Divorzio breve
Favorevole o contrario?
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Generato il: 28/05/2025 - 05:41
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A tale scopo, Pro\Versi rappresenta i vari argomenti attualmente dibattuti pubblicamente e li analizza, vagliando le argomentazioni pro/contro, attraverso le voci più autorevoli di studiosi e personalità rappresentative. Le “Discussioni” che ne risultano offrono due livelli di lettura, uno rapido, se ci si limita alla lettura degli abstract, e uno approfondito.
L’utente, così, può farsi un’idea d’insieme di quali siano i termini in cui si articola il dibattito, in breve tempo e solo attraverso contributi accreditati.
Questo testo è la riproduzione della Discussione presente sulla piattaforma Pro\Versi, con gli aggiornamenti apportati fino al momento dell'acquisto.
Il testo è strutturato nel seguente modo:
I. Gli argomenti in breve:
Scopo di questa sezione è quello di presentare brevemente gli argomenti delle tesi che saranno discussi in forma estesa nella sezione successiva; comprende l'abstract della presentazione generale e gli abstract delle singole coppie di tesi Favorevoli e Contrarie. Ogni coppia di abstract è composta da un titolo, contrassegnato dal segno Favorevole o Contrario, a cui segue il testo relativo e, in sequenza, quello opposto.
Se la Discussione contiene anche contributi di autori che hanno interagito sulla piattaforma con aggiunte di Varianti (rielaborazione dell’abstract e dell’approfondimento di una tesi, ma sotto lo stesso titolo), di seguito si troveranno anche gli abstract di queste ultime.
II. Gli argomenti completi:
Questa sezione comprende l'approfondimento della parte generale della discussione e gli approfondimenti delle coppie Favorevoli e Contrarie.
L' approfodimento di tesi ha l’obiettivo, da un lato, di esporre in maniera più estesa l’argomentazione presentata nell’abstract e, dall’altro, di individuare i diversi soggetti di rilevanza pubblica che hanno sostenuto la tesi, attraverso opportune qualifiche e citazioni.
Se la Discussione contiene anche contributi di autori che hanno interagito sulla piattaforma e aggiunto Integrazioni, queste verrano visualizzate in calce alla tesi. Similmente saranno visualizzati in seguito gli approfondimenti di eventuali Varianti.
Di seguito una sintesi degli argomenti pro e contro. Nel capitolo successivo, lo sviluppo delle argomentazioni complete pro e contro.
Se nell’Italia contemporanea il divorzio rappresenta un istituto giuridico di incontestabile rilevanza sociale e di diffusa applicazione pratica, nel corso del XX secolo la dissolubilità del vincolo matrimoniale ha costituito uno dei principali terreni di scontro politico e culturale. A prevalere furono i sostenitori delle tesi divorziste: la legge n. 898/1970, che introdusse per la prima volta il divorzio nell’ordinamento italiano, venne successivamente confermata con il referendum popolare del 1974.
Nell’esperienza applicativa, il maggior numero dei procedimenti di divorzio costituisce il “secondo tempo” di una sequenza giudiziaria che ha inizio con la separazione personale dei coniugi. La versione originaria della legge imponeva, in tale ipotesi, il decorso di un periodo di tempo non inferiore a cinque anni dalla separazione, poi ridotti a tre nel 1987. L’ulteriore accorciamento del “periodo finestra” ha recentemente acceso un vivace dibattito, che ha visto schierarsi, da un lato, i sostenitori della riforma, ritenuta necessaria per adeguare la norma ai mutamenti sociali e alle sempre più pressanti richieste dei cittadini, dall'altro coloro i quali hanno rigettato a gran voce la proposta affermando che l’abbreviazione dei termini, indebolendo il vincolo matrimoniale, priva di fondamento la famiglia e produce effetti sociali disastrosi.
Secondo i dati raccolti dall’Eurispes in un sondaggio pubblicato nel 2014, (Divorzio breve: l’opinione degli italiani) l’84% degli italiani intervistati si dichiara favorevole a rendere più rapido il procedimento di divorzio, il quale complica enormemente la loro vita, con costi notevoli in termini economici e di tempo. Poiché l’Italia è uno Stato laico e il compito del Parlamento è proprio quello di intervenire allorquando si registri una sofferenza in un determinato settore del paese, non si può chiedere a tanti cittadini di attendere ancora a lungo per vedere riconosciuta la propria libertà di autodeterminazione, che comprende anche la scelta su modalità e tempistiche del divorzio, nonché il diritto di formalizzare le scelte di vita maturate nel frattempo.
Peraltro, se il 40% dei separati non arriva al divorzio, ciò non significa che gli stessi stiano meditando sulla rottura o valutando una riconciliazione, ma che attendono di avere le risorse economiche sufficienti per avviare un nuovo, costoso procedimento giudiziario. Il divorzio breve costituisce un’opportunità per i coniugi, che potranno comunque scegliere di non proseguire e di cristallizzare il loro status di separati.
I cittadini chiedono una riduzione dei tempi del divorzio, ma non si può restituire loro un istituto snaturato nel suo rilievo e nel suo valore: il divorzio non può essere inteso come un diritto, ma è un’extrema ratio. Abbreviarne i termini può apparire un riconoscimento della libertà individuale, ma si rischia di banalizzarne la funzione, che è piuttosto la presa d’atto da parte dell’intera società di una gravissima frattura dell’ordine familiare che rende indispensabile l’intervento pubblico a sua difesa.
Introducendo il divorzio breve, inoltre, si amplifica lo scollamento tra i tempi legali e i tempi interiori, che sono molto più lunghi perché impongono di elaborare il lutto e di riorganizzare la propria vita e quella dei figli, se presenti, prima di poter ricominciare. D’altra parte, non vi è neppure una reale esigenza sociale di riduzione dei tempi legali, posto che circa il 40% delle separazioni non si trasforma in un divorzio: molte coppie, dunque, tendono a muoversi con prudenza, evitando di avviare le procedure per lo scioglimento del matrimonio o chiedendo il divorzio solo dopo un periodo di separazione assai più prolungato di quello minimo previsto dalla legge.
Grazie al divorzio breve, la cultura della famiglia prevale sulla cultura del contenzioso, perché abbreviare i tempi di attesa dalla separazione al divorzio consente di ridurre la conflittualità tra i coniugi e all’interno della famiglia. Se il fallimento è chiaro e irrevocabile, è ingiusto perdersi in lunghe battaglie giudiziarie che finiscono solo per aggiungere esasperazione ad una situazione già di per sé logorata, provocando ulteriori tensioni che si ripercuotono negativamente sul coniuge con minore autonomia finanziaria e costretto talvolta a subire ricatti, minacce e violenze.
Inoltre, non è un tempo più lungo a permettere a due persone che non vogliono più condividere la propria vita di restare insieme. La forzatura normativa, infatti, non ha agevolato i ripensamenti, poiché solo il 2% delle coppie che si separa poi si riconcilia: nella stragrande maggioranza dei casi, dunque, chi si rivolge al tribunale ha già maturato una scelta irreversibile, e la lunga pausa di riflessione tra separazione e divorzio imposta dalla legge appare del tutto inutile.
Per ridurre la conflittualità all’interno della famiglia non si devono abbreviare i tempi del divorzio, bensì predisporre strumenti ad hoc come, ad esempio, dei percorsi di mediazione familiare. Una società che semplifica il divorzio, anziché aiutare i coniugi a ritrovare l’unità, è una società che si arrende dinanzi alle difficoltà delle coppie e che le abbandona alle loro crisi e ai loro problemi.
Tempi troppo brevi tra la separazione e il divorzio, inoltre, impediscono ai coniugi di riflettere su eventuali margini di superamento del conflitto, escludendo così ogni possibilità di riconciliazione e ripercuotendosi sul coniuge più debole sotto il profilo economico e psicologico, che viene costretto a fare un accordo a delle condizioni che, se avesse avuto più tempo a disposizione per riflettere e per superare la fase di criticità psicologica, probabilmente non avrebbe accettato.
È necessario ridurre i tempi per il divorzio per adeguarsi agli altri Stati a noi più vicini per tradizione e disciplina giuridica, considerato altresì che l’istituto della separazione quale condizione per il divorzio costituisce un’eccezione nell’area europea presente solo in Italia, in Irlanda del Nord e a Malta.
L’arretratezza dell’Italia rispetto al resto d’Europa ha favorito, inoltre, il fenomeno del turismo divorzile: difatti, un flusso sempre crescente di coppie, al fine di ottenere in tempi più brevi lo scioglimento del matrimonio, si reca all’estero applicando la più favorevole normativa di altri Stati dell’Unione Europea, come Spagna o Romania, creando così situazioni di forte disparità e rendendo il divorzio un “bene di lusso”.
In Italia, la percentuale dei divorzi è circa la metà della media europea. Si tratta di una caratteristica virtuosa che, lungi dall’essere classificata come sintomo di scarsa modernità rispetto al resto d’Europa, merita di essere tutelata e salvaguardata. Pertanto, le istanze di adeguamento della legislazione italiana agli ordinamenti degli altri paesi europei sono prive di fondamento e non devono essere accolte. Inoltre, con il divorzio breve si rinnega questa specificità italiana perché si asseconda, invece che arginarla, la crisi della famiglia.
Le principali vittime dell’abbreviazione dei termini per il divorzio sono i figli minori, sempre meno tutelati e sempre più in balìa dell’irresponsabilità dei genitori. I bambini sono i veri soggetti deboli perché, avendo meno capacità e risorse personali per affrontare la situazione, soffrono maggiormente senza avere il tempo di elaborare il lutto.
Occorre, pertanto, una maggiore cautela nel caso in cui la coppia abbia figli minori, prevedendo un più lungo periodo di separazione o, quantomeno, delle azioni di sostegno e di mediazione che accompagnino le coppie e le aiutino a rendere la separazione meno traumatica per i figli.
La riduzione dei tempi per addivenire al divorzio ha ripercussioni positive sui figli minori, perché permette di ridurre la conflittualità tra i genitori, che necessariamente si riverbera sui figli. Inoltre, i bambini traggono benefici dalla definizione della situazione familiare, poiché la loro sofferenza è acuita dal permanere di un contesto di instabilità e false speranze.
In concreto, il pericolo di una minore tutela per i minori non sussiste, poiché l’interesse degli stessinel contesto della crisi coniugale è già ampiamente tutelato dall’intervento del giudice, previsto per regolare l’affidamento dei figli in caso di scioglimento della coppia, sia essa coniugata o di fatto. Spetta, piuttosto, ai genitori impegnarsi personalmente al fine di non scaricare la propria rabbia sulle spalle dei figli, facendo così un gesto di responsabilità per tutelarli e ridurne il più possibile la sofferenza.
Introdurre il divorzio breve significa delegittimare e banalizzare il matrimonio, equiparandolo ad un contratto avente ad oggetto relazioni meramente economiche. I legami diventano sempre più precari e i coniugi sempre meno responsabili, poiché non appena sorgerà un problema nella coppia, sarà più facile rimuoverne la prima causa piuttosto che affrontarlo.
Così facendo, però, si svuota di significato la solenne dichiarazione dell’articolo 29 della Costituzione che sul vincolo coniugale fonda la famiglia, attribuendo al matrimonio un fondamentale valore sociale ed un importante rilievo pubblico.
Anticipare i tempi per disfare la famiglia, pertanto, costituisce una via che porta a disgregare la stessa società che sulle famiglie si regge, con disastrosi effetti a breve e a lungo tempo. Da un lato, infatti, si incentiva la rottura dei matrimoni, aumentando esponenzialmente il numero dei divorzi; dall’altro, si provoca un vuoto nella cultura delle nuove generazioni, che perderanno il senso dell’impegno assunto attraverso il matrimonio. Con la conseguenza che, in ossequio alla teoria del piano inclinato, anche la società sarà più debole, fragile e frammentata.
Il divorzio breve non mette a rischio il valore della famiglia, ma semplicemente adatta la legislazione al modello socio-culturale oggi prevalente, senza che da ciò scaturiscano irreparabili lacerazioni del tessuto sociale. Al contrario, è quando si rinchiude la famiglia in un modello tradizionale, che non esiste più nella società italiana, che la si rende marginale e priva di fascino per le nuove generazioni. Proprio le lungaggini e le difficoltà di sciogliere il vincolo, infatti, rappresentano un forte deterrente che rende il matrimonio poco appetibile agli occhi dei giovani.
Impedire alla coppia di sciogliere il vincolo in tempi brevi, inoltre, non è altro che una forma di paternalismo statale che vuole costringere la coppia ad attendere degli anni prima di poter divorziare, come se due persone adulte non possano essere capaci di decidere autonomamente e responsabilmente le sorti della loro unione.
L’introduzione dell’istituto del divorzio del 1970 e la sua evoluzione
Il diritto di famiglia in generale, e la disciplina dello scioglimento del vincolo matrimoniale in particolare, hanno costituito per il legislatore del XX secolo uno dei principali ambiti di intervento in chiave riformista e innovatrice, resosi necessario al fine di adeguare l’impianto normativo all’epoca vigente con il mutamento della coscienza sociale e delle esigenze manifestate dalla collettività.
