Nr. 78
Pubblicato il 19/09/2015

Privatizzazione dei beni culturali

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Negli ultimi anni, il dibattito riguardante la possibilità di privatizzare il patrimonio storico-artistico del nostro paese, ovvero di introdurre forme di gestione dei beni culturali che vedano la partecipazione dei soggetti privati in un settore tradizionalmente pubblico quale è quello dei beni e delle attività culturali, ha assunto un ruolo centrale nella sfera politica e in quella socio-economica.
Tra le soluzioni affrontate si presentano quelle di alienazione e cartolarizzazione.
Altre soluzioni sono: la concessione a tempo determinato, la gestione affidata a fondazioni miste pubblico-private o a fondazioni private no profit e la sponsorizzazione da parte di privati. Un ulteriore argomento di discussione riguarda l’impatto della privatizzazione dei beni culturali sulla società, con particolare attenzione al confronto tra interessi dei soggetti privati e interessi dei soggetti pubblici nell’analisi dell’offerta culturale verso i cittadini.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

Il dibattito sulla privatizzazione del patrimonio storico-artistico italiano, cioè l'introduzione di forme di gestione con la partecipazione dei soggetti privati, ha assunto un ruolo centrale nella sfera politica e in quella socio-economica. Tra le ipotesi, quelle dell’alienazione, della cartolarizzazione, della cessione a tempo determinato, dell’affidamento della gestione a fondazioni no profit.
01 - Gli interessi dei soggetti privati differiscono da quelli pubblici, e ciò influisce negativamente sulla qualità dell’offerta culturale

Dare la gestione dei beni culturali ai privati delega funzioni come la formazione della memoria e dell’identità comunitarie, manipolabili da soggetti privati, i cui interessi differiscono da quelli sociali. La gestione imprenditoriale diminuirebbe la qualità dell’offerta culturale. I “musei-impresa” offrirebbero al pubblico ciò che vuole, non contribuendo alla crescita culturale della comunità.

02 - Sgravi fiscali per i privati che investono nella cultura li motiverebbe a destinare capitali per il restauro e la valorizzazione dei beni culturali

Col decreto cultura Art Bonus, vengono garantiti incentivi fiscali per i privati che decidono di investire e fare donazione sul restauro e la conservazione di beni culturali pubblici. Ciò garantirà l’arrivo di ingenti capitali da destinare alla tutela e valorizzazione dei siti culturali, storici e artistici.

Gli unici risultati delle sponsorizzazioni da parte dei privati sarebbero la commercializzazione e la mercificazione del patrimonio culturale. Gli interessi economici dei privati andrebbero a sovrapporsi a quelli culturali. Oggi si parla di “neomecenatismo” del grande capitalismo: donazioni in cambio di un ritorno di immagine, o anche il tentativo di assumere la direzione culturale del paese.

03 - In Italia esistono enti privati no profit capaci di gestire, tutelare e valorizzare il nostro patrimonio culturale

Per evitare legami di tipo politico con le strutture pubbliche e mere finalità imprenditoriale, si deve affidare la gestione dei beni a fondazioni o enti privati no profit che abbiano finalità culturali e artistiche di conservazione dei beni culturali e di servizi sociali. Un esempio sono le fondazioni di origine bancaria, che investono parte dei propri profitti nella cultura e nel sociale.

Il modello del National Trust, ripreso dal FAI, si pone in un quadro diverso dal nostro: in Italia, la tutela del patrimonio culturale e paesaggistico è sancita dall’art. 9 della Costituzione, mentre in Inghilterra, il National Trust è nato per rimediare alla carenza di normative di tutela. È discutibile l’operato dell’organizzazione inglese, che ha operato solo per trarre profitto.

04 - Le fondazioni miste sono il perfetto punto d’incontro tra pubblico e privato: il bene rimane di proprietà dello Stato e viene valorizzato dalla gestione privata

Dare la gestione dei beni culturali a fondazioni miste è la nuova frontiera di alleanza tra pubblico e privato. Il bene culturale rimane un patrimonio disponibile al pubblico, ma diventa anche un’attività d’impresa, sostenuta dai capitali privati. I progetti pilota dimostrano che le reti miste possono conseguire risultati che le istituzioni pubbliche da sole non sono state in grado di raggiungere.

