Eco, Bauman e la trappola dei social

Contro le affermazioni di Umberto Eco sui social network e il proliferare delle bufale

Sulla scia delle affermazioni provocatorie di Umberto Eco in merito alla proliferazione di bufale su internet (e in particolare attraverso i social: Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli”, “La Stampa”, 10 giugno 2015. Qui viene riportato come secondo Eco i social abbiano dato il diritto di parola a imbecilli e ai cosiddetti “leoni del web”, amplificando enormemente la portata della cattiva informazione) si è sviluppato un acceso dibattito seguito da “La Stampa”, che ha visto alcuni giornalisti opporsi a quella che è parsa una critica tout court nei confronti della rete. Se infatti, quanto sostenuto criticamente da Eco aveva anche dei risvolti pedagogici che travalicano i limiti della critica fine a se stessa, c’è chi comunque ha ritenuto eccessivo definire la rete unicamente in funzione del fatto che ha dato il diritto di parola a ignoranti e ai cosiddetti “leoni del web”, ossia quel tipo di persone che fa la voce grossa finché parla da dietro lo schermo del proprio computer. Si legga quanto scritto da Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il giorno successivo (11 giugno 2015) alla pubblicazione dell’articolo di Eco, a cura della medesima testata: Nicoletti, nel suo pezzo intitolato “Eco, i social network e le legioni di imbecilli. Difendere la verità è un lavoro che costa fatica” sostiene, infatti, che dobbiamo convivere anche con gli aspetti più negativi del fenomeno e che “finalmente possiamo misurarci con il più realistico tasso d’imbecillità di cui da sempre è intrisa l’umanità”. Quindi, in primo luogo non ci sarebbe nulla di nuovo, semplicemente la rete avrebbe in un certo senso spalancato le finestre sulla camera buia dove le supposte legioni di imbecilli attendevano pazientemente il loro turno per essere globalmente ascoltati.

La nuova struttura sociale, agevolata dalla crescita esponenziale delle tecnologie digitali, vincola alla necessità di un confronto costante con le componenti più “imbecilli”. Infatti, Nicoletti prosegue dicendo che “era sin troppo facile per ogni intellettuale, o fabbricatore di pensiero, misurarsi unicamente con il simposio dei suoi affini. Ora, chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato dai corsari, rispetto ai bei tempi in cui questa massa incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori. […] È finita purtroppo l’epoca delle fortezze inespugnabili in cui la verità era custodita dai suoi sacerdoti. Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, farlo costa fatica, gratifica molto meno, […] non si produce pensiero nell’era digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza”. Secondo il giornalista, l’idea stessa di fare marcia indietro (anche in riferimento all’auspicio espresso da Eco di un ritorno al cartaceo) equivale a un sogno nostalgico che ha poco senso in un’epoca di mutamenti così rapidi, dove anche gli imbecilli hanno il diritto di “evolvere con strumenti individuali”. Nicoletti conclude il suo intervento schierandosi contro gli establishment di intellettuali che ancora pretendono di calare la verità dall’alto dei loro editoriali: “Le loro sentenze avrebbero quel profumino di abiti conservati in naftalina che oggi emanano le muffe lezioncine sulla buona televisione, sul servizio pubblico, sulla qualità dei programmi, su questo è buono e questo fa male. Siamo tutti intossicati, per questo oggi l’intellettuale deve fare sua la follia del funambolo. Chi vorrebbe curare gli altri e ancora si proclama sano, è in realtà (digitalmente) già morto”.