Con precipuo riferimento alla crisi della relazione coniugale, il codice civile del 1865 e il successivo codice del 1942 ammettevano, entrambi, la separazione dei coniugi su base consensuale o giudiziale, la quale comportava il venir meno del dovere di coabitazione, mentre rimanevano in vita altri obblighi tipici del rapporto di coniugio, quali il dovere di fedeltà ed assistenza. Per contro, era esclusa ogni possibilità di scioglimento del vincolo mediante il ricorso all’istituto del divorzio, poiché l’indissolubilità del matrimonio rispondeva ad un interesse generale di tutela della stabilità della famiglia (Tommaso Auletta, Il diritto di famiglia, Giappichelli, 2008, pp. 4 segg.).
Lo Stato italiano aveva in tal modo fatto proprio quel principio di diritto canonico che prevedeva, quale unica causa di scioglimento del matrimonio, la morte di uno dei coniugi, rigettando fermamente ogni ipotesi di divorzio per una molteplicità di ragioni.
In primo luogo si riteneva che, pur sussistendo taluni vantaggi nel restituire ai coniugi la libertà in casi particolarmente gravi, essi non fossero sufficienti a compensare “il danno del sovvertimento che il divorzio, introducendo l’instabilità del vincolo coniugale, arreca nella famiglia”, e ciò a fortiori nel caso in cui vi fossero figli nati dal matrimonio (Francesco Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. II, parte I, Giuffrè, 1952, p. 78). L’esigenza di tutela del singolo, pertanto, veniva a essere sacrificata nel nome di superiori ragioni di difesa dell’unità familiare, che si assumevano soddisfatte dall’indissolubilità del vincolo “quasi che l’unità della famiglia fosse compromessa dallo scioglimento del rapporto giuridico e non dalla disgregazione morale e materiale del nucleo familiare” (Mario Bessone e altri, La famiglia nel nuovo diritto. Dai principi della Costituzione alle riforme del codice civile, Zanichelli, 1986, p. 8).
In secondo luogo, si riteneva che il bisogno del divorzio in Italia fosse scarsamente avvertito e riguardasse principalmente “coloro che, nella scelta dell’altro coniuge, non hanno proceduto con oculatezza e con senso di responsabilità, o che sono moralmente in basso e costituiscono, essi stessi, la causa per la quale il matrimonio riesce infelicemente; la prospettiva del divorzio, cui costoro penserebbero in anticipo e su cui farebbero assegnamento, non potrebbe non accentuare l’insufficiente ponderatezza” (Messineo, Manuale di diritto civile..., cit, p. 78).
Tuttavia, l’avvento della Carta costituzionale, prima, e il clima di contestazione socio-culturale e di rivoluzione dei costumi che caratterizzò l’Italia tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, poi, imposero al legislatore un ripensamento sull’intera disciplina del diritto di famiglia, attraverso una serie di riforme che culminarono nella legge n. 151 del 1975, con la quale fu data una veste giuridica totalmente nuova ai rapporti familiari, abbandonando la concezione gerarchica della famiglia e riconoscendo l’uguaglianza dei coniugi nei diritti e nei doveri scaturenti dal vincolo matrimoniale.
Il tema della gestione della crisi coniugale costituì, peraltro, tappa fondamentale del percorso legislativo di adeguamento al progressivo processo di mutazione dei rapporti dell’individuo con l’istituzione statale, da un lato, e con la famiglia, dall’altro.
Alle posizioni antidivorziste, che vedevano nella famiglia un’entità distinta e sovraordinata rispetto ai suoi membri e, in quanto tale, portatrice di interessi superiori talvolta configgenti con quelli, soccombenti, degli individui che la compongono, si opponeva la tesi di coloro i quali consideravano il divorzio uno strumento di garanzia della preminente libertà individuale dei coniugi, il cui sacrificio in nome di un asserito valore superiore appariva del tutto ingiustificato e inidoneo, di fatto, a ristabilire la comunione spirituale e materiale di vita tra gli stessi (Mario Bessone e altri, La famiglia nel nuovo diritto, cit., p. 8).
Fu con la legge n. 898 del 1 dicembre 1970, approvata con una maggioranza di 319 voti favorevoli e 286 contrari e successivamente confermata con il referendum popolare del maggio 1974, che venne introdotto anche in Italia il principio di dissolubilità del vincolo coniugale, attribuendo al giudice il potere di sciogliere il matrimonio civile o dichiarare la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, previo accertamento dell’impossibilità della ricostituzione della comunione spirituale e materiale fra i coniugi per l’esistenza di una delle cause individuate all’articolo 3 della suddetta legge.
Pur prevedendo in tale articolo alcune peculiari ipotesi che legittimano la richiesta di divorzio immediato [Nota 1], la condizione ordinaria per procedere alla richiesta di divorzio, che anche nell’esperienza applicativa ha rappresentato una causa assorbente rispetto alle altre, fu individuata nel decorso di un periodo di tempo non inferiore a cinque anni dalla data dell’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nel procedimento di separazione personale – giudiziale o consensuale – senza che fosse intervenuta nel frattempo alcuna riconciliazione.
Il dibattito sulla durata della separazione: dalla legge n. 74/1987 alle recenti proposte di legge
La previsione di un periodo “finestra” di cinque anni trovava la sua ragion d’essere teorica nell’esigenza di assicurare la definitività e l’irreversibilità, quantomeno presuntiva, della crisi coniugale (Tommaso Auletta, Il diritto di famiglia, cit., p.256), nonché, come evidenziato da Enrico Quadri, docente ordinario di Diritto privato presso l’Università di Napoli, di rendere meno traumatico il passaggio dal previgente regime di indissolubilità del vincolo e consentire, così, il superamento degli ultimi ostacoli all’introduzione del divorzio (Enrico Quadri, Divorzio nel diritto civile e internazionale, in Digesto delle Discipline privatistiche, sezione civile, vol. VI, UTET, 1990, p. 521).
A tal proposito, è stato evidenziato che un iter procedimentale così lungo altro non fosse che il compromesso a cui giunsero nel corso del dibattito politico le due “anime” del Parlamento, quella conservatrice, che propugnava la stabilità della famiglia come valore supremo, e quella riformista che, invece, lottava per il riconoscimento in primis dei diritti di libertà del singolo individuo (Marcella Fortino, Il fondamento del divorzio, in Trattato di diritto di famiglia, a cura di Paolo Zatti, vol. I, t. II, Giuffrè, 2011, p. 1523).
Ben presto il legislatore si avvide, tuttavia, che nell’ipotesi ordinaria di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, ovverosia in caso di precedente pronuncia di separazione personale, l’imposizione di un termine di cinque anni per poter presentare l’istanza mal si adattava all’evoluzione della società civile, che auspicava piuttosto un accorciamento dei tempi per ottenere la sentenza di divorzio, stante anche l’equilibrato utilizzo che dell’istituto era stato fatto nei primi quindici anni della sua vigenza e la volontà di rafforzare la concezione del divorzio quale rimedio all’oggettiva ed ormai insanabile rottura della relazione coniugale (Antonina Astone, Crisi coniugale e responsabilità civile, in Trattato di diritto di famiglia, cit., p. 1819).
Pertanto, il 6 marzo 1987 fu emanata la legge n. 74, la quale riformò la normativa relativa al decorso del termine per poter proporre domanda di divorzio, riducendo da cinque a tre anni il tempo di attesa per ottenere lo scioglimento del vincolo coniugale.
All’indomani dell’approvazione della legge, l’allora presidente della Camera dei Deputati Nilde Iotti dichiarava che, dal suo punto di vista, la riduzione da cinque a tre anni costituiva “un atto di comprensione dei problemi umani e psicologici di tante coppie costrette per troppo tempo ad una difficile situazione di incertezza” (Gregorio Botta, Un divorzio più veloce e più sicuro, “La Repubblica”, 4 marzo 1987). All’opposto, “L’Osservatore Romano”, dando voce alle istanze di matrice cattolica, affermava che la riforma rappresentava una sconfitta per il presente e per il futuro della famiglia e un ulteriore passo verso il suo scardinamento (Il Vaticano critica la riforma del divorzio, “La Repubblica”, 5 marzo 1987).
Il problema della durata del periodo di precedente separazione dei coniugi, necessario al fine di sancire l’irreversibilità della crisi e così rendere procedibile la domanda di divorzio, non si è tuttavia esaurito con la riforma del 1987, in quanto nel corso degli ultimi trent’anni si sono susseguite alcune proposte di legge destinate ad abbreviare tale attesa obbligatoria a dodici mesi, in ragione di una “sostanziale convergenza di opinioni circa la sufficienza del periodo annuale al fine di consentire ai coniugi un’adeguata riflessione prima di avanzare la richiesta di divorzio”, quantomeno nelle ipotesi di consenso dei coniugi e assenza di prole (Giovanni Bonilini, La separazione personale dei coniugi, in Il Codice Civile. Commentario. Lo scioglimento del matrimonio, a cura di Giovanni Bonilini e Ferruccio Tommaseo, Giuffrè, 2010, p. 209).
In particolare, il 28 febbraio 2002 fu presentata una proposta di legge avente a oggetto la riduzione del tempo obbligatorio di separazione da tre a un anno e ciò in quanto, secondo i deputati firmatari, il termine di tre anni non serviva in alcun modo come deterrente per la prosecuzione di esperienze di coppia ormai logorate, funzionando invece come intralcio per la formalizzazione delle ulteriori scelte di vita che nel frattempo fossero maturate (Proposta di legge n. 2444/2002, “legxiv.camera.it”, consultato il 10 settembre 2015). Tale proposta fu poi modificata nel corso dell’iter parlamentare, subordinandone l’applicabilità all’assenza di figli e alla consensualità della separazione, al fine di ottenere il più ampio consenso tra i differenti schieramenti. Ciononostante, la proposta non raggiunse la maggioranza alla Camera e il 23 ottobre 2003 fu respinta con 218 duecentodiciotto voti contrari e 202 favorevoli.
All’indomani del voto, l’avvocato Cesare Rimini, noto matrimonialista ed editorialista del “Corriere della Sera”, dichiarò che, anche se il testo, come emendato, prestava il fianco a numerose critiche in punto di forma e di sostanza, si trattava pur sempre di “una grande occasione andata perduta”, arenatasi per i soliti “contrasti tra una visione laica del problema e una visione legata alla tradizione cattolica che ha alla sua base il principio del matrimonio-sacramento, e pertanto indissolubile” (Cesare Rimini, Ma l’interesse dei figli conta più delle formule, “Corriere della Sera”, 24 ottobre 2003). Ed infatti, nella prolusione in occasione del Consiglio permanente dei vescovi italiani (24-27 marzo 2003), l’allora presidente della CEI, cardinale Camillo Ruini, aveva manifestato l’opposizione netta della Chiesa cattolica alla riduzione in discussione, in quanto, se approvata, avrebbe reso “ancora più fragile la tutela giuridica della stabilità del matrimonio” (Card. Ruini: no al “divorzio lampo”, “toscanaoggi.it”, 24 marzo 2003).
Un nuovo tentativo venne esperito con la proposta di legge n. 749, la quale fu portata all’attenzione della Camera il 6 maggio 2008 dall’onorevole Paniz, e il 29 marzo 2012 in Commissione Giustizia venne unificata ad altre proposte di contenuto omogeneo in un testo che, modificando l’allora vigente articolo 3 della legge sul divorzio, riduceva ad un anno – o due in caso di presenza di figli minori – il tempo minimo di separazione necessario per procedere allo scioglimento del matrimonio (Proposte di legge nn. 749-1556-2325-3248-A, “leg16.camera.it”, consultato il 10 settembre 2015).
Nel difficile momento di transizione politica attraversato dall’Italia tra il 2012 e il 2013, tuttavia, l’esame parlamentare del provvedimento si interruppe dopo la discussione in Aula sulle linee generali, cosicché, dopo poco più di un mese dall’inizio della XVII Legislatura, fu presentata alla Camera una nuova proposta di legge sul tema dall’onorevole Amici, riprendendo di fatto il testo della proposta n. 2325 avanzata dalla stessa deputata nel 2009. Nella relazione di accompagnamento, i parlamentari firmatari sollecitavano l’intervento del legislatore in ragione dello scollamento della disciplina del divorzio rispetto alle effettive dinamiche sociali e culturali, che esigevano tempi più rapidi per poter addivenire alla pronuncia di scioglimento, pur confermando la necessità che intercorresse un periodo di tempo tra la separazione e il divorzio (Proposta n. 831/2013, “camera.it”, consultato il 10 settembre 2015).
A tale proposta di legge se ne aggiunsero molte altre, le quali vennero tutte unificate il 15 maggio 2014 dalla Commissione Giustizia in un medesimo testo, che stabiliva all’articolo 1 una diversa articolazione dei termini previsti per la proposizione dell’istanza di divorzio a seconda che la stessa seguisse una separazione giudiziale [Nota 2] ovvero consensuale [Nota 3]. Nel primo caso, infatti, la domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio poteva essere presentata decorsi dodici mesi dalla data di notificazione della domanda di separazione – e non più, dunque, dalla comparizione dei coniugi in udienza presidenziale – con la particolarità che, qualora alla data di instaurazione del giudizio di divorzio fosse ancora pendente il giudizio di separazione con riguardo alle domande accessorie [Nota 4], la causa sarebbe stata assegnata al giudice della separazione. Nelle separazioni consensuali, invece, il termine per la proposizione della richiesta di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio era individuato in sei mesi decorrenti dalla data di deposito del ricorso, ovvero dalla data della sua notificazione se presentato da uno solo dei coniugi.