I ruoli decisionali del pubblico e del privato nella gestione dei beni culturali non possono essere equiparati: i fondi privati saranno sempre minimi di fronte al valore dei beni. Con le fondazioni miste, lo Stato tende a mettersi in minoranza. C’è il rischio che questi network misti non si responsabilizzino nel lungo periodo e tali progetti portino un aumento dei costi di gestione del pubblico.

05 - La vendita del patrimonio immobiliare pubblico di valore storico e culturale rappresenta una valida soluzione per sanare il debito pubblico

L’Italia possiede 1.600 miliardi di beni non finanziari (edifici, terre, risorse del sottosuolo): privatizzarli aiuterebbe a sanare il debito pubblico. Tra le forme possibili ci sono l’alienazione, la cartolarizzazione, la concessione del bene a tempo determinato: i soggetti privati, beneficiari della concessione, assumono la gestione e riconoscono una quota dei proventi al soggetto pubblico.

Per privatizzare, il governo deve chiarire la distinzione tra Demanio Generale e Culturale. Solo la prima categoria di beni può essere venduta. Le proprietà con valore storico o cultuale sono inalienabili, poiché proprietà della comunità. Economicamente “lo Stato italiano trarrà dalla privatizzazione solo risibili benefici economici, in quanto mantiene ancora a sé l’onere della tutela”.

 
01

Gli interessi dei soggetti privati differiscono da quelli pubblici, e ciò influisce negativamente sulla qualità dell’offerta culturale

CONTRARIO

Trasferire la gestione dei beni culturali ai privati delega funzioni come, ad esempio,la responsabilità della formazione della memoria e dell’identità comunitarie, facilmente manipolabili da soggetti privati i cui interessi differiscano da quelli dell’insieme della società.
Il tentativo di trasformare le istituzioni museali in imprese trasforma il museo stesso da struttura di produzione e di acquisizione culturale a luogo di svago, la cui unica finalità è la redditività.
La gestione imprenditoriale porterebbe alla diminuzione della qualità dell’offerta culturale. Non essendo la cultura un prodotto acquistabile e vendibile, per essere economicamente produttivo il “museo-impresa” si concentrerà sulla vendita di prodotti secondari: biglietti, gadgets, guide, cartoline, servizi connessi. La concorrenza con gli altri musei-impresa obbligherebbe il museo a mantenere degli standard di vendita, adeguando i contenuti ai gusti e al livello culturale del pubblico. I “musei-impresa” si limiterebbero dunque ad offrire al pubblico ciò che il pubblico vuole, non contribuendo alla crescita culturale della comunità.
Stesso discorso vale per la gestione affidata a fondazioni miste.

 
02

Sgravi fiscali per i privati che investono nella cultura li motiverebbe a destinare capitali per il restauro e la valorizzazione dei beni culturali

FAVOREVOLE

Col decreto cultura Art Bonus, convertito in legge il 30 luglio 2014 (G.U. n. 175), vengono garantiti incentivi fiscali per i privati che decidono di investire e fare donazione sul restauro e la conservazione di beni culturali pubblici: un credito di imposta del 65% detraibile in tre anni.
Ciò garantirà l’arrivo di ingenti capitali da destinare alla tutela e valorizzazione dei siti culturali, storici e artistici.
Il caso italiano più eclatante è l’accordo tra MiBAC e Diego della Valle per il restauro del Colosseo, per molti un progetto da esportare in tutta Italia, il punto d’incontro tra uno dei monumenti più rappresentativi e importanti del nostro paese e un marchio capace di esportare il Made in Italy nel mondo.
A Londra, rappresentativo è il caso della “The Sainsbury wing”, la nuova ala della National Gallery che ha preso il nome dalla famiglia di imprenditori della grande distribuzione.

