Il finanziamento pubblico ai partiti è un mezzo attraverso il quale si garantisce uguaglianza e democrazia

La necessità di un finanziamento pubblico a disposizione dei partiti politici nasce da lontano. Dopo la traumatica esperienza fascista, troviamo una definizione extra-statuale del partito politico. Durante il ventennio fascista, infatti, i partiti politici furono messi a tacere e dichiarati fuori legge per favorire un’unica ideologia e un’unica fonte di potere. La Costituzione ha riconosciuto parzialmente la figura del partito, tra mille incertezze e cautele e i padri costituenti hanno preferito un’astensione prudente a qualsiasi tipo di decisione netta. L’esigenza di prevedere un finanziamento pubblico per sostentare tali forme di associazione nasce dalle disuguaglianze economiche e sociali arrecate proprio dall’esperienza del Ventennio.

Le fasce meno agiate della popolazione non erano adeguatamente rappresentate da forze politiche, che non riuscivano a mantenersi con le proprie risorse. La Commissione Bozzi aveva proposto di aggiungere un secondo comma all’art. 49 Cost., sul modello tedesco.: “La legge disciplina il finanziamento dei partiti, con riguardo alle loro organizzazioni centrali e periferiche, e prevede le forme e le procedure atte ad assicurare la trasparenza e il pubblico controllo del loro stato patrimoniale e delle loro fonti di finanziamento".

Gli scandali legati alla corruzione, come il caso “Caltagirone” e “Tangentopoli” non possono offuscare una ratio ben definita e fondata su solide basi. Il finanziamento pubblico è stato regolato per la prima volta con una legge adottata nel 1974 (L. 2-5-74 n. 195), che prevedeva forme di finanziamento generalizzate, proporzionali e trasparenti da parte dello Stato:
uno ai gruppi parlamentari per lo svolgimento di compiti istituzionali e l’altro per le spese elettorali. Uno annuale e l’altro occasionale e fornito dalla Presidenza della Camera.

La legge del 1974 è stata oggetto nel 1978 di un primo referendum abrogativo (avente cioè lo scopo di cancellare le regole esistenti) che però non ha avuto successo. Un nuovo referendum si è tenuto nel 1993, proprio nel periodo in cui forte era il sentimento di protesta contro i fenomeni di corruzione e di finanziamenti illegali ai partiti. In quell’occasione la maggioranza dei cittadini ha votato per l’abrogazione parziale della vecchia legge. Scompare così il finanziamento annuale, mentre rimane quello concesso in occasione delle consultazioni elettorali.
“Se i partiti spendessero il denaro del finanziamento pubblico per dare maggiore incisività al loro lavoro sociale sarei bene contento. E se investissero per formare amministratori capaci, non ci troveremmo a perdere più di 60 miliardi all’anno per inefficienza. La questione è che manca proprio questo tipo di cultura dell’amministrazione pubblica e dell’azione sociale diretta dei partiti. E non manca solo nei partiti” (Jacopo Fo, Il finanziamento pubblico ai partiti è male?, “ilfattoquotidiano.it”, 3 febbraio 2013).

In un sistema sano, dove tutte le tessere del mosaico sono al loro posto, dove tutto funziona come dovrebbe funzionare, il finanziamento pubblico non solo è auspicabile ma è anche necessario. I partiti politici hanno il compito di fare da tramite tra le esigenze dei cittadini e le istituzioni, devono rappresentare le istanze dell’intero popolo, devono quindi avere eguali possibilità e eguali risorse. Un politico che si faccia portavoce di problematiche ha bisogno di risorse per rispondere; il partito deve sostenere costi, soprattutto in campagna elettorale e questi costi, in un sistema politico equilibrato, devono essere cofinanziati dallo Stato, che ha cura delle associazioni portatrici di interessi comuni. “Forse il sistema migliore sarebbe quello in cui un finanziamento pubblico ai partiti funziona in modo rigoroso, l'essenziale per garantire che il partito possa mantenere i suoi dipendenti e fare campagna elettorale, senza che questo riceva finanziamenti a pioggia in quantità mostruose. Ma forse, in Italia, è chiedere troppo” (Finanziamento pubblico e privato ai partiti: qual è meglio?, “polisblog,it”, 22 dicembre 2014).