Il 29 maggio 2014 la Camera dei Deputati licenziò un disegno di legge del tutto identico, nella parte relativa all’abbreviazione dei termini per il divorzio, al testo unificato approvato dalla Commissione Giustizia della Camera, trasmettendolo all’altro ramo del Parlamento il giorno successivo. La Seconda commissione Permanente del Senato, peraltro, modificò parzialmente il disegno di legge sottoposto al suo esame, in primo luogo prevedendo che i termini di dodici o sei mesi, rispettivamente previsti in caso di separazione giudiziale o consensuale, dovessero decorrere dalla data dell’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale, nonché sopprimendo la previsione che individuava nel giudice della separazione, ancora pendente per le domande accessorie, l’autorità competente a conoscere anche del giudizio di divorzio.
Particolarmente rilevante fu la seconda modifica apportata in tale sede, poiché a seguito di un serrato dibattito la Commissione Giustizia introdusse nel testo una norma che per la prima volta autorizzava quello che, nel gergo giornalistico, fu subito chiamato “divorzio lampo”. Nella specie, fu prevista l’introduzione nella legge n. 898/1970 di un nuovo articolo 3-bis il quale autorizzava i coniugi, anche in assenza di separazione legale, a richiedere direttamente lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio attraverso un ricorso congiunto, presentato esclusivamente all’autorità giudiziaria competente, alla condizione, tuttavia, che non vi fossero figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero figli di età inferiore ai ventisei anni economicamente non autosufficienti.
Il dibattito che ne seguì nelle aule del Senato fu particolarmente acceso, soprattutto con riferimento all’inserimento della norma sul divorzio immediato. A seguito dell’opposizione da più parti manifestata circa l’opportunità di introdurre in modo così repentino un istituto fino ad allora sconosciuto nell’ordinamento italiano, la relatrice Rosanna Filippin avanzò la proposta di stralcio della suddetta norma, successivamente approvata, al fine dichiarato di consentire “al divorzio diretto di acquistare una vita autonoma e di proseguire il suo cammino, indipendentemente e separatamente dal divorzio breve, con il supplemento di riflessione che è stato richiesto” (Resoconto stenografico, della seduta n. 411 del Senato del 17 marzo 2015).
La discussione parlamentare proseguì, dunque, sulla sola abbreviazione del termine previsto per poter accedere al divorzio; il dibattito vide contrapporsi due schieramenti politicamente non omogenei, in ragione dell’ampia libertà di voto secondo coscienza lasciata dai partiti ai propri parlamentari.
La ragione principale, addotta a sostegno della tesi favorevole alla riduzione dei tempi per poter accedere al divorzio, era individuata dai più nell’esigenza di adeguare la legislazione vigente in materia ai mutamenti sociali e alle sempre più pressanti richieste dei cittadini, l’84% dei quali, secondo un sondaggio effettuato dall’Eurispes nel 2014 (Divorzio breve: l’opinione degli italiani, “eurispes.eu”, 24 maggio 2014) si dichiarava favorevole all’introduzione del divorzio breve. Difatti, i tempi lunghi richiesti per presentare istanza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio potevano impedire la formalizzazione di nuove scelte di vita nel frattempo maturate, oltre ad avere importanti ripercussioni sul piano economico e della stabilità emotiva.
Da questo punto di vista, inoltre, in molti auspicavano una modifica normativa sulla base della considerazione che la riduzione dei termini per il divorzio sarebbe in grado di ridurre la conflittualità tra i coniugi, posto che i tre anni richiesti dalla norma, che divengono cinque se ad essi si sommano i tempi della giustizia civile italiana, non farebbero altro che esasperare i conflitti e generare sentimenti di rivalsa, senza peraltro apportare alcuna reale utilità sul piano delle possibili riconciliazioni.
Si manifestava, infine, la necessità di adeguarsi alla normativa vigente nel resto d’Europa, e ciò soprattutto al fine di arginare il fenomeno del cosiddetto forum shopping o turismo divorzile che costringeva migliaia di italiani a recarsi all’estero per poter beneficiare dei più favorevoli regimi per lo scioglimento del matrimonio.
D’altro canto, coloro i quali rigettavano la proposta di riduzione del termine per poter domandare il divorzio da tre anni a dodici o sei mesi dalla separazione giustificavano la propria posizione affermando che tale abbreviazione, indebolendo il vincolo matrimoniale e negando ogni possibilità di riconciliazione, avrebbe privato di fondamento la famiglia, istituzione riconosciuta dalla Costituzione e su cui si fonda l’intera società. Dalla banalizzazione del matrimonio, secondo i sostenitori della tesi contraria all’introduzione del divorzio breve, potrebbero derivare effetti sociali disastrosi, quali l’aumento del numero dei divorzi, l’agevolazione di matrimoni di comodo e l’assenza di modelli di riferimento per le nuove generazioni.
I figli minori, inoltre, sono stati oggetto delle maggiori preoccupazioni degli oppositori della nuova norma, i quali temevano che i bambini, privati di qualunque tipo di tutela, potessero divenire le principali vittime dell’irresponsabilità di quei genitori che facevano ricorso al divorzio breve.
La legge n. 55 del 2015 e i primi problemi applicativi
Il 18 marzo 2015 il Senato della Repubblica ha approvato la bozza sul divorzio breve, poi divenuta il testo definitivo della legge n. 55/2015 grazie alla maggioranza di 398 voti favorevoli – contro 28 voti contrari e con 6 deputati astenuti – raggiunta alla Camera in sede di votazione finale il 22 aprile 2015. In particolare, l’articolo 1 della suddetta legge modifica la lettera b) del numero 2) dell’articolo 3 della legge n. 898/1970, autorizzando i coniugi a presentare domanda per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio allorquando sia stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero sia stata omologata la separazione consensuale, a condizione che le separazioni si siano protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale.
I primi commenti politici apparsi sul web poco dopo il voto hanno manifestato in misura largamente prevalente un grande entusiasmo per l’approvazione definitiva della legge sul divorzio breve. Così Alessia Morani, relatrice del disegno di legge in discussione, ha espresso la sua soddisfazione su Twitter: “Il divorzio breve è legge. L’avevamo detto, l’abbiamo fatto. Questo paese lo cambiamo davvero #cosefatte #cosegiuste #lavoltabuona” (Divorzio breve, è legge: sì della Camera a larga maggioranza, “Il Fatto Quotidiano”, 22 aprile 2015). Allo stesso modo, anche Luca D’Alessandro, correlatore della proposta con l’onorevole Morani, sul social network ha dichiarato: “Il divorzio è breve! Approvata definitivamente la legge. La politica dei fatti e non delle parole” (ibidem). Infine, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha twittato: “Il #divorziobreve è legge. Un altro impegno mantenuto. Avanti, è #lavoltabuona” (ibidem). Anche “Famiglia Cristiana” ha subito commentato la nuova legge, definendola, al contrario, come “l’ennesimo attacco alla famiglia” che grazie al divorzio breve potrà essere cancellata in soli sei mesi (Antonio Sanfrancesco, Il divorzio breve è legge, bastano sei mesi per cancellare una famiglia, “Famiglia Cristiana”, 22 aprile 2015).
All’indomani del voto, Gian Ettore Gassani, presidente nazionale dell’Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani, ha dichiarato che “con il varo di questa legge il diritto di famiglia italiano entra in Europa, il sigillo della Camera segna una nuova era” (Caterina Pasolini, Sì al divorzio breve, ira dei cattolici, “La Repubblica”, 23 aprile 2015). Al contrario, Francesco Belletti, presidente del Forum delle Associazioni Familiari, in una nota sul sito dell'Associazione, ha manifestato il proprio sconforto per l’approvazione di una legge che costituisce “la conferma di un clima culturale individualistico sempre più forte e diffuso, che investe le relazioni familiari per renderle sempre meno rilevanti agli occhi della società” e dalla quale “emerge piuttosto una vera e propria sconfitta e resa dello Stato nei confronti della famiglia” (Francesco Belletti, Divorzio breve, ovvero: arrangiatevi!, “forumfamiglie.org”, 27 aprile 2015).
Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali, ha definito il divorzio breve come “una pagina di civiltà che ci incoraggia a proseguire sul cammino delle riforme che riguardano i diritti delle persone” (Divorzio breve, è legge: sì della Camera a larga maggioranza, “Il Fatto Quotidiano”, 22 aprile 2015); ma vi è stato anche chi, come Luciano Moia sul quotidiano “Avvenire”, si è schierato apertamente contro la nuova legge, considerandola piuttosto un “traguardo di inciviltà” che porterà a costruire “un’agile e dinamica società di unioni usa e getta, rapporti più flessibili, disimpegnati, quasi fulminei, facilmente smontabili e ricomponibili” (Luciano Moia, Divorzio breve, un incivile traguardo, “Avvenire”, 23 aprile 2015).
Al di là dei giudizi di valore sui principi alla base della riforma, peraltro, si sono ben presto manifestati i primi problemi applicativi. Come dichiarato dal presidente della Sezione Famiglia del Tribunale di Milano, Gloria Servetti, la nuova legge affosserà i tribunali, in quanto i cinquemila fascicoli, tra separazioni consensuali e giudiziali, trattati mediamente ogni anno potrebbero anche triplicarsi o quadruplicarsi, senza che vi siano margini per aumentare la produttività poiché gli organici sono già al massimo dello sforzo. Anche Umberto Antico, magistrato presso il Tribunale di Napoli, ha manifestato lo stesso timore, affermando che “dobbiamo prepararci ad anticipare due anni di procedimenti, il che significa un aumento di quasi l’80% dei circa 2.400 fascicoli che lavoriamo ogni anno” (Antonello Cherchi, L’addio sprint parte da duecentomila coppie, “Il Sole 24 Ore”, 25 maggio 2015). Infine, conferma le medesime previsioni anche il presidente del Tribunale di Brescia, Adriana Garrammone, secondo la quale la riforma avrà effetti negativi sull’organizzazione degli uffici e delle attività (Matteo Trebeschi, Divorzio breve, attese 2.500 domande, “Corriere della Sera”, 27 maggio 2015). Tuttavia, Gian Ettore Gassani ha minimizzato la questione, poiché “ci sarà un contraccolpo nei primi mesi, ma i tribunali si sono attrezzati e non più tardi di ottobre-novembre avranno smaltito questa mole un po’ eccezionale di lavoro” (Francesco Grignetti, Parte il divorzio breve: l’ingorgo nei tribunali rischia di allungare i tempi, “La Stampa”, 26 maggio 2015).
In conclusione, in forza della combinazione della legge n. 55/2015 con le nuove norme in materia del cosiddetto “divorzio facile [Nota 5]” – rispetto alle quali, peraltro, manca un espresso raccordo nel testo – è possibile affermare che, almeno sulla carta, divorziare è oggi molto più semplice e rapido: basti pensare che una coppia di coniugi senza figli, se d’accordo, può divorziare in sei mesi semplicemente recandosi due volte dinanzi al sindaco, prima per la separazione e poi per il divorzio, senza dover dunque sopportare i tempi e i costi della tradizionale procedura giudiziaria, pur restando ancora intatto quel “doppio binario” che dal 1970 caratterizza la gestione della crisi coniugale in Italia.
Note e Links
I cittadini chiedono tempi più brevi per poter divorziare
In occasione della discussione sulla proposta di legge in materia di divorzio breve alla Camera dei Deputati (testo riportato nel Resoconto stenografico della seduta n. 233 del 26 maggio 2014, presente sul sito della Camera), il relatore di FI Luca D’Alessandro ha citato i dati raccolti dall’Eurispes in un sondaggio pubblicato nel 2014, (Divorzio breve: l’opinione degli italiani, “eurispes.eu”, 24 maggio 2014) dal quale è emerso che l’84% degli italiani intervistati si dichiara favorevole alla riduzione dei tempi necessari per poter presentare domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo l’onorevole D’Alessandro, dunque, ciò dimostra la necessità di procedere con l’approvazione della proposta di legge in discussione, poiché sono gli stessi cittadini a manifestarne l’esigenza.
A tal proposito, nella seduta del 29 maggio 2014 l’onorevole del NCD Antonio Leone ha precisato che la proposta in esame mira a porre rimedio a una disciplina ritenuta inadeguata, in alcuni suoi aspetti, dagli stessi cittadini e il compito del Parlamento è proprio quello di intervenire allorquando si registri una sofferenza in un determinato settore del paese (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
Pertanto, secondo Anna Finocchiaro, presidente della Commissione Affari Costituzionali, l’abbreviazione dei termini per il divorzio costituisce “una pagina di civiltà che ci incoraggia a proseguire sul cammino delle riforme che riguardano i diritti delle persone” (Divorzio breve è legge: sì della Camera a larga maggioranza, “Il Fatto Quotidiano”, 22 aprile 2015).