Affermazioni simili trovano riscontro nelle parole di uno dei più importanti filosofi contemporanei italiani, Umberto Galimberti. Seguendo quanto riportato da Cioni e Marinelli in merito al pensiero del filosofo, “le tecnologie – non solo ma soprattutto quelle digitali – non costituiscono un mezzo, ma definiscono e circoscrivono un ambiente in cui noi abitiamo senza scegliere di farlo” (Elisabetta Cioni, Alberto Marinelli, Le reti della comunicazione politica. Tra televisione e social network, Firenze University Press, 2010, p. 54). Inoltre, per citare direttamente le affermazioni di Galimberti: “al pari di una vite che, inserita in un ingranaggio, trae dall’ingranaggio la sua ragion d’essere, allo stesso modo ogni apparecchio telefonico, radiofonico, televisivo, computerizzato è solo una parte di quel mega-apparecchio, opportunamente chiamato ‘rete’, che solo un ritardo linguistico può definire un ‘mezzo’ a disposizione dell’individuo per un fine da lui liberamente scelto. La ‘rete’, infatti, o come si dice a proposito dei computers, il ‘ciberspazio’, è un mondo, quindi qualcosa di radicalmente diverso da un mezzo perché, a differenza del ‘mezzo’ che ciascuno può impiegare per i fini che sceglie, col ‘mondo’ non si dà altra libertà se non quella di prendervi parte o starsene in disparte. […] Dalla nascita ognuno di noi impara il senso delle cose dalla descrizione che delle cose ci fanno quanti sono preposti alla nostra educazione. Educare significa innanzitutto descriver il mondo in quel certo modo che consente a tutti di trattare le cose in quella maniera abbastanza prevedibile per cui, quando un convitato a tavola prende un coltello, il suo vicino non avrà nulla da temere perché l’educazione gliene avrà insegnato l’utilizzo e l’impiego. La televisione, distribuendo senza sosta il significato delle cose e il loro variegato uso, prosegue il lavoro dell’educazione che codifica, non perché manipola, inganna, mente, ma semplicemente perché descrive il mondo, che non esiste se non nella sua descrizione. Oggi tutti guardano la televisione o utilizzano internet, non per disporre di qualche informazione in più, ma semplicemente perché sono al ‘mondo’, che in televisione, e sempre di più in internet, ha la sua più estesa e completa descrizione. […] Oggi la telecomunicazione è il nostro ambiente. Anche quando non vi si prende parte, per il fatto che altri vi partecipano, nel loro agire quotidiano sarà leggibile il loro apprendimento. Interagendo con loro si entra inevitabilmente in contatto con lo schermo, che dunque è sempre acceso per la comprensione pubblica del mondo” (Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli Editore, 2004, p. 627).

Dalle affermazioni dell’intellettuale italiano possiamo dunque desumere che la struttura rappresentata dalle reti di telecomunicazione costituisce una sorta di a priori rispetto all’individuo che lo avvolge e che lo costringe, come sostenuto anche da Nicoletti, ad adeguarsi al nuovo, mutato e mutevole contesto, oppure a rimanerne ai margini di questo “mostro acefalo” nel tentativo, poco plausibile a questo punto, di non essere coinvolto nelle dinamiche di azione attraverso le reti e, di conseguenza, attraverso i social network.

Se le reti non sono un mezzo ma un ambiente fluido nel quale è sempre più difficile trovare o costruire narrazioni che si dimostrino dominanti pur essendo diverse da quelle manipolate che ci restituiscono un’immagine del mondo mediatizzata, pensare allora a una struttura coercitiva per controllare le intemperanze della rete risulta un compito arduo per qualsiasi intellettuale, giornalista o professore universitario.

Similarmente a quanto obiettato da Nicoletti, un altro giornalista ha scritto, sempre per “La Stampa”, un’ulteriore commento a seguito delle affermazioni di Eco. Si tratta di Juan Carlos De Martin, il quale ha esordito nell’articolo del 12 giugno 2015 intitolato “Imbecilli e non, tutto il mondo è social”, rivolgendosi direttamente all’intellettuale appena laureato: “Chiarissimo professor Eco, mi dispiace contraddirla, ma su Internet si sbaglia. E si sbaglia proprio dal principio, ovvero da quando afferma che ‘i social hanno dato il diritto di parola a legioni di imbecilli’. Non perché l’affermazione non sia vera – chiunque frequenti la Rete lo vede tutti i giorni – ma perché anche gli ‘imbecilli’ hanno il diritto di esprimersi. La nostra Costituzione, infatti, non concede il diritto di parola solo ai premi Nobel, ai ‘colti’ o agli ‘intelligenti’: la libertà di espressione è assicurata a tutti. Ed è assicurata a tutti perché è nell’interesse di democrazie ben funzionanti avere il più ampio spettro possibile di voci, incluse quelle che possono apparire (e magari sono) estreme o ‘imbecilli’”. Tuttavia, l’autore si dichiara fondamentalmente d’accordo con Umberto Eco sugli elementi potenzialmente educativi insiti in strumenti come Internet o le piattaforme social. Ciò che ci si deve auspicare è, secondo De Martin, che le istituzioni didattiche si facciano almeno in parte carico del compito di mettere a disposizione gli strumenti critici necessari a valutare l’attendibilità delle fonti online. Laddove questo dovesse avvenire, renderebbe possibile un utilizzo più consapevole delle reti, che a sua volta agevolerebbe la destituzione di quella “catena di montaggio delle bufale”.