CONTRARIO

Gli unici risultati delle sponsorizzazioni da parte dei privati sarebbero la commercializzazione totale, la svendita e la mercificazione del patrimonio culturale. Gli interessi economici dei privati andrebbero di certo a sovrapporsi a quelli culturali.
Più che di mecenatismo (donazioni senza ritorno di alcun tipo), oggi si parla di “neomecenatismo” del grande capitalismo: donazioni in cambio di un forte ritorno di immagine, o anche il tentativo di assumere la direzione culturale del paese.
Secondo l’articolo Beni culturali: ma di chi? (“Insegnare”, a. II, n. 7-8, luglio-agosto 1986, pp. 7-9), pubblicato sul sito web personale del professor Giulio Carlo Argan, questo stesso afferma: “si mira, da parte del grande capitalismo, […] alla privatizzazione dell’interesse pubblico, e cioè all’assunzione della direzione culturale da parte del grande capitale. E ciò sarebbe di una gravità inaudita perché sarebbe una piena e grave rinuncia allo stesso ordine democratico. […] solo il patrimonio culturale e ambientale potrà salvare l’individuo e la collettività dalle conseguenze fisiologicamente e psichicamente nefaste dello stato di alienazione, di non-adattamento, in cui lo pone l’uso che la borghesia capitalistica ha fatto e fa delle cose della cultura e dell’ambiente.

 
03

In Italia esistono enti privati no profit capaci di gestire, tutelare e valorizzare il nostro patrimonio culturale

FAVOREVOLE

Per evitare qualsiasi legame e interesse di tipo politico con le strutture pubbliche, ma anche mere finalità di tipo imprenditoriale e privatistico, la soluzione migliore è affidare la gestione dei beni a fondazioni o enti privati no profit che nello statuto presentino finalità culturali e artistiche, di ricerca, di conservazione dei beni culturali e di servizi sociali. Un esempio, in questo senso, sono le fondazioni di origine bancaria, che investono parte dei propri profitti nella cultura e nel sociale.
Una delle esperienze più affermate in Italia è quella del FAI (Fondo Ambiente Italiano), creato sulla base del National Trust britannico. Ogni anno il FAI raccoglie fondi da destinare unicamente alla gestione, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale in proprio possesso.
Un’altra esperienza è rappresentata dalla gestione partecipata dei parchi urbani di Lamezia Terme, affidata alle associazioni del terzo settore che svolgono attività culturale e sociale sul territorio.

CONTRARIO

Il modello del National Trust britannico, ripreso dal FAI (Fondo Ambiente Italiano), si pone in un quadro completamente diverso da quello italiano: in Italia, la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio è sancita dall’art. 9 della Costituzione, mentre in Inghilterra, il National Trust è nato proprio per rimediare alla carenza di norme pubbliche di tutela.
Molto discutibile, inoltre, l’operato dell’organizzazione inglese negli anni. Scrive l’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis nella lettera Quell’idea di tutela inventata in Italia, pubblicata il 18 settembre 2013 sulle pagine del “Corriere della Sera”: “secondo Giles Worsley (England’s Lost Houses, London 2001), nei soli anni dal 1945 al 1974 furono demolite 476 ville in Inghilterra, 203 in Scozia, 33 nel Galles: tutte demolizioni decise dai proprietari per reinvestire sui terreni. Fra le ville demolite, uno dei capolavori di Robert Adam, la Big House di Bowood, Wiltshire (di cui fu salvata solo una stanza, ancora in uso a Londra come sala di riunioni dei Lloyds), nonché il massimo monumento del Greek Revival (Grange Park, Hampshire) e la più importante villa vittoriana in stile neogotico (Eaton Hall, Cheshire)”.

