La pena di morte è l’unica sanzione che può garantire proporzionalità rispetto a crimini particolarmente efferati

Il principio di retribuzione caratterizza la pena sin dall’epoca più risalente. La pena è un male inflitto come reazione morale e giuridica al male che è stato commesso con il reato, alla cui gravità è proporzionato, in modo da configurarsi come castigo e non come vendetta.

Appare comprensibile dunque come in determinati casi non possa esserci altra reazione rispetto alla privazione della vita del reo. La pena più diffusa, quella detentiva, arriva fino ad un certo limite e rappresenta la risposta più utilizzata dai Paesi moderni. Anche l’ergastolo, il carcere a vita, non può bastare di fronte a crimini particolarmente efferati, come l’omicidio, la strage e tutti quei reati con i quali si priva del diritto alla vita uno o più persone. Vi sono delitti, come quelli d’opinione, dove è possibile rispondere in modi certamente più blandi rispetto all’applicazione della pena capitale, ma, soddisfacendo il principio retributivo della pena, esistono altresì casi dove l’unica risposta adeguata è rappresentata dalla pena capitale.

“Secondo alcune teorie, la pena di morte si giustifica come ‘retribuzione’ rispetto al reato: quando questo è di una particolare gravità, la morte non sarebbe altro che una reazione morale e giuridica proporzionata, un castigo e non una vendetta” (Disuguali di fronte al boia, “nuke.carloclericetti.it”, 13 giugno 2002).
Secondo la concezione retributiva della pena, infatti, l'uomo è dotato di libero arbitrio e suscettibile di subire pene per il proprio comportamento colpevole, al medesimo addebitabile a titolo esclusivo.

Secondo la concezione specialpreventiva della pena, invece, l'uomo, nel suo agire, sarebbe determinato da moti incontrollabili e sarebbero proprio tali moti incontrollabili a dover essere neutralizzati attraverso la tecnica della specialprevenzione.

Da queste due teorie nasce la struttura del nostro Codice Penale, improntato sul sistema del c.d. doppio binario. Ed infatti i soggetti imputabili o semimputabili possono vedersi applicate congiuntamente pene, per la retribuzione del fatto commesso e misure di sicurezza, per la neutralizzazione della loro pericolosità sociale.
Non mancano però le critiche a modi di vedere l’uomo, prima come capace di autodeterminarsi e poi sospinto da forze incontrollabili, che richiederebbero una limitazione della libertà tramite misure di sicurezza.

Anche la Carta Costituzionale sembra appoggiare il principio retributivo della pena nel comma 1 dell’art. 27, che sancisce la personalità della responsabilità della pena, responsabilità che non può eccedere la colpevolezza del singolo. In poche parole, il singolo non può rispondere anche per le colpe di altri.

Generalizzare è sempre sbagliato e dunque, in determinate condizioni, la pena di morte può rappresentare la risposta più adeguata e proporzionale rispetto alla colpevolezza del reo.

“Non è lo strumento in sé ad essere ‘di tortura’, ma l’uso e l’applicazione che se ne fa. Allo stesso modo si cerca di contrabbandare come una pena ‘illegittima’ quella capitale, peraltro praticata nella più grande democrazia liberale del mondo: gli Stati Uniti. Dimenticando che non è la pena di morte ad essere illegittima, ma il modo con cui viene comminata e l’uso che se ne vuol fare che la può rendere tale, da legittima che è, per e in natura. In una società civile, dove tutto funziona al meglio, non vi è alcuna necessità di ricorrere ad una pena forte come quella capitale, ma nella società di oggi, selvaggia, barbara e sempre più violenta, in determinati casi, rappresenta l’unico rimedio possibile” (Considerazioni in favore della pena di morte, “penadimorte.blogspot.it“, 5 agosto 2006).

“Sono convinto che la maggioranza degli Italiani di qualsiasi confessione politica o religiosa siano favorevoli all'introduzione della pena di morte se pur con una ferrea regolamentazione che si differenzi in senso garantista da quella di altri Stati che la applicano troppo facilmente e per un eccessivo numero di reati”. (Elogio della pena di morte, “blog.libero.it/piumealvento”, consultato il 10 febbraio 2017).