Così si esprime uno dei massimi costituzionalisti, Roberto Bin, sul referendum del 1993 che ha portato all’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti: “L’antipartitismo è un animale assai facile da cavalcare: era il secondo o il terzo tentativo di abrogare per via referendaria e, sull’onda dell’antipolitica alzata dallo scandalo di mani pulite, la popolazione italiana andò in massa a votare l’abolizione del finanziamento pubblico. Comprensibile, ma ciò non di meno un errore gravissimo. Un errore perché si è dato corpo ad una idea molto sbagliata, l’idea che la politica non costi e non debba costare. Nessuno penserebbe che dirigere un’azienda non costi e che si possa incaricare chiunque a farlo. L’idea che dirigere la politica nazionale sia invece un passatempo da affidare ad un dilettante – qualcuno ‘prestato alla politica’ – è stupida, semplicemente stupida. Dare in mano a delle persone non sufficientemente preparate e accuratamente selezionate la gestione del Paese è una follia: della loro preparazione e selezione dovremmo invece preoccuparci, e molto. Dovremmo investire, su questo, il necessario, non continuare a protestare che la politica non deve costare. C’è e ci deve essere un costo: così come il consiglio di amministrazione di una grande impresa o l’amministratore delegato di una società o i vertici di un’amministrazione pubblica costano, anche i vertici politici dello Stato costano e devono costare” (Roberto Bin, Costituzione, partiti e costo della politica, “www.robertobin.it”, consultato il 6 marzo 2017).

Claudio Alessandro Colombrita, 24 aprile 2017

“Quanti politici abbiamo in Italia? Ce li possiamo permettere? Non dico dal punto di vista finanziario, ma anche dal punto di vista della qualità. Perché noi abbiamo un corpo di politici estesissimo, come forse non c’è in nessun altro paese, il che è conseguenza di precise regole. Ma queste regole chi le ha volute? Chi ha pensato ai loro effetti? È un classico caso, secondo me, di legislazione cresciuta così, senza un progetto né una riflessione sistematica” (Roberto Bin, Costituzione, partiti e costo della politica, “www.robertobin.it”, consultato il 6 marzo 2017).

Partendo da questa affermazione di Bin, che pure si schiera apertamente a favore del finanziamento pubblico ai partiti, possiamo sviluppare un discorso contrario. Il finanziamento avrebbe senso se i costi della politica fossero limitati, se ci adeguassimo al numero dei parlamentari dell’Ue, se i nostri politici coltivassero senso di responsabilità e oculatezza nella gestione delle risorse. D’altronde, la diffidenza nei confronti della figura del “partito”, si riflette inevitabilmente nelle forme di finanziamento, incerte, poco sottoposte ai controlli, persino arbitrarie. Secondo i promotori del referendum del 1993, i Radicali, lo Stato deve favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire le strutture e gli apparati di partito, che devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti.

I partiti si devono autofinanziare, tramite tesseramenti o erogazioni private. Il singolo che crede nell’attività di partito, che vuole perseguire un interesse, può rappresentare il più prezioso alleato per la sua sopravvivenza. Lo Stato deve pensare a far funzionare le sue istituzioni, a garantire servizi per i cittadini, i partiti devono pensare alla loro strada e devono fare di tutto per funzionare al meglio.
D’altronde, gli italiani si sono espressi con un 90,3% al referendum del 1993, un risultato unico, storico, schiacciante, che manifesta l’intolleranza del popolo, che si sente abbandonato da uno Stato che pensa solo ad appoggiare le spese folle dei partiti.

Chi è contrario al finanziamento pubblico ai partiti, guarda con fastidio ai giochetti legislativi messi in piedi recentemente, con iniezioni di ossigeno ai partiti che, pur non chiamandosi finanziamenti, sono qualcosa di più di un semplice rimborso. Fondi straordinari, ingiustificabili, un’abolizione che è avvenuta progressivamente e che dovrebbe attuarsi dal 2017.

Roberto Perotti, professore ordinario di economia politica presso l'Università Bocconi di Milano, si è espresso senza mezzi termini a riguardo: “Se il popolo italiano ha votato per l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, questo dovrebbe accadere veramente. Nessun Paese prevede questo per i contributi ai partiti politici. Non si capisce perché la detrazione debba essere al 100% per i partiti e al 19% per gli enti di ricerca e le università. Se faccio l’elemosina non detraggo quello che verso al 100%, ma la faccio lo stesso, magari perché lo ritengo giusto. Secondo me sarebbe quantomeno ragionevole ridurre fissare il livello di detrazione al 19%, come per gli enti di ricerca sul cancro”. (Carlo Renda, Finanziamento pubblico ai partiti, Roberto Perotti: "Così il governo non l'abolisce, " huffingtonpost.it”, 16 dicembre 2013).

La politica sembra essere d’accordo, più voci si sono sollevate per invocare definitivamente l’abolizione e l’iter legislativo sembra andare deciso in questo senso. Lo stesso Pd è stato da sempre quasi del tutto coeso nel votare l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, aderendo alla volontà degli italiani. Ecco come si pronunciava Matteo Renzi: “Le polemiche interne al Pd non hanno senso. Almeno, non adesso. Che io abbia proposto l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti non è una notizia: è proposta che abbiamo lanciato dalle primarie e dalla Leopolda. Non so se abolire il finanziamento serva a far pace con Grillo; sicuramente serve a far pace con gli italiani che hanno votato un referendum e che anche alle elezioni ci hanno dato un segnale” (Nicola Barone, Renzi: «Va abolito il finanziamento pubblico ai partiti», Bersani: «Sì alla revisione», “Il Sole24 0re”, 12 marzo 2013).