Le opinioni di Umberto Eco e Zygmunt Bauman

Umberto Eco, uno dei più riconosciuti intellettuali italiani degli ultimi decenni, scomparso nel febbraio 2016, che attento osservatore delle dinamiche sociali nell’era delle reti, si è espresso proprio in merito al mondo dei social network, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei Media” presso l’università di Torino (10 giugno 2015). In tale sede si è dichiarato scettico dicendo che “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.” “La Stampa” ha riportato la notizia, citando anche un’altra affermazione dell’intellettuale italiano: “La TV aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità” (Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli”, “La Stampa”, 10 giugno 2015). Simili affermazioni possono trovare una parziale spiegazione se si considera la sua decennale esperienza in materia di mass media; si pensi, a titolo d’esempio, a opere quali le raccolte di articoli intitolati rispettivamente Diario minimo (Arnoldo Mondadori Editore, 1963, il riferimento in particolare è alla sezione chiamata Fenomenologia di Mike Bongiorno, dove Eco ci lascia un’immagine squallida del personaggio e del suo elogio alla mediocrità) e Apocalittici e integrati (Bompiani, 1964). Attraverso queste opere Eco ha disposto una lucida analisi anticipatrice dell’influenza dei mass media (e dei social oggi) sulla cultura di massa intesa nella sua accezione più ampia.

In secondo luogo, un altro aspetto che secondo Eco produce effetti negativi, consiste nel fatto che l’utilizzo che facciamo della rete è profondamente condizionato dalla proliferazione di bufale virali. L’alto numero di queste ultime, e la loro agile circolazione sono a loro volta favorite dalla struttura stessa di Internet, dispersiva e deresponsabilizzante.

Ma le sue affermazioni non si sono limitate a una critica fine a se stessa, infatti il discorso del plurilaureato si è rivolto anche in direzione di chi può dare il proprio contributo al fine di limitare queste tendenze. Leggendo l’articolo precedentemente menzionato che “La Stampa” ha dedicato al pensiero di Eco in relazione al mondo social, egli si rivolge in primis ai giornalisti, spronandoli a “filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno”. E ancora prosegue: “I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a usare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno” (Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli”, “La Stampa”, 10 giugno 2015).

Ritroviamo dunque nelle sue parole un rimando a un altro tema molto discusso negli ultimi tempi, che consiste nella possibilità di introdurre strumenti digitali come supporto allo studio. Al di là dei suggerimenti di stampo pedagogico, le affermazioni di Eco hanno sollevato diverse polemiche dovute in parte anche ai toni concitati che l’intellettuale ha adottato per esprimere tali pensieri.