Anche lo stesso Beccaria, spesso citato dagli abolizionisti, si esprimeva in questo modo: “La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà, egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordin stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi …. Io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distoglier gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte.” (Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, 1764).

Ci sono diverse circostanze, diverse situazioni, contesti, usi e costumi, che possono incidere sulla decisione di applicare o meno la pena di morte. Incidono anche le leggi, le modalità con cui viene eseguita, la macchina burocratica, l’ideale di giustizia, la necessità di tutelare la società da un pericolo sociale.
“Ogni pena non sia violenza di uno o di molti contro un privato cittadino- si legge sempre nell’opera di Beccaria - dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.” (Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, 1764).

La pena di morte appare legittima quando rispecchia un carattere “pubblico”. “Uno stesso strumento, la pena di morte, è legittimo o non lo è, a seconda delle circostanze, di chi lo utilizza, di come viene a maturare la sua pratica”. (Considerazioni in favore della pena di morte, “penadimorte.blogspot.it“, 5 agosto 2006).

 

Claudia Alessandro Colombrita, 21 marzo 2017

Il principio della retribuzione della pena parte da un assunto sbagliato e, infatti, è stato molto mitigato nella struttura del codice penale italiano. La legge del taglione, che consisteva in una restituzione del male commesso (laddove possibile), non può più trovare spazio nei moderni ordinamenti civili mondiali.
Anche la Costituzione ha mitigato il principio di retribuzione della pena attraverso l’art. 27 che introduce il principio di rieducazione del condannato. La pena infatti deve tendere alla rieducazione del reo, attraverso qualsiasi strumento l’ordinamento giuridico possa mettere a disposizione della magistratura. In ogni caso, inoltre, la sanzione non può consistere in comportamenti contrari al senso di umanità.
Il sistema del doppio binario entra in gioco proprio per smorzare il principio di retribuzione della pena, affiancando anche un ruolo special e general preventivo.

La Costituzione tutela la dignità del condannato e il codice penale impone una pronuncia di colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
“Le procedure che più frequentemente sono utilizzate per giungere ad una condanna a morte sembrano attestare che la pena capitale non è uno strumento di giustizia. Sarebbe doveroso, nell’ambito dei processi, assicurare alcune particolari garanzie, al fine di ridurre il rischio di un errore giudiziario dalle conseguenze particolarmente tragiche: questo, tuttavia, non sempre accade” (Pena di morte, www.volint.it, consultato il 10 febbraio 2017).

Sono vietati i trattamenti disumani e, nelle Carte Costituzionali più evolute, anche la pena di morte. Si lasciano spiragli solo per quanto riguarda il riferimento alle leggi speciali, come quelle militari di guerra.

Inoltre, proprio l’art. 27 della Costituzione introduce la finalità rieducativa della pena. Le sanzioni sono concepite per il reinserimento e il recupero sociale del condannato, che potrà dunque essere rimesso in libertà quando sarà pronto a rapportarsi con l’intera società. Un principio che dovrebbe garantire per la sicurezza e l’incolumità dei cittadini e della società.
Colpevolezza e rieducazione contemperate senza forzature, senza dover ricorrere ad uno strumento barbaro come la pena di morte.

Ecco il punto di vista di Amnesty International, che si batte da sempre per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. “Amnesty International si oppone incondizionatamente alla pena di morte, ritenendola una punizione crudele, disumana e degradante ormai superata, abolita nella legge o nella pratica (de facto), da più della metà dei paesi nel mondo. La pena di morte viola il diritto alla vita, è irrevocabile e può essere inflitta a innocenti. Non ha effetto deterrente e il suo uso sproporzionato contro poveri ed emarginati è sinonimo di discriminazione e repressione”. (La pena di morte, “amnesty.it”, consultato il 12 febbraio 2017).
Sin dalla Bibbia si sostiene che nessun uomo possa mettersi alla pari con Dio nel togliere la vita ad un altro essere umano.
Amnesty sottolinea un altro aspetto importante, concentrandosi sulle profonde discriminazioni razziali messe in atto nei Paesi che fanno ancora largo uso di tale tipo di pena. Ad essere giustiziati sono, perlopiù, classi sociali deboli, minoranze razziali, individui con istruzione inferiore e oppositori politici.