I tempi richiesti dalla legge, ai quali si aggiunge anche la cronica lentezza della giustizia italiana – con la conseguenza che ai tre anni necessari per poter domandare il divorzio se ne sommano ulteriori due, corrispondenti alla durata media delle cause di divorzio – sono davvero troppo lunghi, secondo la senatrice del PD Monica Cirinnà, per chiedere a tanti italiani di attendere ancora al fine di ottenerne la riduzione (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015). E infatti, in un’intervista a “Famiglia Cristiana” del 9 aprile 2014 (Benedetta Verrini, Il rischio è l’irresponsabilità dei genitori), l’avvocato matrimonialista Luisella Fanni si è dichiarata favorevole alla riduzione dei tempi per il divorzio, proprio perché “mentre le persone arrivano da noi per avere chiarezza, il percorso in tribunale complica enormemente la loro vita, con costi notevoli in termini economici, di tempo, e di sofferenze”.
Nel corso della seduta della Camera del 26 maggio 2014, il deputato di SEL Franco Bordo ha osservato, inoltre, che occorre dare risposte a chi chiede di poter sciogliere prima il vincolo per poter contrarre, eventualmente, un nuovo matrimonio, e che pertanto il termine di tre anni dalla separazione è senza dubbio troppo lungo per la formalizzazione delle scelte di vita maturate nel frattempo (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014).
L’abbreviazione dei termini, in particolare con riferimento ai casi di separazione consensuale, è dunque “evidentemente motivata dalla necessità di non frustrare la comune decisione dei coniugi di accelerare l'uscita dal matrimonio”, come ha sottolineato l’avvocato Gianfranco Dosi nel suo articolo Dal 26 maggio 2015 divorziare sarà più facile: basteranno solo dodici o sei mesi, apparso sul “Quotidiano del Diritto” (“Il Sole 24 Ore”) il 18 maggio 2015.
Si è mostrato dello stesso avviso anche l’onorevole Stefano Dambruoso, magistrato e deputato di Scelta Civica, secondo il quale “la disciplina del divorzio appare disconnessa e lontana dalle esigenze delle coppie che decidono di non voler più continuare un percorso di vita insieme e vogliono garantirsi la possibilità, ove lo decidano, di ricostruire nuovi percorsi affettivi” (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014, cit.).
Con il divorzio breve i cittadini tornano ad essere padroni delle proprie scelte
La riforma dei tempi del divorzio, inoltre, costituisce una forma di riconoscimento della libertà di autodeterminazione di ogni individuo. Così, in un editoriale comparso sull’“Huffington Post” il 13 novembre 2014 (Dal divorzio breve al nuovo Rinascimento. Sempre più protagonisti della propria vita) Maria Cristina Koch, epistemologa e psicoterapeuta, si è detta pienamente favorevole all’abbreviazione dei tempi per il divorzio, poiché in tal modo “ritorna apertamente nelle mani dei cittadini, evidentemente ormai considerati adulti, la gestione di un rapporto privatissimo e, nello stesso tempo, fondante l'intera struttura sociale. […] Ora si restituisce nelle loro mani una decisione di cui le istituzioni civili prendono atto senza aver voce in capitolo. […] Quello che viene spesso presentato come un declino delle istituzioni ̶ cosparso di lacrime amare di chi vorrebbe ancora i bei tempi andati con tutto in ordine, ben inscatolato negli scaffali di una convivenza congelata ̶ a me appare una straordinaria conquista del cittadino che riemerge dalla collettività per farsi nuovamente protagonista della sua esistenza”.
Non si va, dunque, verso una forma di relativismo né si entra nella liquidità dei lavori, ma si promuove la tutela dell’umanità intesa come vulnerabilità della condizione umana. Ed infatti “quando un principio, che si tratti di un principio giuridico o di un principio morale, vale più di quello che una persona vive, diventa totalitario e indifferente all’umana condizione, che ci chiede sempre e comunque di rispettare l’alterità di ognuno di noi”, come sostenuto dalla deputata del PD Michela Marzano che, in occasione della votazione finale alla Camera (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015), ha precisato che con l’introduzione del divorzio breve si vuole adeguare la legislazione alla complessità della realtà, la quale implica anche che una storia d’amore possa finire.
Non può essere la legge a scegliere i tempi e le modalità del divorzio
In sede di discussione finale (Resoconto stenografico della seduta n. 413 del 22 aprile 2015, disponibile sul sito della Camera) la deputata del PD Fabrizia Giuliani ha voluto affermare con forza un concetto fondamentale: il tempo dell’elaborazione di una scelta di separazione non ha a che fare con le aule di tribunale o con gli studi di avvocati, ma con la vita interna di una coppia. E, in questo senso, l’onorevole Lucio Barani ha altresì sottolineato che non si possono costringere due persone consapevoli ad essere schiavi di un legame che non funziona più, poiché se vengono meno i valori condivisi, le ragioni per stare insieme, la volontà di convivere, il mutuo soccorso nelle avversità e nelle malattie, “che senso assumono anni di legami forzati e dalla connotazione esclusivamente giuridica?” (Resoconto stenografico della seduta n. 411 del Senato del 17 marzo 2015).
Durante la discussione la senatrice Monica Cirinnà ha ricordato, infine, che l’Italia è uno Stato laico; pertanto, il legislatore deve rispettare il cittadino nella libertà delle sue scelte, ivi compresa quella sul come e in che tempi liberarsi di un matrimonio che provoca, in molti casi, ormai solo dolore. Dopotutto, sebbene la vita personale dovrebbe essere una sfera intangibile da parte dello Stato, si continua ad imporre dall’alto una visione paternalistica del matrimonio, stridente con i mutamenti sociali in forza dei quali oggi le persone vedono il matrimonio come atto di libertà, scelta personale che contempla pertanto anche la consapevolezza che eventi della vita potrebbero portare al suo scioglimento (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015).
Come ha precisato Gian Ettore Gassani, presidente dell’Associazione degli Avvocati Matrimonialisti Italiani (AMI), “lo Stato non ha il diritto di interferire sulle coscienze della gente in modo paternalistico, imponendo tempi di riflessione per decisioni intime e personali, siano essi di due anni, tre anni o cinque minuti”. Gassani ha inoltre manifestato il proprio favore per l’eliminazione tout court del periodo di separazione, al fine di “evitare tempi lunghi e costi insostenibili in danno degli italiani che intendono porre fine ad un matrimonio già finito” (Divorzio breve, primo via libera alla Camera, “Guida al Diritto”-“Il Sole 24 Ore”, 14 maggio 2014).
Le ragioni per cui il 40% dei separati non arriva al divorzio sono variegate
A chi afferma che i dati statistici non dimostrano una reale urgenza da parte dei cittadini di addivenire al divorzio, poiché solo un ridotto numero di coppie separate poi domanda lo scioglimento del matrimonio, il senatore del M5S Alberto Airola ha obiettato che ciò non è dovuto al fatto che gli stessi stiano meditando sulla rottura o valutando una riconciliazione, in quanto il più delle volte sono semplicemente in attesa di avere le risorse economiche sufficienti per avviare un nuovo, costoso procedimento giudiziario (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015).
Secondo il deputato Alfonso Bonafede si tratta di dati del tutto irrilevanti per la discussione della proposta in esame perché la riduzione dei tempi per il divorzio costituisce solo un’opportunità per i coniugi, che potranno comunque scegliere di non proseguire e cristallizzare, invece, il loro status di separati (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
Non si deve restituire ai cittadini un istituto snaturato
Se è vero che il Parlamento è chiamato a confrontarsi con le istanze dei cittadini, è altrettanto vero, secondo il senatore di Area Popolare Aldo Di Biagio, che non si può restituire loro un istituto snaturato nel suo rilievo e nel suo valore (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015).
L’onorevole Antonio Palmieri di FI, nella seduta n. 236 , ha precisato, peraltro, che “il divorzio non può essere inteso come un diritto, ma è un’extrema ratio”: non è un momento al quale tutti devono poter accedere con la massima rapidità e semplicità, ma deve essere l’esito finale di un tentativo di mantenere unita la coppia e la famiglia.
In questo senso, Luciano Moia (Divorzio breve, un incivile traguardo, “Avvenire”, 23 aprile 2015) teme che “rendere scorrevoli i binari in uscita dal matrimonio, non servirà a costruire reti familiari e sociali più salde, mantenute da persone propositive, convinte della necessità di spendere energie, responsabilità e sacrifici nella tenuta della relazione di coppia”. Il rischio, a suo avviso, è che ci si ritrovi dinanzi a “norme che, favorendo e incentivando il già drammatico senso di precarietà delle relazioni, finiscono per sancire il malcostume dell’instabilità affettiva e del disimpegno familiare”, con la conseguenza che “rottamato il matrimonio, avremo un’agile e dinamica società di unioni usa e getta, rapporti più flessibili, disimpegnati, quasi fulminei, facilmente smontabili e ricomponibili”.
Lo scioglimento del vincolo matrimoniale non riguarda solo il singolo individuo o la coppia, ma è rilevante per l’intera società
Pur senza rinnegare i diritti inviolabili riconosciuti dallo Stato laico a ciascun cittadino, non bisogna dimenticare che certe vicende private producono comunque una risonanza a livello sociale.
Il cardinale Angelo Bagnasco, pur affermando che “accorciare i tempi apparentemente può essere una maggiore considerazione della libertà” di ciascun cittadino, ha sostenuto che l’approvazione del divorzio breve in realtà costituirebbe “una facilitazione ad una decisione così grave” che si riflette non solo sui coniugi ma anche sull’intero paese, “perché se due persone stanno insieme con un progetto questo è importante per la società, non è un fatto privato” (Orsola Vetri, Divorzio: “il tempo lungo può essere un aiuto”, “Famiglia Cristiana”, 7 aprile 2014).
Anche per Francesco Belletti, presidente del Forum delle Associazioni Familiari (Divorzio breve, ovvero: arrangiatevi!, 27 aprile 2015), la riforma sul divorzio breve “più che una conquista, è piuttosto la conferma di un clima culturale individualistico sempre più forte e diffuso, che investe le relazioni familiari per renderle sempre meno rilevanti agli occhi della società. Davanti a una diminuzione così drastica dei tempi di attesa prima dell’addio definitivo, e senza aver previsto tempi e modalità di accompagnamento nei confronti dei coniugi in difficoltà, emerge piuttosto una vera e propria sconfitta e resa dello Stato nei confronti della famiglia. È come se il legislatore dicesse: ‘fare famiglia è un affare privato, quindi nel bene e nel male, cari cittadini, dovete arrangiarvi. Non aspettatevi niente dall’intervento pubblico. Sono solo affari vostri’”. Al contrario, Belletti dichiara di continuare a “credere che la famiglia stabile rappresenti un elemento fondamentale del capitale sociale di un paese. Crediamo che il legame di coppia sia un valore sociale, che va sostenuto, e non abbandonato. La famiglia genera ‘bene comune’, soprattutto per i figli e per i progetti di vita delle persone. Siamo perciò convinti che sia un grave errore, che lo Stato ‘si chiami fuori’ da una responsabilità come questa”.
Secondo il giurista Francesco D’Agostino il rischio insito nelle riforme sul divorzio è quello di una “progressiva banalizzazione del divorzio, che comporta inevitabilmente un’ulteriore banalizzazione dei vincoli coniugali”. Con la semplificazione delle procedure di divorzio non si considera che “il matrimonio non è un fatto privato, è un fatto pubblico; non è una tecnica per gratificare o legittimare la passione amorosa di una coppia, è un’istituzione sociale, finalizzata alla costruzione delle famiglie e volta a garantire i rapporti intergenerazionali”. Così anche lo scioglimento del matrimonio, il quale “non consiste semplicemente nella presa d’atto sociale della crisi di una coppia intenzionata a separarsi e di sperimentare nuove unioni coniugali”, ma è piuttosto “la presa d’atto di una gravissima frattura di quell’ordine sociale familiare” che, ripercuotendosi pericolosamente sull’intera società, rende indispensabile l’intervento pubblico a difesa del matrimonio e della famiglia (Francesco D'Agostino, Il vero nodo: il divorzio “giusto”, “Avvenire”, 3 novembre 2012).
In sede di discussione parlamentare (Resoconto stenografico della seduta n. 411 del Senato del 17 marzo 2015), il senatore Carlo Giovanardi ha perciò precisato che non si può fondare la società su un elemento talmente labile come l’innamoramento e l’amore, senza che vi sia alcuna educazione verso concetti quali il dovere, la responsabilità, gli obblighi nei confronti dei figli, e permettendo che, innamorandosi di un'altra persona, si possa buttare immediatamente all’aria il matrimonio precedente.
Focalizzando l’attenzione unicamente sugli interessi dei singoli membri della coppia, secondo la deputata del NCD Eugenia Roccella si finisce per rendere il matrimonio sempre più simile a un semplice patto di convivenza che non richiede un particolare impegno e alleggeriscedi fatto l’impegno matrimoniale (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014).
Il deputato Antonio Palmieri, nella sua dichiarazione di voto finale, ha concluso amaramente affermando che il divorzio breve conferma un orientamento culturale di fondo per il quale ogni rapporto è precario, flessibile e reversibile. Così, anziché generare un “noi” si mettono insieme temporaneamente due “tu” destinati forse a non incontrarsi mai in modo definitivo (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015).