 
04

Le fondazioni miste sono il perfetto punto d’incontro tra pubblico e privato: il bene rimane di proprietà dello Stato e viene valorizzato dalla gestione privata

FAVOREVOLE

Affidare la gestione dei beni culturali a fondazioni miste pubblico-private rappresenta la nuova frontiera di alleanza tra pubblico e privato. Il bene culturale rimane un patrimonio pienamente disponibile al pubblico, ma parallelamente diventa un’attività di impresa, sostenuta dai capitali privati.
I progetti pilota del Museo delle Navi di Pisa e del Museo Egizio di Torino, nonché le esperienze mature dei Nuovi Uffizi di Firenze e della Scala di Milano, dimostrano che le reti miste possono conseguire, in tempi molto brevi, risultati che le istituzioni pubbliche da sole non sono state in grado di raggiungere.
Alle esperienze citate si somma il progetto Grande Brera, ennesima dimostrazione di come le privatizzazioni affidate alle fondazioni miste siano capaci di rivitalizzare e riqualificare luoghi di fondamentale importanza culturale, storica e artistica per il nostro paese.

CONTRARIO

I ruoli decisionali del soggetto pubblico e del soggetto privato nella gestione mista dei beni culturali non possono essere di uguale importanza, dato che i fondi portati dai privati risulteranno sempre minimi di fronte all’immenso valore dei singoli beni culturali. Con gli accordi stipulati, che hanno dato origine alle fondazioni miste (Milano, Firenze, Torino, Pisa ecc.), lo Stato tende a mettere se stesso in minoranza.
Una delle perplessità maggiori riguarda il rischio che questi network misti, o gli attori pubblici e privati che li compongono, non garantiscano una responsabilità di lungo periodo nei confronti degli effetti e delle criticità indotti. I progetti potrebbero dunque aggravare la parte pubblica, locale o centrale, dei costi e della gestione.
Il caso della fondazione Grande Brera è un chiaro esempio in cui lo Stato, detentore del patrimonio, immobiliare e mobiliare, perde il controllo tecnico-scientifico della gestione, che passa a soggetti privati.

 
05

La vendita del patrimonio immobiliare pubblico di valore storico e culturale rappresenta una valida soluzione per sanare il debito pubblico

FAVOREVOLE

L’Italia possiede 1.600 miliardi di beni non finanziari (edifici, terre, risorse del sottosuolo): privatizzarli rappresenterebbe un passo importante per sanare il debito pubblico. Secondo Nicolò Bragazza e Giovanni Gabriele Vecchio, gli immobili potenzialmente liberi, appartenenti alle amministrazioni pubbliche, valgono 42 miliardi, oltre 2,5 punti di PIL (cfr. Nicolò Bragazza, Giovanni Gabriele Vecchio, Debito pubblico e privatizzazioni, in Istituto Bruno Leoni, Liberare l'Italia. Manuale delle riforme per la XVII legislatura, IBL Libri, 2013, p. 28). Tra le forme sostenute: alienazione e cartolarizzazione.
Un'altra possibilità è la concessione del bene a tempo determinato: i soggetti privati, beneficiari della concessione, assumono la gestione e riconoscono una quota dei proventi al soggetto pubblico.

CONTRARIO

Impossibile privatizzare finché il Governo non renderà chiara la distinzione tra Demanio Generale e Culturale. Solo la prima categoria di beni può essere venduta. Le proprietà con valore storico o cultuale sono inalienabili, in quanto proprietà della comunità.
Dal punto di vista economico, va considerato quanto avviene per i servizi pubblici. Giovanni Pinna afferma che “l’ente pubblico è costretto a finanziare la nuova azienda, ormai privata, perché questa garantisca un servizio e costi socialmente accettabili. Nel campo dei beni culturali, lo Stato italiano trarrà dalla privatizzazione solo risibili benefici economici, in quanto mantiene ancora a sé l’onere della tutela, il che implica il lasciare immutate le strutture burocratiche e gli interventi finanziari necessari alla conservazione del patrimonio” (Giovanni Pinna, La privatizzazione dei musei e del patrimonio, in Roberto Cassanelli, Giovanni Pinna, Lo Stato aculturale. Intorno al Codice dei Beni Culturali, Jaca Book, 2005).
Critiche anche al D.L. 133 del 12/09/2014: il “silenzio-assenso” introdotto in materia urbanistica e paesaggistica va contro l’art. 9 della Costituzione.

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