Investire sulla rieducazione del condannato e poi ucciderlo è quanto di più contraddittorio possa esserci. Da non trascurare poi le atroci sofferenze, fisiche e psicologiche, che deve attraversare chi è in attesa di un giudizio.
“In linea teorica si potrebbero sostenere argomenti a favore della pena di morte, almeno in casi gravissimi e circoscritti. L’esperienza però ci dice che, anche al di là della volontà e delle intenzioni, i condizionamenti sociali e culturali, persino nei paesi più avanzati sotto il profilo giuridico e delle tutele, finiscono per generare situazioni di ingiustizia” (Disuguali di fronte al boia, “nuke.carloclericetti.it”, 13 giugno 2002).

Non è questione di religioni, perché è un fenomeno che le attraversa trasversalmente, né di luoghi, perché in determinate parti del globo si fanno comunque scelte differenti, si tratta di salvaguardare la sacralità e l’inviolabilità della vita umana. Niente e nessuno può togliere la vita ad un altro essere umano, neanche la legge.
Anche dove la pena di morte è sancita, bisogna comunque garantire condizioni quantomeno dignitose nella strada che conduce il reo al decesso. Ci sono Stati come la Cina, dove si abusa di questa sanzione, prevista per ben 65 reati, tra cui l’uccisione di animali sacri e reati politici, economici e di opinione. Ci sono Stati dove non si garantisce equità nei processi, con udienze davanti a giudici religiosi che, in pochi istanti, decidono sulla vita di una persona pur non avendone le competenze. Ci sono pericolose falle anche in uno Stato pioniere della libertà come gli Stati Uniti. Più del 40% dei condannati a morte sono afroamericani, anche se questi rappresentano solo il 12% della popolazione totale.

Non ci sono standard predefiniti nell’applicazione di una pena così cruenta come la pena di morte. L’accusa può chiederla per qualsiasi omicidio, una testimonianza contro il reo da parte del coimputato può comportare una riduzione di pena (con il rischio di tante false testimonianze). I condannati a morte spesso non sono assistiti adeguatamente a livello legale e non hanno molto tempo, eventualmente, per presentare appello.

Uno studio recente ha appurato che nel periodo 1900 – 1991 si sono verificati 416 "errori di persona", commessi nell’ambito di processi per reati punibili con la pena di morte.

L’attesa conduce a sofferenze psichiche e fisiche inimmaginabili, ma anche l’esecuzione in sé sa essere molto dolorosa perché, a volte, non viene preparata in maniera adeguata.

Secondo alcuni scienziati poi, la pena di morte, così come il carcere a vita, “nega i presupposti della biologia e della neurologia: le cellule del corpo umano subiscono un totale ricambio in circa sette anni, quindi, a maggior ragione dopo un lungo periodo di prigione, il condannato non è più ‘fisicamente’ lo stesso individuo entrato in carcere; né il DNA spiega del tutto i comportamenti aggressivi e violenti, che spesso sono frutto del condizionamento e dell'apprendimento”(Annalisa Chirico, Veronesi: Perché la scienza dice NO all’ergastolo, “panorama.it”, 14 ottobre 2012).

Infine, non è vero che la pena di morte consente di risparmiare notevolmente sulle spese della giustizia ma anzi, al contrario, è inutilmente costosa. Secondo uno studio dello Urban Institute su 1.227 omicidi commessi nel Maryland dal 1978 al 1999, una condanna alla pena di morte costa allo Stato circa tre volte una condanna detentiva, in termini di processi, ricorsi, e sorveglianza in carcere. (Ennio Caretto, La pena di morte costa troppo. Alcuni Stati Usa chiedono di abolirla, “corrieredellasera.it”, 25 febbraio 2009).