I tempi legali non coincidono con i tempi interiori
A queste argomentazioni si aggiunge, inoltre, un’acuta osservazione della psicologa e mediatrice familiare Costanza Marzotto (Benedetta Verrini, “L'importanza del tempo non è trascurabile”, “Famiglia Cristiana”, 9 aprile 2014), la quale osserva che esiste uno “scollamento” tra i tempi interiori e i tempi stabiliti dalla legge, poiché “quella della separazione è una delle decisioni più difficili della vita, anche per le coppie non sposate. La gestazione della decisione dura in media due anni. Una volta dichiarata la volontà, i tempi interiori (sia di chi riceve la notizia sia di chi la promuove) sono molto lunghi. C’è tutto un carico di sofferenza, risentimento, delusione da smaltire. Inoltre, ci sono anche i tempi legati alla riorganizzazione della vita: trovare una nuova casa, tenersi o trovare il lavoro, evitare il collasso economico, comunicare la scelta ai figli, quando ci sono, e programmare anche il loro futuro, la condivisione della potestà, l’introduzione di eventuali nuovi partner”. Ne consegue, secondo la psicologa, che l’importanza del tempo non è assolutamente trascurabile, “se non per la riconciliazione, che purtroppo è molto rara, almeno per l’elaborazione del lutto, per l’analisi necessaria a ripartire, riorganizzando la propria vita, senza replicare in modo seriale gli stessi errori”.
Secondo i dati statistici, i cittadini non manifestano alcuna urgenza di divorziare
In realtà, secondo il deputato Alessandro Pagano, non vi è neppure una reale esigenza sociale di abbreviare i tempi per lo scioglimento del matrimonio. Infatti, circa il 40% delle separazioni non si trasforma in un divorzio, con ciò sottolineando come moltissimi coniugi preferiscano permanere in uno stato di separazione caratterizzato spesso da rapporti civili (Resoconto seduta della Seconda Commissione Permanente Giustizia del 14 maggio 2014).
Dello stesso avviso è il senatore del PD Gianpiero Dalla Zuanna, secondo cui i dati statistici dimostrano che “è […] sbagliata l’idea di un numero soverchiante e crescente di coppie incatenate dai tempi troppo lunghi intercorrenti fra separazione e divorzio” (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015). In occasione della discussione al Senato, ha infatti sostenuto che solo un numero contenuto di coppie sente l’urgenza di divorziare e di farlo in tempi brevi, mentre la maggioranza delle coppie tende a muoversi con prudenza rispetto al divorzio, evitando di chiederlo o chiedendolo solo dopo un periodo di separazione assai più prolungato di quello minimo previsto dalla legge attuale.
Anche secondo l’avvocato Massimiliano Fiorin, intervistato da “Tempi” (Leone Grotti, Il divorzio breve? Sarà brevissimo. Eppure “i numeri dicono che gli italiani non hanno nessuna fretta di lasciarsi”, 16 maggio 2014) “tutta questa fretta è ingiustificata. Non c’è tutta questa pressione, non c’è questo esercito di coppie che vogliono divorziare ma sono costrette ad aspettare. In più del 60% dei casi i coniugi non divorziano appena sono passati i tre anni, ma restano separati a tempo indefinito”, e ciò “sia perché hanno difficoltà ad affrontare i costi di un divorzio, sia perché non sentono l’urgenza di recuperare lo stato libero. Sono pochi statisticamente quelli che si risposano dopo il fallimento del primo matrimonio, specie ora che la famiglia e il matrimonio vengono sempre più svalutati”. Fiorin ha ricordato, inoltre che “le donne hanno grandi vantaggi a restare separate e non divorziate”: infatti “nel 75% dei casi è la moglie a chiedere la separazione, mentre nel 60% dei casi e oltre sono poi i mariti a chiedere il divorzio. Questo per ragioni economiche: da separata, la moglie ha diritto a percepire un assegno che le consenta di mantenere il tenore di vita che aveva in precedenza. Quando si divorzia, invece, l’assegno assume una funzione compensativa, si parametra cioè sul contributo che la moglie ha dato per la durata delle nozze, e assistenziale nel caso si trovi in difficoltà economiche”.
Note e Links
L’eccessiva attesa dalla separazione al divorzio esaspera i conflitti
Presentando alla Camera la proposta di legge (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014), la deputata relatrice Alessandra Moretti ha sottolineato la ratio profonda che sostiene l’intero provvedimento, finalizzato alla salvaguardia della cultura della famiglia che deve sempre prevalere sulla cultura del contenzioso.
La stessa onorevole Moretti, intervistata dal quotidiano “Europa” (Francesco Maesano, Moretti: “Divorzio breve, spero che il testo non cambi”, 29 maggio 2014), ha poi precisato che la riforma sul divorzio breve ha come unico scopo quello di “favorire le procedure consensuali alla fine del matrimonio” nell’interesse della famiglia e dei minori, che meritano di essere difesi “dagli effetti di lunghe trafile per ottenere il divorzio”. D’altronde, il legislatore deve intervenire per facilitare “la normalizzazione delle relazioni senza esprimere giudizi morali o etici”, favorendo altresì “la nascita di nuovi gruppi familiari, le cosiddette famiglie ricostruite”.
Con il divorzio breve, dunque, si mira ad indebolire la conflittualità tra i coniugi perché, come precisato anche dall’onorevole Marisa Nicchi di SEL nella successiva seduta del 29 maggio (Resoconto stenografico della seduta n. 236 del 29 maggio 2014), il termine di tre anni costituisce “un’inutile angheria che spesso esaspera i conflitti, induce a sentimenti di rivalsa, impedisce la ricostruzione serena di una vita affettiva”.
In questa direzione si esprime anche un rappresentante della Chiesa cattolica, monsignor Domenico Sigalini, arcivescovo di Palestrina, il quale ha affermato che “un matrimonio che finisce è sempre un fallimento, ma il divorzio breve può diventare una forma di giustizia. Se il fallimento è chiaro e irrevocabile, è ingiusto perdersi in lunghe battaglie giudiziarie che finiscono solo per aggiungere esasperazione ad una situazione già di per sé esasperata” (Bruno Riccardo, “Famiglia a pezzi”, “No, aiuta”. Cattolici divisi sul divorzio breve, “Corriere della Sera”, 24 aprile 2015).
Anche se mancano dati statistici a riguardo, inoltre, l’onorevole Luca D’Alessandro ha evidenziato come i fatti di cronaca ci dimostrino “l’esistenza di collegamenti diretti tra lo scatenarsi di violenza e follia domestica e lo stress legato alle procedure giudiziarie di scioglimento del matrimonio” (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014). In questo senso l’avvocato FrancescaLa Forgia, nel suo articolo "Finchè morte non ci separi". Divorzio breve per scongiurare il femminicidio, pubblicato su “La Ventisettesima Ora” (“Il Corriere della Sera”) il 20 giugno 2015, ha richiamato il rapporto ombra 2011 CEDAW (Convenzione Onu per l’eliminazione delle discriminazioni contro le donne), il quale ha raccomandato all’Italia di ridurre i termini del divorzio in quanto “l’impossibilità di sciogliere il matrimonio in tempi rapidi, determina un acuirsi dei conflitti tra i coniugi. Molto spesso l’uomo durante tutta la durata del procedimento pone in essere condotte persecutorie o di controllo nei confronti della donna, che non riceve adeguata protezione. La donna che denuncia violenze e condotte persecutorie da parte del partner nella fase di separazione o di divorzio non viene creduta, sulla base del pregiudizio che le sue denunce possano essere strumentali al procedimento in atto. […] Non sono infrequenti i casi di femminicidio, preceduti da numerose denunce nei confronti dell’ex partner, causati proprio da questa ingiustificata normalizzazione della violenza maschile sulle donne in fase di separazione”. L’avvocato, a tal proposito, ricorda “un caso fra tanti, troppi: Giuseppa Corvi, solo 43 anni, uccisa il 14 aprile scorso a martellate dal marito quarantottenne in provincia di Terni. I due si erano visti per un ‘colloquio chiarificatore’, uno dei tanti che si devono sopportare in un ‘periodo di riflessione’ attualmente troppo lungo”.
Riducendo i tempi di attesa, dunque, si può rendere meno drammatico il contesto della rottura e si permette altresì, secondo la senatrice della Lega Nord Erika Stefani, che le questioni che hanno dato origine alla crisi coniugale siano trattate in sede di separazione e divorzio in tempi ravvicinati, quasi come fossero unitarie, così evitando di prolungare all’eccesso i momenti di difficoltà e di conflitto diretto (Resoconto stenografico della seduta n. 411 del Senato del 17 marzo 2015).
È ciò che ha sostenuto sulle pagine di “Europa” la senatrice PD Rosanna Filippin (Divorzio breve, perché sì, 2 dicembre 2014), sottolineando che “gli attuali tre anni (dall’omologa di separazione o dal passaggio in giudicato della sentenza) sono un tempo troppo lungo, economicamente ed umanamente costoso, che aumenta i conflitti fra i coniugi anziché favorire la solidarietà e la condivisione delle scelte nell’interesse della famiglia. Senza dimenticare che vi sono ‘nuove’ famiglie che si formano nei tempi lunghi dei procedimenti italiani, famiglie altrettanto bisognose di riconoscimento e tutela”. La riduzione dei tempi per il divorzio, pertanto, “mira ancora una volta a premiare la ricerca dell’accordo: il protrarsi di cause e processi distrugge le persone e le famiglie e spesso pregiudica, talvolta irrimediabilmente, il futuro dei coniugi e dei loro figli”.
Tempi lunghi non aumentano la possibilità di riconciliazioni tra i coniugi
Il relatore Luca D’Alessandro è certo, infatti, che i tempi lunghi dello scioglimento del matrimonio alimentano il conflitto più che la riscoperta della solidarietà tra i coniugi (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014), e così anche Michela Marzano, deputata del PD e docente di Filosofia, la quale, in un editoriale apparso all’indomani del voto finale su “La Repubblica”, afferma: “Non è certo il passare del tempo che permette a due persone che non vogliono più condividere la propria vita di restare insieme. Il tempo, soprattutto quando si parla di affetti e di sentimenti, non è mai univoco. E se alcune volte permette di ricucire le ferite, altre volte non fa altro che esasperare ancora di più le tensioni e i conflitti esistenti” (Michela Marzano, Adesso il divorzio è finalmente breve, “La Repubblica”, 23 aprile 2015).
In particolare, come chiarito dalla deputata Irene Tinagli durante la prima lettura della proposta di legge alla Camera, la forzatura normativa che impone alla coppia un tempo così lungo prima di addivenire allo scioglimento del vincolo comporta delle tensioni all’interno della famiglia, che si ripercuotono negativamente sul coniuge che non ha autonomia finanziaria e che pertanto è talvolta costretto a subire ricatti, minacce e violenze (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del26 maggio 2014, cit.).
Pertanto, seppure la lunga attesa di tre anni aveva proprio lo scopo di indurre la coppia ad un periodo di meditazione, nella speranza di giungere ad un riavvicinamento, per il matrimonialista Cesare Rimini “bisogna avere il coraggio di dire che quei tempi di riflessione, visto che i numeri sono testardi, non hanno determinato riconciliazioni” (I tempi brevi per il divorzio sintomo di civiltà anche giuridica, “Corriere della Sera”, 31 marzo 2014). E in effetti, nel corso della discussione in aula, numerosi parlamentari hanno citato dei dati a sostegno di tale tesi, come ad esempio il deputato Tancredi Turco, all’epoca appartenente al M5S, il quale ha ricordato che solo il 2% delle coppie che si separa poi si riconcilia e torna a vivere sotto lo stesso tetto. Ciò rappresenta in modo inequivocabile che in genere chi si rivolge al tribunale abbia già maturato una scelta irreversibile, per cui questa lunga pausa di riflessione tra separazione e divorzio appare del tutto inutile (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014, cit.).
È ovviamente auspicabile che le coppie in difficoltà possano in ogni caso ravvedersi e riappacificarsi nel tempo; ma, poiché questo succede in pochissimi casi, occorre tutelare il restante 98% dei coniugi che vuole ottenere il divorzio in tempi accettabili, soprattutto perché i tempi lunghi spesso non fanno che logorare i rapporti personali e patrimoniali (Vittorio Ferraresi, Resoconto stenografico della seduta n. 412 della Camera dei Deputati del 21 aprile 2015). Peraltro, nella sua dichiarazione alla Camera, l’onorevole Giovanni Mottola di FI ha evidenziato come il passaggio da tre anni ad un anno – o a sei mesi nel caso di separazione consensuale – non impedisca in alcun modo le riconciliazioni, il cui verificarsi è dovuto al convincimento personale dei protagonisti della vicenda e non può essere l’effetto di un intervento legislativo che imponga scelte di questo tipo (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014, cit.).
