatella della Porta e Leonardo Morlino, una democrazia è consolidata “ quando esiste l’aspettativa della sua durata nel tempo, garantita da: istituzionalizzazione, legittimità ed efficacia decisionale ”. Il consolidamento si può basare o sulla legittimazione o sull’ancoraggio. Nel primo caso, “ esiste una credenza favorevole alla democrazia che interessa sia le élites che le masse. Può essere riferita a diversi ambiti: il mantenimento del compromesso democratico; il rispetto della legalità; la neutralità dei militari; tutela degli interessi degli imprenditori”. Nel secondo caso, partiti, gruppi di interesse, clientelismo e neocorporativismo fungono da “ancore” per il mantenimento della democrazia, anche “in assenza di una forte legittimità” (Maurizio Cotta, Donatella della Porta, Leonardo Morlino, Scienza Politica, Bologna, Il Mulino, 2008).

Ci sono dunque molti elementi che confermano la stabilità delle democrazie occidentali e la fragilità del capitalismo individualista e globalizzato, che può e deve essere riformato in questo periodo storico. Un’ulteriore riflessione di Keynes si adatta perfettamente ai nostri giorni: “ Noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle, perché non pagano dividendo. Londra è una delle città più ricche che ricordi la storia della civiltà, ma non si può ‘permettere’ i massimi livelli di civiltà di cui sono capaci i suoi cittadini, perché non ‘rendono’ […]. Oggi noi soffriamo una delusione, non perché siamo più poveri di quello che eravamo, - al contrario, anche oggi, in Inghilterra almeno, noi godiamo di un tenore di vita più elevato che in ogni altra epoca, - ma perché ci pare che altri valori siano stati sacrificati e perché ci sembra che siano stati sacrificati senza necessità. Infatti, il nostro sistema economico non ci permette davvero di sfruttare al massimo le possibilità di ricchezza economica offerteci dai progressi della tecnica, resta anzi ben lontano da questo ideale, e ci fa sentire come se avessimo potuto benissimo usare tutto il margine disponibile in tanti altri modi più soddisfacenti. Ma, una volta che ci siamo permessi di disubbidire al criterio dell’utile contabile, noi abbiamo cominciato a cambiare la nostra civiltà” (John Maynard Keynes, Autarchia economica (1933), “panarchy.org”, consultato il 29 novembre 2018).

Il protezionismo esaspera le crisi economiche e i conflitti tra Stati

Come affermato da Riccardo Faucci e Guido Pescosolido nell’“Enciclopedia di Scienze Sociali” della “Treccani”, “anche se nella storia economica dell'Occidente protezionismo e liberoscambismo si presentano intrecciati fra loro, spesso corrispondendo a momenti diversi dello sviluppo economico dei singoli paesi, è innegabile che per molti secoli il protezionismo è stato la regola e il liberoscambismo l'eccezione. Le guerre hanno spesso favorito il protezionismo, con l'imposizione di dazi alla cui ombra si sviluppano nuove industrie ” (Riccardo Faucci, Guido Pescosolido, Protezionismo , “Enciclopedia delle Scienze Sociali”, “Treccani”, 1997). Il liberoscambismo e, in un’accezione più vasta, la democrazia liberale in questo periodo storico è in pericolo. Le élite liberali hanno perso importanti sfide politiche in tutto il mondo, dalla vittoria di Donald Trump su Hillary Clinton fino alla Brexit, al trionfo di Orban in Ungheria, fino all’ascesa del governo gialloverde in Italia. Le istanze populiste che si sono affermate negli ultimi anni vedono con favore il protezionismo, un’ideologia economica che ha già dimostrato in passato il proprio fallimento. Come ricordò la cancelliera tedesca Angela Merkel al World Economic Forum di Davos nel gennaio 2018, fu proprio il protezionismo ad esasperare la crisi economica del ‘29: “ molti Paesi cercarono di scaricare i danni della crisi sui vicini, alzando barriere e dazi. Il commercio mondiale crollò, accentuando la disoccupazione e la miseria di massa ” (Federico Rampini, Il guastatore e i fantasmi del 900 , “La Repubblica”, 25 gennaio 2018), senza dimenticare le inique sanzioni inflitte alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, che ne esacerbarono il revanscismo. Da lì nacquero i dirigismi dittatoriali e si gettarono le basi per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Come si uscì dalla reciproca ostilità? Attraverso la cooperazione, il multilateralismo e il libero scambio. L’isolamento e gli egoismi nazionali non sono mai la risposta giusta, afferma Angela Merkel, ed è sempre necessario ricercare il dialogo e la cooperazione, come è stato fatto dalla Seconda Guerra Mondiale in poi (Tonia Mastrobuoni, Davos, Merkel contro Trump: "Non ha imparato la lezione della storia" , “ La Stampa”, 24 gennaio 2018).