Su posizioni simili a quelle espresse dal letterato italiano possiamo trovare il pensiero di uno dei più stimati sociologi degli ultimi decenni, il polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman. In un’intervista rilasciata alla testata spagnola “El Pais”, lo studioso si è espresso tra le altre cose, anche in materia di social (Ricardo de Querol, “Las redes sociales son una trampa”, “El Pais”, 9 gennaio 2016, riportata in italiano da Maria Murone: “Le reti sociali sono una trappola”, “The Universal”, 9 gennaio 2016). Con toni solo leggermente più pacati rispetto a quelli usati da Eco, anche Bauman ha duramente criticato l’impatto che i social media hanno avuto sulle nostre vite. Ma come nel caso del discorso tenuto da Eco in occasione del conferimento della laurea, nel corso del quale l’intellettuale italiano ha espresso il proprio senso di sfiducia nei confronti dell’utilizzo che facciamo dei social network, anche dall’intervista al sociologo polacco si evince che la responsabilità non è in fin dei conti da attribuire al fenomeno social di per sé, che comunque facilita il manifestarsi di certe dinamiche, quanto semmai all’uso che la maggior parte delle persone fa delle piattaforme social e delle reti più in generale. Nella traduzione italiana curata da Maria Murone, quest’ultima ci riporta che, secondo Bauman, “molte persone usano i social network non per unire e per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto, per bloccarli in quelle che chiamo zone di comfort, dove l’unico suono che sentono è l’eco della propria voce, dove tutto quello che vedono sono i riflessi del proprio volto. Le reti sono molto utili, danno servizi molto piacevoli, però sono una trappola”. E ancora prosegue dicendo che “la differenza tra la comunità e la rete è che si appartiene alla comunità, ma la rete appartiene a voi. È possibile aggiungere amici ed eliminarli, è possibile controllare le persone con cui siamo legati. La gente si sente un po’ meglio, perché la solitudine è la grande minaccia in questi tempi di individualizzazione”. La possibilità di combattere attraverso la vita social il rischio di isolamento tipico delle società che incentivano individualismo e autodeterminazione del singolo è, secondo Bauman, un aspetto legato a doppio filo al profondo stato di crisi in cui versano le istituzioni democratiche della nostra società. Tale condizione a sua volta è strettamente correlata al generalizzato senso di sfiducia nei confronti delle rappresentanze politiche, considerate non solo corrotte ma anche inadeguate all’importante ruolo che dovrebbero ricoprire. Pertanto “il conflitto, l’antagonismo non è tra le classi, ma di ogni persona contro la società”, e la rete, i social network, sono le nuove arene dove si fronteggiano istanze individualiste e sensazionaliste promosse dalla struttura deresponsabilizzante di Internet e dalla rapidità di diffusione di notizie e bufale. In questo senso, quindi, Bauman sembra discostarsi dalla fiducia espressa da Eco nel ruolo delle istituzioni preposte al controllo dei media, per abbracciare posizioni più estreme.

Troviamo riscontro alla visione globale di Baumann in uno scritto intitolato “Psicopolitica, sociedad sitiada y movimiento de los Indignados” [Psicopolitica, società assediata e il movimento degli Indignados, TdR], pubblicato su “Academia.edu” da Adolfo Vásquez Rocca dell’università Complutense di Madrid (consultato il 20 luglio 2016). In queste pagine il dottor Vásquez Rocca collega le idee espresse attraverso il concetto baumaniano di “modernità liquida” alla nascita di movimenti “controculturali” quali quelli dei cosiddetti Indignados. In questi casi, a un rigetto della rappresentanza politica si lega un riferimento sempre maggiore alle comunità di internauti che forniscono un tavolo di confronto sempre aperto e uno strumento organizzativo non indifferente. Nonostante ciò, però, Rocca sottolinea anche come in generale la tecnologia di comunicazione sta agendo in profondità sulla vita quotidiana di tutti, disgregandola in un paradosso che ci vede sempre più globalmente connessi ma al tempo stesso isolati.

Nel suo lavoro “On Belief”, il filosofo Slavoj Žižek pone sotto attenta considerazione diversi aspetti di questo trend, in particolare quelli che hanno a che fare con rinnovate concezioni del sé e dell’individuo in quanto inserito in una rete di simulacra di altri sé geograficamente dislocati e potenzialmente ingannevoli. Prendendo le mosse da alcune riflessioni leibiniziane sull’identità del sé, egli descrive come la società di oggi apparentemente riesca, attraverso l’interfaccia tecnologica, a far coesistere una sorta di “armonia globale”, con forme estreme di solipsismo. Il problema consiste, secondo Žižek, nel fatto che non possiamo ricalcare la situazione odierna al concetto leibneziano di monade “senza finestre”, dove l’universo intero si specchia in lui, a discapito dell’assenza di un’apertura sulla realtà esterna. Il motivo è che per quanto riguarda la nostra società, viene irrimediabilmente a mancare ciò che Leibniz definisce “armonia prestabilita” tra monadi, ossia una forma di garanzia letteralmente divina contro l’ingannevolezza reciproca degli individui. Oggi, ci dice Žižek, “come può ciascuno di noi sapere di essere in contatto, attraverso lo schermo, con ‘altri reali’, e non solo con simulacri spettrali?” (Žižek, S., On Belief, Rutledge, 2004, pp. 52-53).

Guglielmo Papagni, 7 marzo 2017