La conflittualità non si riduce con il divorzio breve ma con la predisposizione di strumenti ad hoc
Un articolo di “Famiglia Cristiana” del 22 maggio 2012 (Divorzio breve, nulla di fatto) ha raccolto le opinioni di diversi esponenti della società e della politica che si sono dichiarati contrari al divorzio breve e, in particolare, alla tesi secondo la quale la sua introduzione permetterebbe una riduzione della conflittualità tra i coniugi. Nella specie, l’onorevole Massimo Polledri della Lega Nord ha dichiarato che “una società che semplifica il divorzio è una società che getta la spugna dinanzi alle difficoltà delle coppie e che le abbandona alle loro crisi ed ai loro problemi”, posto che “più che abbreviare le procedure per il divorzio […] l'impegno dovrebbe essere quello di aiutare le persone a ricostruire l'unità”, come precisato dal cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia. E ciò, secondo l’onorevole Barbara Saltamartini della Lega Nord, potrebbe essere attuato potenziando le procedure attraverso cui risolvere i conflitti familiari e prevenirli.
Anche l’onorevole Massimiliano Fedriga, nella sua dichiarazione di voto alla Camera, ha escluso fermamente che la durata più breve della separazione possa incidere positivamente sulla conflittualità familiare; occorre, piuttosto, mettere a disposizione dei coniugi che stanno vivendo una crisi coniugale tutti gli strumenti utili affinché la riconciliazione possa avvenire, come ad esempio dei percorsi di mediazione familiare. A tal proposito, nella medesima occasione ha ricordato che la norma che prevede l’attesa di tre anni per poter richiedere il divorzio è stata introdotta proprio allo scopo di favorire la riconciliazione tra i coniugi (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
Dell’opportunità di garantire ai coniugi un tempo di riflessione e di ripensamento davanti alla crisi di un progetto di coppia è convinto anche il direttore di “Famiglia Cristiana”, don Antonio Sciortino (Un altro modo per abbandonare famiglia e figli, “Famiglia Cristiana”, 24 aprile 2015), secondo cui “cercare di accorciare i tempi non è una soluzione, ma una via di fuga per una società che non vuole o non sa offrire sostegno, spazi di ascolto e di dialogo a una coppia in crisi”.
Tempi brevi tra la separazione e il divorzio impediscono la riflessione e la riconciliazione
Con il divorzio breve, secondo l’onorevole Paola Binetti, si esclude a priori ogni possibilità di un ripensamento sulla crisi, negando che si possa addivenire ad una riconciliazione e rigettando qualsiasi opportunità di recupero della coppia (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014) o, come affermato dal giornalista e politico Renato Farina sulle pagine di “Tempi” (Così il divorzio breve darà lunga vita al Frankenstein islamista, 2 maggio 2015), rifiutando qualsiasi “possibilità di una grazia” e rinunciando “a che accada qualcosa che possa trasformare l’aridità improvvisa del sentimento in un amore solido e largo”.
Le medesime motivazioni sono alla base dell’opinione contraria al divorzio breve manifestata in più di un’occasione dal cardinale Angelo Bagnasco, il quale ha precisato che “i tempi più lunghi tra la separazione e il divorzio - tre anni attualmente - non sono una forma di coercizione della libertà ma sono da parte della società e dello Stato una possibilità perché le persone coinvolte possano far decantare le emotività e le situazioni di conflitto in modo da affrontare con maggiore serenità un passo così grave come il divorzio” (Orsola Vetri, Divorzio: “il tempo lungo può essere un aiuto”, “Famiglia Cristiana”, 7 aprile 2014).
In questo senso, anche il giudice milanese Gloria Servetti ha precisato che “il problema non è la velocità, anzi occorre sempre del tempo per elaborare il lutto di una separazione. L’esperienza mi ha insegnato che il benessere non sta nel divorziare prima o dopo, ma nel separarsi in modo maturo e consapevole” (Paolo Colonnello, “Sei anni di matrimonio il triplo per lasciarci”, “La Stampa”, 23 aprile 2015). A tal proposito ha sottolineato che “sei mesi o un anno non consentono comunque di capire come sarà meglio divorziare, soprattutto in presenza di figli e minori” (Paolo Colonnello, ibidem).
I cosiddetti “tempi supplementari”, allora, sono necessari per far riflettere le coppie affinché comprendano se ci sono i margini per superare il conflitto; a fortiori, secondo Alessandro Pagano, laddove vi siano dei figli minori, poiché “tagliare presto e subito” va bene quando si è soli con la propria vita, ma non “quando c’è il frutto della vita coniugale”, e cioè i figli.
Infine, un termine così breve non garantisce abbastanza il coniuge più debole sotto il profilo economico e psicologico, in quanto viene schiacciato dalla scelta dell’altra parte e costretto a fare un accordo a delle condizioni che probabilmente non avrebbe accettato, se avesse avuto più tempo a disposizione per riflettere e per superare la fase di criticità psicologica (Alessandro Pagano, Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
Con la riduzione dei tempi per il divorzio si accorcia la distanza con gli altri paesi europei
Se per i sostenitori del divorzio breve è certo che i tempi previsti dalla legge per ottenere lo scioglimento del matrimonio sono decisamente eccessivi, tale valutazione appare ancora più evidente raffrontando la normativa italiana con quella degli Stati a noi più vicini per tradizione e disciplina giuridica. Questo costituisce una delle argomentazioni principali addotte dalla relatrice Alessandra Moretti alla presentazione della proposta di legge in Commissione Giustizia alla Camera il 27 giugno 2013 (II Commissione permanente (Giustizia)), e con lei si è mostrato concorde anche il deputato Tancredi Turco, il quale ha sottolineato che l’istituto della separazione quale condizione per il divorzio costituisce un’eccezione nell’area europea presente solo in Italia, in Irlanda del Nord e a Malta, mentre nella gran parte degli Stati esteri tale duplicità non esiste, essendo sufficiente il più delle volte una separazione di fatto protratta per un breve periodo di tempo (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014).
Rendendo più agevole ottenere il divorzio in Italia, si evita il fenomeno del forum shopping
L’arretratezza dell’Italia rispetto al resto d’Europa ha inoltre generato il criticabile fenomeno del forum shopping o turismo divorzile, che tuttavia è pienamente legittimo in forza del regolamento (CE) n. 2201/2003, il quale riconosce piena ed immediata efficacia in tutto il territorio dell’Unione Europea alle sentenze di divorzio pronunciate in uno Stato membro. Poiché, dunque, l’istituto del divorzio in Italia è farraginoso a causa delle preclusioni temporali imposte per legge e dei suoi vincoli procedurali, si assiste a quello che l’onorevole Tancredi Turco ha chiamato “viaggio della speranza per un divorzio breve”, ovvero un flusso crescente di coppie che, per ottenere in tempi più brevi lo scioglimento del matrimonio, si recano all’estero applicando la più favorevole normativa di altri Stati dell’Unione Europea, come Spagna o Romania (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014). Con la conseguenza che il mancato adeguamento dell’Italia agli standard europei, favorendo il fenomeno del turismo divorzile, secondo il deputato Luca D’Alessandro, ha di fatto creato anche situazioni di forte disparità e discriminazione, perché solo chi ha le risorse economiche può cambiare residenza e sfruttare gli strumenti offerti dagli altri paesi dell’Unione (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
L'Italia non ha bisogno di una legge sul divorzio breve
Quello che per i sostenitori del divorzio breve costituisce un sintomo di arretratezza culturale dell’Italia, per la deputata Eugenia Roccella è, al contrario, una specificità da preservare gelosamente e che merita di essere salvaguardata. Infatti, secondo l’onorevole del NCD la percentuale di divorzi in Italia è circa la metà della media europea e ciò fa sì che il nostro paese sia in controtendenza rispetto agli Stati confinanti. Si tratta di un’eccezione che non deve essere classificata come sintomo di scarsa modernità né dimostrazione del fatto che il nostro paese sia socialmente e culturalmente antiquato rispetto al resto d’Europa, ma di una caratteristica virtuosa che va tutelata. Tuttavia, con l’introduzione del divorzio breve si rinnega tale specificità, poiché si asseconda, invece che arginarla, la crisi della famiglia, che dal punto di vista socio-economico ha costituito un potentissimo motore per lo sviluppo del paese (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014).
Analogamente, in occasione delle dichiarazioni di voto alla Camera, il deputato Mario Marazziti ha evidenziato il ruolo fondamentale dell’istituzione familiare nella storia italiana, sottolineando che con la riforma sul divorzio si rischia di fare in modo che “la famiglia italiana sia come Pompei, cioè unica al mondo, ma mai incoraggiata a cercare di essere meno fragile di quello che già è a causa della vita” (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
Peraltro, l’onorevole Antonio Palmieri, nella medesima seduta, ha portato all’attenzione dei colleghi la circostanza che, se proprio si vuole guardare all’esperienza dei paesi limitrofi, è opportuno allora precisare che in alcuni di questi Stati, come in Inghilterra e in Galles, se non ci sono motivazioni oggettive per giungere al divorzio e la richiesta di scioglimento è fondata esclusivamente sulla volontà dei coniugi, laddove vi siano figli sarà necessario avviare preliminarmente un percorso obbligatorio di mediazione familiare, al fine di aiutarli a trovare una soluzione alla loro crisi.
Note e Links
I figli saranno vittime dell’irresponsabilità dei genitori
In occasione del dibattito parlamentare sul divorzio breve, numerosi esponenti politici hanno manifestato la loro contrarietà alla riduzione del tempo intercorrente tra separazione e scioglimento del matrimonio in ragione dei pregiudizi che l’introduzione della norma in discussione può arrecare ai figli minori, vittime dell’irresponsabilità dei genitori.
Così, infatti, ha commentato “Famiglia Cristiana” all’indomani del voto: “ridurre il matrimonio e il suo significato giuridico e sociale a qualcosa di sempre più simile a un patto elastico di convivenza, che si può sciogliere in brevissimo tempo e con estrema facilità, è un pericolo per tutti a cominciare dai figli”, i quali “sono sempre meno tutelati e vittime dell’irresponsabilità” (Antonio Sanfrancesco, Il divorzio breve è legge, bastano sei mesi per cancellare una famiglia, “Famiglia Cristiana”, 22 aprile 2015).
Il divorzio breve, secondo la deputata di Area Popolare Paola Binetti, costituisce dunque l’esemplificazione più chiara del fallimento di un sistema familiare che ormai dimentica anche la tutela dei bambini, proprio in quei contesti dove i figli soffrono maggiormente perché sono ancora minori e quindi con meno capacità e risorse personali per affrontare la situazione (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015).
In questo senso, don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia, ha sottolineato che accorciare i tempi del divorzio non può che “aumentare l'angoscia dei figli che vorrebbero i genitori uniti” (Orsola Vetri, Una legge che non cura le ferite,“Famiglia Cristiana”, 15 maggio 2014), e tale timore è confermato anche dalla psicologa Maria Rita Parsi che, in un’intervista di “Avvenire” del 23 marzo 2012, ha fermamente sostenuto come l’ipotesi del divorzio breve sia “egoistica, assolutamente adultocentrica. Come può un figlio nello spazio di un anno elaborare il lutto della perdita di un genitori? Vederne magari un altro entrare in casa?” (Viviana Daloiso, La psicologa: "Proposta adultocentrica. Ignorati i bisogni dei figli").
Occorre una cautela maggiore nel caso in cui la coppia in crisi abbia figli minori
Anche tra coloro i quali si sono dichiarati non del tutto contrari all’introduzione del divorzio breve, si sono alzate voci di dissenso circa l’equiparazione della disciplina applicabile alle coppie senza figli e alle famiglie con bambini, occorrendo una tutela maggiore, in quest’ultima ipotesi, per salvaguardare il nucleo familiare.
Il senatore Ignazio La Russa così esplicita la sua posizione a riguardo: “In particolare, l'obiezione che io muovo a questa proposta di legge, a questa legge ormai dopo il presumibile voto che verrà da qui a pochi minuti, è di non avere inserito nessun elemento che salvaguardi in maniera particolare una famiglia dove vi siano dei figli. Credo cioè che considerare alla stessa stregua una famiglia composta da marito e moglie, e una famiglia in cui invece siano nati dei figli, non sia corrispondente al sentire comune. Credo che tutti oggi avvertano, coloro che sono convinti che l'istituto del divorzio e della cessazione degli effetti civili del matrimonio sia positivo, tutti però avvertono una differenza fra questi due tipi di famiglia” (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014)
Anche il senatore Aldo Di Biagio, nella sua dichiarazione in aula, ha sostenuto che occorre fare un distinguo in presenza di figli minori, per i quali vedere i genitori che si separano è un evento che li lacera internamente, poiché vedono consacrarsi una situazione in cui l’unione è trasformata in divisione e l’amore in odio (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015). Proprio per questo è necessario uno sforzo in più per tentare una ricomposizione in presenza di figli minori, come ha sostenuto anche il senatore del PD Stefano Lepri, secondo il quale in questa ipotesi sarebbe opportuno mantenere un periodo di separazione di almeno dodici mesi perché “se è proprio inevitabile far soffrire terribilmente i bambini, come quasi sempre avviene (con traumi che li portano ad essere frequentemente nevrotici e irascibili), almeno facciamolo in un tempo tale da accompagnare e ridurre queste loro sofferenze” (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015).