Il più lungo periodo di pace che abbia mai conosciuto l’Occidente è stato trainato dalla cooperazione e dal processo di integrazione europea, che ha smantellato numerose barriere, doganali e non, anche se l’affermazione dei populismi non è capitata per caso. Le élite liberali hanno commesso un grave errore: il “rincorrere il progresso come valore assoluto, senza pensare che ogni piccola rivoluzione, dall'industrializzazione alla liberalizzazione economica alla diffusione di valori ‘universali’, ha creato delle resistenze e delle vittime, che invece di essere ascoltate e protette sono state semplicemente abbandonate al loro destino” (Claudia Astarita, Viva la democrazia liberale, “Panorama”, 18 settembre 2018). Esse hanno smesso di ascoltare la società e sono divenute conservatrici, bloccando “la mobilità sociale” e “favorendo clientelismo, asservimento al potere economico, ineguaglianza, e progressiva infiltrazione del potere politico nella società” (ibidem). Invece, secondo Astarita, l’essenza del liberalismo dovrebbe essere riformista e caratterizzato dalla trasformazione continua, avendo come punto di partenza gli umori della società, che devono essere compresi e canalizzati verso un sistema più inclusivo. Ma non è distruggendo gli attuali assetti economici e politici che si risolvono le storture della globalizzazione. La storia può ripetersi: le politiche protezionistiche, promosse in particolare dall’amministrazione Trump, possono condurre a una nuova “Grande Depressione”.

 Mille economisti, tra cui 14 premi Nobel, hanno scritto al presidente Trump per criticarne l’approccio protezionista e “metterlo in guardia dal ripetere gli stessi errori che furono commessi dagli Stati Uniti negli anni Trenta e che scatenarono la Grande Depressione”. “Gli autori dell'appello […] sono allarmati dal proliferare di iniziative protezionistiche di vario genere, dalla minaccia di ritirarsi da accordi commerciali da tempo in vigore, come il Nafta, all'introduzione di nuove barriere tariffarie di cui i dazi sull'acciaio e l'alluminio sono solamente l'ultimo esempio”. “Nella lettera, si confuta la tesi secondo cui le crescenti disuguaglianze e il peggioramento nella qualità della vita di molte persone sia da ricondurre al pieno dispiegarsi degli effetti del libero scambio, che invece è stato motore di crescita. Si ignora, in questo modo, che il livello di prosperità raggiunto dagli Stati Uniti sia invece da attribuirsi proprio al commercio internazionale e che il Paese è inserito nel meccanismo dell'aperura agli scambi molto più che in qualsiasi altro momento della sua storia”. Il commercio internazionale, oltre a essere un volano per aumentare la ricchezza della popolazione, è anche uno “strumento per prevenire eventuali conflitti, così come è avvenuto dal Dopoguerra in poi”. “La storia, del resto, si ripete: anche nel 1930 un migliaio di esperti esortarono il Congresso a respingere lo Smoot-Hawley Tariff Act, considerato il primo tassello del protezionismo americano dell'epoca. Gli economisti di allora rimasero inascoltati e per molti storici la spirale protezionistica fu uno dei fattori che, indirettamente, innescarono il secondo conflitto mondiale” (Claudia Astarita, Il protezionismo di Trump può portare una nuova "grande depressione”, “Panorama”, 5 maggio 2018).