“Famiglia Cristiana”, a tal proposito, ha criticato apertamente la legge sul divorzio breve anche, e soprattutto, per la leggerezza con cui affronta il problema dei figli minori, in presenza dei quali è invece necessaria “un’azione di sostegno, di conciliazione e di mediazione, che chiede tempo e investimenti di ascolto e dialogo” (Antonio Sciortino, Un altro modo per abbandonare famiglia e figli, “Famiglia Cristiana”, 24 aprile 2015), richiamando le richieste in tal senso avanzate da alcuni parlamentari in sede di discussione del disegno di legge. In particolare, l’onorevole Carlo Giovanardi ha più volte sottolineato, in occasione del dibattito al Senato, che in presenza di figli minori serve qualche cautela in più. Secondo il senatore, dunque, è opportuno abbreviare in misura minore il termine per poter avanzare richiesta di divorzio; peraltro, se proprio si vuole evitare una differenziazione sulla base dei tempi della procedura, si potrebbe operare un distinguo quantomeno sulle modalità, prevedendo degli istituti, come la mediazione familiare, che accompagnino le coppie e le aiutino a rendere la separazione meno traumatica per i figli. D’altronde, ha ricordato l’onorevole Giovanardi, è ciò che già accade in paesi come l’Inghilterra dove, se non ci sono motivazioni oggettive comprovate, come adulterio o violenze, e ci sono figli minori, i coniugi che vogliano divorziare sono obbligati a sottoporsi preliminarmente ad un percorso di mediazione familiare che può durare dai nove ai ventisette mesi (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015, cit.)
I figli trarranno vantaggio dalla riduzione della conflittualità e dalla definizione della situazione familiare
A chi paventa ripercussioni negative sull’equilibrio e sul benessere dei figli, i sostenitori del divorzio breve contrappongono la convinzione che questo costituisca, al contrario, un’importante tutela per i minori, poiché gli stessi cessano di vivere in un clima di guerra fredda o, addirittura, di grandi conflitti e violenze. Ciò è quanto ha sostenuto la senatrice Alessia Petraglia di SEL nel corso del dibattito parlamentare (riportato nel Resoconto stenografico della seduta n.409 del Senato del 12 marzo 2015), e a lei si sono aggiunte numerose altre voci, come quella del deputato Tancredi Turco che, in sede di votazione finale, ha dichiarato che una procedura di divorzio dai tempi dilatati ha “forti implicazioni emotive che talvolta portano i coniugi a perdere ragionevolezza” e a coinvolgere anche i figli “facendoli oggetto di scambio rispetto a rivalse economiche o relazionali” (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015).
La forte conflittualità tra i genitori, dunque, esasperata dai lunghi procedimenti di separazione e divorzio, si riverbera necessariamente sui figli minori, i quali, piuttosto che dal permanere di una situazione di instabilità e false speranze, traggono giovamento proprio dalla riduzione degli scontri e dalla definizione della situazione familiare, come ha sostenuto anche il deputato di FI Maurizio Bianconi (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015, cit.)
Difatti, a detta della deputata Marisa Nicchi, l’attesa che si vorrebbe continuare ad imporre negando la riforma dei termini per il divorzio non solo è inutile per i coniugi, che hanno già deciso, ma è anche dannosa per i bambini che debbono ancora di più soffrire per quel “per ora” che aumenta l’incertezza e toglie loro sicurezza e stabilità (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
La tutela dei figli non dipende dai tempi del divorzio
Se, da un lato, la riduzione del termine per avviare il procedimento di divorzio può tradursi in una complessiva diminuzione del periodo conflittuale, e dunque in un minor danno per i figli, dall’altro lato il relatore Luca D’Alessandro ricorda che, in realtà, il pericolo di una tutela meno forte per i minori non sussiste, poiché l’interesse degli stessi nel contesto della crisi di coppia è già ampiamente difeso nell’ordinamento italiano, soprattutto in seguito all’entrata in vigore della legge sull’affido condiviso, che garantisce al minore il diritto alla bigenitorialità anche in presenza di una crisi familiare (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014). Secondo la deputata Fabrizia Giuliani, che si è espressa nella medesima seduta del 26 maggio 2014, proprio perché esiste una norma di carattere generale a tutela dei figli in caso di scioglimento della coppia, sia essa coniugata o di fatto, laddove si introducesse una disciplina differenziata e più rigida in presenza di figli minori, sorgerebbe il rischio di dare vita ad una discriminazione rispetto ai figli di una coppia non sposata, che può sciogliere in qualunque momento la propria relazione senza che sussista alcuna ulteriore regolamentazione relativa alla sorte dei bambini. A ciò si aggiunga che la tutela dei figli è preservata dal giudice “e non certo dal fatto che i coniugi debbano attendere sei mesi in più o sei mesi in meno”, sì che l’argomentazione sollevata pare più legata “ad un aspetto ideologico che non ad un aspetto giuridico”, come affermato dall’onorevole Franco Vazio in sede di dichiarazione di voto alla Camera (Resoconto stenografico della seduta n. 413 del 22 aprile 2015).
Infine, in una opinione riportata sul “Corriere della Sera”, l’avvocato Cesare Rimini ha precisato che “i figli minori delle coppie sposate o di fatto soffrono per la fine dell'unione dei genitori, perché si lasciano, perché si separano, perché divorziano, e ai genitori si deve chiedere il rispetto, la responsabilità, la solidarietà per fare in modo che il loro contrasto non ricada sulla testa dei loro figli”. Non è, dunque, una questione di tempistiche, poiché “i minori non vanno a leggere gli atti dello stato civile, ma valutano solo il comportamento dei genitori e sono tutelati se quei comportamenti sono responsabili” (Cesare Rimini, Divorzio breve anche con figli minori, le vittime più fragili di ogni conflitto, “Corriere della Sera”, 24 febbraio 2012). Spetta, allora, ai coniugi impegnarsi personalmente a non scaricare la propria rabbia sulle spalle dei figli, facendo così un gesto di maturità per tutelarli e ridurne il più possibile la sofferenza (Vittorio Ferraresi, Resoconto stenografico della seduta n. 412 della Camera dei Deputati del 21 aprile 2015).
Note e Links
Il divorzio breve, banalizzando il matrimonio, priva di fondamento la famiglia e di conseguenza l’intera società
Alla base dell’opposizione di molti alla riduzione dei tempi per il divorzio, vi è la convinzione che il divorzio breve sia “l’ennesimo tassello d’una più ampia delegittimazione del matrimonio”, evento ormai considerato poco più che privato e di conseguenza “rescindibile facilmente come altri contratti che hanno a oggetto cose e relazioni di tipo economico” (Carlo Cardia, I veri diritti della famiglia, “Avvenire”, 30 maggio 2014).
In questo senso, per Riccardo Cascioli (Attacco alla famiglia. Ci vuole un Sinodo come Dio comanda, “La Nuova Bussola Quotidiana”, 31 marzo 2015) “il ‘divorzio breve’ non consiste affatto nella sola abbreviazione dei tempi, ma cambia profondamente il nostro diritto di famiglia: finora il divorzio, per quanto ammesso e regolato dalla legge, nel nostro ordinamento è sempre stato concepito come un ‘male necessario’ che risolve questioni laddove non si è riusciti a vivere il ‘bene’ del matrimonio. In altre parole: per il nostro diritto di famiglia il matrimonio resta il bene da perseguire, e il divorzio quasi una deroga per situazioni ingestibili. Per questo era previsto anche un congruo tempo di separazione per dare la possibilità di riconciliarsi. Con il ‘divorzio breve’ invece questo tempo praticamente si azzera, e in tal modo matrimonio e divorzio vengono a trovarsi praticamente sullo stesso piano dal punto di vista del valore: un colpo mortale per la famiglia”.
Anche Luciano Moia di “Avvenire” si è schierato apertamente contro la nuova legge, considerandola piuttosto un “traguardo di inciviltà” che porterà a costruire “un’agile e dinamica società di unioni usa e getta, rapporti più flessibili, disimpegnati, quasi fulminei, facilmente smontabili e ricomponibili” (Divorzio breve, un incivile traguardo, “Avvenire”, 23 aprile 2015).
Per Mario Adinolfi (Divorzio breve, prima legge di una serie, “La Croce Quotidiano”, 23 aprile 2015), l’introduzione del divorzio breve non è altro che un primo passo verso la dissoluzione dell’istituto matrimoniale e della famiglia: “è in atto un’offensiva figlia di una visione antropologica che vuole far saltare la famiglia naturale, trasformando le persone individui slegati dalla dimensione relazionale familiare naturale”.
Il senatore Maurizio Gasparri, in sede di dichiarazione di voto, in dissenso con il gruppo di appartenenza, ha parlato di “banalizzazione” del vincolo matrimoniale, il quale, invece, costituisce il fondamento della famiglia secondo il preciso dettato dell’articolo 29 della Costituzionein base al quale “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (Resoconto stenografico della seduta n. 412 del Senato del 18 marzo 2015).
A tal proposito, il senatore Giuseppe Marinello ha affermato che con il divorzio breve si tende a svuotare di significato la solenne dichiarazione costituzionale, poiché rendere sempre più rapido lo scioglimento del vincolo coniugale ne comporta una profonda delegittimazione. Così, riducendo il matrimonio ad un evento assolutamente privato, si finisce per equipararlo ad un contratto avente ad oggetto relazioni di natura economica (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015).
Tuttavia, come ha precisato il deputato della Lega Nord Massimiliano Fedriga, il matrimonio non è un fatto meramente privato, ma è “un patto pubblico che fa una coppia con la società”; quest’ultima, in forza del vincolo, concede ai coniugi una serie di agevolazioni, investendo sul matrimonio quale fondamento della famiglia, che a sua volta costituisce il nucleo base della società (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014).
Il giurista Carlo Cardia si chiede, allora, “quale fondamento possa dare alla famiglia un matrimonio che può sciogliersi dopo pochi mesi, a prescindere dall’esistenza o meno dei figli, per esclusiva volontà di una delle parti”, nonché “quali diritti siano riconosciuti a una comunità così poco stabile da non superare neanche l’anno di vita” (I veri diritti della famiglia, “Avvenire”, 30 maggio 2014).
Stante il rilievo di carattere pubblico del matrimonio e della famiglia, con il divorzio breve si affaccia, perciò, il serio rischio che esso produca uno sgretolamento dell’istituto familiare che si ripercuoterà, secondo l’onorevole Gian Luigi Gigli, sull’intera società, considerata la funzione importante di ammortizzatore sociale che la famiglia svolge in Italia (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014). Anche don Paolo Gentili, direttore dell'Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia, è del medesimo avviso e ha ricordato che “anticipare i tempi per disfare la famiglia” non solo è un attacco a questa istituzione, ma una via che porta “a disgregare la stessa società che sulle famiglie si regge”, offrendo così alle coppie in crisi “una via d'uscita facile ma spesso piena di rovi, di ferite” (Orsola Vetri, Una legge che non cura le ferite, “Famiglia Cristiana”, 15 maggio 2014).
Il divorzio breve contribuirà a rendere più precari i legami sociali e a deresponsabilizzare i coniugi
Attraverso la riforma del divorzio, allora, ci si discosta dal modello di famiglia voluto dalla Costituzione, in base alla quale “non è un fatto solo privato ma che riguarda invece l’intera società”. Il giurista cattolico Giuseppe Della Torre, intervistato da “Famiglia Cristiana” il 29 febbraio 2012 (Divorzio breve? Non è lì la soluzione), ha sostenuto che occorre, dunque, “acquistare la consapevolezza della famiglia che nasce dal matrimonio come fatto pubblico e stabile nel tempo. […] Se quando finisce l’utile si scappa, la conclusione è che nessuno vuol prendersi impegni stabili. Ma così il matrimonio perde il suo senso antropologico e sociale”.
La precarietà dei legami e la perdita del senso di responsabilità delle giovani coppie è un timore percepito anche all’interno della Chiesa. Il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prolusione all’assemblea generale della CEI del 21-25 maggio 2012 (“avvenire.it”), ha infatti dichiarato che “in una cultura del tutto-provvisorio, l’introduzione di istituti che per natura loro consacrino la precarietà affettiva, e a loro volta contribuiscono a diffonderla, non sono un ausilio né alla stabilità dell’amore, né alla società stessa. La famiglia non è un aggregato di individui, o un soggetto da ridefinire a seconda delle pressioni di costume oggi particolarmente aggressive e strategicamente concentrate; non può essere dichiarata cosa di altri tempi. Ecco perché l’ipotesi del cosiddetto ‘divorzio breve’ contraddice gravemente qualunque possibilità di recupero, e rende complessivamente più fragili i legami sociali”.
Secondo il magistrato Alfredo Mantovano (Dopo il divorzio breve, gli accordi pre-matrimoniali. Ovvero: come ridurre la famiglia a contrattino precario, “Tempi”, 9 maggio 2015), ora che “rescindere un matrimonio è diventato più semplice che disdire un contratto di telefonia mobile”, quel timore è in realtà divenuto concreto, poiché “il matrimonio ha perso la sua forza responsabilizzante”. Ne consegue che, in presenza di qualunque problema nella coppia, sarà più facile rimuoverne la prima causa piuttosto che affrontarlo, perché quel vincolo coniugale è ormai percepito come un mero contratto di natura tendenzialmente privatistica, e non si vede più in esso “l’impegno-chiave della propria esistenza”.
Per il giornalista e saggista Michele Brambilla (Ma la famiglia non va sciolta in un soffio, abbiamo perso l’eternità del “ti amo”, “La Stampa”, 23 aprile 2015), l’introduzione del divorzio breve è simbolo di una banalizzazione del matrimonio per cui “si sta insieme finché si prova quello che si prova nei romanzi di Moccia, in un’eterna adolescenza. Chiunque si innamora prova il desiderio che quel che sta provando non finisca mai: e certo non si può esigere l’eternità dell’amore per legge, ma il ‘ti amo’ dei tempi nostri, cioè a tempo determinato, magari a tutele crescenti, beh insomma, forse un po’ di fascino l’ha perso. […]Il divorzio breve, se giudicato in superficie, è certamente una legge utile, che semplifica molte situazioni che altrimenti si trascinerebbero per anni, con il loro codazzo di rancori. Se guardato un po’ più in profondità, è invece anche la spia di come siamo cambiati di fronte appunto a termini come fatica, sacrificio, rinunce, perdono, responsabilità, fedeltà a un impegno preso e a una parola data. Tutte cose che abbiamo smarrito non solo riguardo al matrimonio”.
Gli effetti della riforma si produrranno a breve e a lungo termine, con l’aumento esponenziale dei divorzi e i riflessi negativi sulle nuove generazioni
L’effetto a breve termine sarà, senza dubbio, l’aumento del numero dei divorzi poiché, secondo il deputato Mario Sberna (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014), ridurre il periodo della separazione a pochi mesi significa incentivare la definitiva rottura dei matrimoni . Risponde, inoltre, ad una concezione usa e getta del vincolo coniugale, ridotto ad un fatto così banale da non richiedere neppure una pausa di riflessione seria prima di sancirne la fine, così favorendo, di fatto, “chi vuole più cause di divorzio possibili per […] arricchirsi personalmente”, come ha sostenuto Massimiliano Fedriga nella sua dichiarazione di voto alla Camera (riportata nel Resoconto stenografico della seduta n. 236, cit. ).
Una riforma che, allo stato attuale, può apparire di poca rilevanza, ben presto produrrà effetti disastrosi: è la teoria del piano inclinato, o anche della pallina di neve che, man mano che rotola, diventa sempre più grande fino a che si fa valanga, travolgendo tutto e tutti. Questo è ciò che prevede l’onorevole Alessandro Pagano in sede di discussione finale, poiché il divorzio breve contribuisce a destrutturare i cardini della società con terribili effetti futuri. Se, infatti, il concetto di responsabilità è già crollato, perché si vuole una società ludica fatta soltanto di divertimenti, a pagarne il vero prezzo saranno le future generazione, alle quali passiamo il testimone dicendo loro di spassarsela senza doveri né responsabilità (Resoconto stenografico della seduta n. 412 della Camera dei Deputati del 21 aprile 2015, ).
È dello stesso avviso anche Carlo Cardia, secondo il quale “il primo effetto che può prodursi con l’accelerazione dei tempi di scioglimento del vincolo è quello di provocare un vuoto nella psicologia e nella cultura dei più giovani, con la caduta di senso dell’impegno che si sta per assumere: un impegno che appare effimero, caduco, risolubile in tempi brevissimi, con tutele economiche e giuridiche assai limitate” (I veri diritti della famiglia, “Avvenire”, 30 maggio 2014).
In conclusione, a pagare le conseguenze della riforma dei tempi del divorzio non saranno solo le coppie e i loro figli, ma tutta la società, poiché “l’equazione 'matrimoni più fragili, divorzi più facili' dà sempre come risultato società più povere, frammentate, instabili” (Luciano Moia, Divorzi, chi corre e chi ci ripensa, “Avvenire”, 21 novembre 2014). Come ha ricordato il sociologo Luca Diotallevi, infatti, “il matrimonio è una istituzione e dunque […] una sottrazione di potere alle altre istituzioni. Una società con un matrimonio più debole è una società più povera e più controllabile” (Matrimonio debole, società più povera, “Corriere della Sera”, 25 aprile 2015).
Come scrive sul suo blog il giornalista e sociologo Giuliano Guzzo nell’articolo Dove vivono i politici che hanno votato il “divorzio breve”?, pubblicato sul suo sito il 24 aprile 2015, “per tanti, troppi anni il nostro paese è campato grazie alle risorse religiose, familiari e demografiche della mitica Italietta del Dopoguerra, ma ora la benzina sta finendo e che fa la politica? Finge che il problema non esista. Tentenna. Anzi no, peggio: preme sull’acceleratore velocizzando il declino. Non è chiaro fino a quando la filastrocca dei ‘nuovi diritti’ e dell’autodeterminazione assoluta tanto cara alla classe dirigente suonerà divertente. Speriamo solo che quando ci si sveglierà scoprendo che a destrutturare la famiglia si scherza col fuoco non sia troppo tardi”.
Rendendo più rapido il divorzio si agevola il fenomeno fraudolento dei matrimoni di comodo
Un ulteriore dubbio manifestato dagli oppositori del divorzio breve è che la sua introduzione possa agevolare, nella prassi, il fenomeno dei matrimoni di comodo. L’altra faccia della medaglia, secondo Emanuele Prataviera, è che qualcuno possa pensare ad un matrimonio combinato di comodo per raggiungere dei vantaggi esclusivamente personali, come ad esempio ottenere in via preferenziale e facilitata la cittadinanza, per poi divorziare poco dopo averla acquisita (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014). Anche l’onorevole Stefano Candiani della Lega Nord fa riferimento al medesimo rischio di un utilizzo fraudolento dello strumento, come già peraltro avviene; a tal proposito, nel corso della discussione in aula (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015), il senatore ha fatto riferimento alle indagini svolte nelle province di Varese e Milano, dove si erano insediate delle associazioni per delinquere che organizzavano nozze combinate a pagamento tra donne italiane e uomini extracomunitari. Infine, il senatore di FI Lucio Malan ha sottolineato un ulteriore pericolo, ovverosia che attraverso l’abbreviazione dei tempi per il divorzio si favoriscano matrimoni di comodo finalizzati ad ottenere un trasferimento lavorativo grazie al raggiungimento di un maggior numero di punti, in quanto coniugati con una persona che viva già nella città di destinazione (Resoconto stenografico della seduta n. 411 del Senato del 17 marzo 2015).
L’istituto del matrimonio e il valore della famiglia non sono a rischio
Per i sostenitori della riforma, i rischi paventati non sussistono. Dopotutto, come ha ricordato l’onorevole Irene Tinagli alla Camera, anche all’epoca del referendum del 1974 taluni invocavano scenari apocalittici di lacerazioni del tessuto sociale, che di fatto non si sono mai realizzati in quanto i cambiamenti culturali erano già avvenuti nella società e chiedevano solo che l’assetto normativo vi si adeguasse (Resoconto stenografico della seduta n. 233 della Camera dei Deputati del 26 maggio 2014).
Il reale pericolo per la famiglia, in realtà, sorge allorquando viene rinchiusa all’interno di un modello tradizionale che però non esiste più nella società italiana. Così facendo, secondo il senatore Giuseppe Lumia, “la rendiamo marginale, ottusa e del tutto priva di fascino” per le nuove generazioni. Non è il divorzio, dunque, la causa della crisi del matrimonio e della famiglia; al contrario, è un’opportunità di regolazione dei conflitti che, se non adeguatamente gestiti, possono far implodere la famiglia (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015). Ed infatti la relatrice Alessandra Moretti, nel presentare la proposta di legge alla Camera, ha dichiarato che con il divorzio breve si salvaguarda “la cultura della famiglia in quanto, riducendo la conflittualità, permette alla famiglia di sopravvivere anche qualora la coppia si sfaldi e non riesca più a stare insieme” (Resoconto stenografico della seduta n. 233 del 26 maggio 2014, cit.).
Peraltro, accorciare i tempi della separazione non è un indebolimento dell’istituto del matrimonio, perché la maggior parte delle persone si sposa per amore, e non certo pensando a come trovare la possibilità di divorziare, come ha precisato la senatrice Loredana De Petris durante la discussione in Senato. A sostegno della relazione della collega, l’onorevole Lucio Barani ha aggiunto che, dopotutto, “si nasce per essere sani, ma se ci si ammala bisogna ovviamente curarsi” (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015, cit.).
La famiglia non si tutela con il paternalismo statale
In realtà, secondo l’onorevole Luca D’Alessandro “tentare di tutelare l’unità e la stabilità della famiglia utilizzando strumenti normativi e legislativi che creino ostacoli allo scioglimento del vincolo matrimoniale è un approccio che paradossalmente discredita e lacera la stabilità familiare” (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015).
Non è con la costrizione che si può salvare la famiglia né, secondo la senatrice Alessia Petraglia, con il “paternalismo” dello Stato che impone tempi lunghi, perché è come se chiedesse: “ci avete pensato bene? Non volete pensarci sopra ancora un po’, magari le cose di aggiustano?” (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015). Non abbreviare i tempi per il divorzio, perciò, sarebbe una scelta ipocrita perché, come ha affermato l’onorevole Jole Santelli in sede di dichiarazione di voto (Resoconto stenografico della seduta n. 413 della Camera dei Deputati del 22 aprile 2015, cit.), significherebbe affermare che due persone maggiorenni, che decidono di sposarsi e di creare una famiglia, non abbiano poi la maturità di porre fine alla loro unione e lo Stato debba pertanto costringerli ad attendere degli anni in quanto ritenuti incapaci di scegliere.
Del medesimo avviso è anche Fabrizio Dell’Anna, (Divorzio breve sì, ma non lampo: diritti civili in ostaggio della morale cattolica, “Il Fatto Quotidiano”, 18 marzo 2015), che ricollega al condizionamento della Chiesa l’erronea collocazione del tema del divorzio breve tra le questioni “morali”, laddove invece sono in gioco i diritti civili dei cittadini: “in discussione c’è quella sacrosanta libertà di scelta che dovrebbe caratterizzare una società moderna e democratica come la nostra e che a tutt’oggi, invece, ci viene negata. Sì, perché noi italiani siamo, insieme a pochi altri cittadini europei, gli unici a essere ancora obbligati a ‘riflettere’, prima del divorzio, sulle nostre decisioni. Come se non fossimo in grado di farci carico di scelte difficili (come quella di separarsi) che dovrebbero essere, e comunque sono, scelte del tutto personali. Un intero popolo di adulti trattati alla stregua di bambini”.
Il divorzio breve può comportare l’aumento del numero dei matrimoni
La senatrice Emma Fattorini, inoltre, si è opposta fermamente alla teoria del piano inclinato, alla quale hanno spesso fatto riferimento gli oppositori della riforma paventando il rischio che, da una piccola modifica come quella che si introduce con il divorzio breve, nel tempo si producano effetti disastrosi sulla società, come una pallina che, lanciata su un piano inclinato, acquista sempre maggiore velocità travolgendo tutto ciò che incontra sul suo cammino. Al contrario, l'onorevole Fattorini ha negato che con la riforma in discussione si possano verificare i pericoli temuti, ed in particolare l’aumento dei divorzi. Velocizzare le procedure non vuol dire affatto segnarne un aumento; ha rammentato, a tal proposito, che si diceva che la depenalizzazione dell’aborto ne avrebbe aumentato il numero, mentre è successo l’esatto contrario tanto che i casi di aborto si sono dimezzati (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015).
In realtà, secondo il relatore Luca D’Alessandro, abbreviare i termini per il divorzio non è contro il matrimonio ma è, addirittura, a favore dello stesso. Difatti, ha affermato l’onorevole D’Alessandro, il numero di matrimoni probabilmente aumenterà perché una tale proposta di legge “ non alimenta il timore di quanti si trovano a compiere questo importante passo non porta in dote quella paura che, nel malaugurato caso di fallimento, si debba poi affrontare un’odissea giudiziaria in grado di dissuadere anche i più coraggiosi” (Resoconto stenografico della seduta n. 236 della Camera dei Deputati del 29 maggio 2014). Dello stesso avviso è anche il senatore Sergio Lo Giudice, secondo il quale introdurre il divorzio breve fa bene al matrimonio perché uno dei motivi per cui lo stesso è poco appetibile, anche e soprattutto agli occhi delle nuove generazioni, è proprio la difficoltà di scioglierlo, che di fatto rappresenta un forte deterrente (Resoconto stenografico della seduta n. 408 del Senato dell’11 marzo 2015, cit.). Ha conferma la tesi, infine, anche Daniele Vignoli, giovane demografo dell’Università di Firenze, il quale, intervistato da “La Repubblica”, ha ipotizzato che “il divorzio breve potrebbe dare un nuovo impulso agli sposalizi. Sapendo di potersi lasciare più facilmente, forse i giovani ricominceranno a sposarsi... ” (Maria Novella De Luca, Fuga dal matrimonio, 2 giugno 2015).
Infine, dinanzi al paventato rischio che l’introduzione del divorzio breve agevoli e favorisca il fenomeno fraudolento dei matrimoni di comodo, la senatrice di SEL Loredana De Petris ha ricordato che, in realtà, nel nostro paese esistono anche molte separazioni di comodo, principalmente per motivi fiscali, e che questa costituisce, tra l’altro, la ragione più frequente dell’elevato numero di separazioni che non si convertono in divorzi (Resoconto stenografico della seduta n. 409 del Senato del 12 marzo 2015).
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